C’erano parecchie cose che nessuno sapeva di Lucio. Quando era ancora molto piccolo, il babbo di lui lo portava una domenica su tre a far visita ai loro parenti di campagna: gente che rideva e beveva forte, aveva pochi denti – o anche nessuno – che rovistavano cogli steli del grano nella controra della siesta. Anche sulla siesta, poi, il babbo trovava parecchio da ridire, perché per lui era assolutamente inconcepibile che un cristiano dopo mangiato passasse due ore abbondanti senza fare nulla.
Con loro era molto gentile, il babbo, ma tornando a casa, a Mestre, sputava tre volte per terra e minacciava il piccolo Lucio:
Se diventi come quelli là t’ammazzo!
Quelli là erano, ovviamente, i loro cugini di campagna, un ramo cadetto della famiglia decaduto da secoli e che non aveva mai fatto i conti colla prima rivoluzione industriale: non erano mai riusciti a elevarsi neanche di un capello dalla loro primigenia condizione di servitù della gleba: in corpo e in ispirito. La famiglia inurbata continuava con questi trogloditi a mantenere rapporti di cordialità e sostegno – con cui s’intendevano delle piccole donazioni in denaro un paio di volte all’anno – per una specie di cattiveria: exemplum o monito da mostrare ai propri piccoli di cosa sarebbe successo se per un giorno soltanto avessero smesso di spaccarsi la schiena dietro il bancone del bar di famiglia, loro gli inurbati, quattordici ore al giorno: a quale fetido, sudicio, mucido passo dell’esistenza sarebbero rinvoluti: terra erano e terra sarebbero tornati. Almeno non siamo come quelli là! Ecco una frase che in casa di Lucio era buona per tutte le stagioni e per ogni disgrazia. A cui faceva eco il motto della città:
Bisogna fare!
Fare, faticare, lavorare di gomito e di mani perché il corpo transustanziato dal sudore della fronte non si voltasse in terra una volta per tutte.
In verità Lucio c’era stato solo due volte a trovare quei cugini di campagna. Della prima volta non ricordava niente. Della seconda volta, invece, conservava nella memoria un ricordo tristissimo. Tutto era cominciato quando il babbo, impegnato in una conversazione fittissima tutta gesti e grugniti con quei parenti di campagna, gli aveva detto:
Va’ a giocare, va’.
Così gli aveva detto indicandogli la porta con un gesto perentorio. Ma in quelle campagne, in quella stagione, i bambini della sua età dopo la scuola non giocavano affatto, ma lavoravano nei campi: e così Lucio si era messo a vagolare per le colline. Aveva visto ragazzini già bruniti dal sole che dissodavano la terra rivoltandola col vomere – i più fortunati cominciavano a possedere dei piccoli trattori, alcuni altri legavano ancora l’aratro al bove, e i più poveri e cenciosi, gente colla faccia nera di sugna e di terra, si davano da fare come potevano colla vanga – e poi le stie piene di galline e di chiasso, le strade bianche di breccia che s’assottigliavano in esili tratturi che andavano a morire laggiù, nel folto dei campi... e dappertutto gente che sudava, alzava e calava gli attrezzi agricoli su quella cosa marrone e molliccia che è la terra, al ritmo della luna e della stagioni, senza cambiare mai.
Cammina cammina, Lucio era arrivato in fondo a quel paese e agli appezzamenti che come petali gli si aprivano tutt’intorno. L’ultimo campo, il più desolato di tutti, era un campo immenso e già dissodato, e dove non si vedeva nessuno. Solo, in mezzo al campo, un puntolino. Avvicinandosi Lucio si era accorto che si trattava di un fico, e sotto al fico c’era una garenna, e di fianco alla garenna una bambina piccolissima che doveva avere suppergiù la sua stessa età e che, al contrario di tutti gli altri abitanti di quel paese perduto alle mappe e dimenticato da dio, sembrava non fare niente: assolutamente niente eccettoché stare seduta sulla sua sediolina a guardare Lucio avvicinarsi.
Lucio le aveva fatto un cenno come per salutarla, o forse per chiederle il permesso di unirsi a lei. La bambina gli aveva sorriso. Sotto al fico, però, c’era puzza di merda di coniglio, e dalla garenna veniva un gran baccano: fischi, stridii, urla piene di foia dei conigli che sembravano sempre lì lì per accopparsi a vicenda. Il piccolo Lucio aveva chiesto alla bambina cosa ci facesse lì sotto. Faceva la guardia ai conigli? La bambina, senza profferir parola, aveva allargato un grandissimo sorriso, poi gli aveva fatto un gesto come per invitarlo a sedersi sulle foglie secche di fianco alla sua sediolina. Lucio si era seduto per davvero, poi aveva ripetuto la domanda. Ma la bambina non aveva risposto; semplicemente, lo guardava e sorrideva. Allora Lucio aveva tirato fuori dallo zainetto il suo più grande tesoro: l’album delle figurine dei calciatori, quello con Carlo Parola che fa la rovesciata in copertina, e si era messo a sfogliarlo. Finalmente la bambina gli aveva chiesto:
Cossa che lezi, vaccadi’?
Stavolta era stato Lucio a sorriderle senza rispondere, perché non aveva capito nulla. Perché a casa sua il dialetto era proibito e certe parole, lui, non le aveva mai sentite. Allora, quando la bambina aveva ripetuto la domanda, Lucio aveva puntato il dito verso l’album scorrendo le pagine lentamente per farle vedere di cosa si trattava. Era un album bellissimo che Lucio faceva da molti mesi e aveva quasi completato. Era spaginato in più punti, certo, e tutto liso sui bordi, ma era pur sempre il suo grande tesoro, e lo portava con sé dovunque andasse. E dopo moltissimi scambi e contrattazioni, scommesse e partite di biliardino cogli amici, adesso aveva anche la figurina di Carlo Parola, proprio quella della copertina. Lucio dapprima le aveva fatto vedere l’album dalle sue mani e poi, fidandosi, l’aveva lasciato in quelle della bambina. Lei rapita si soffermava sulle figurine luccicanti, e le guardava controsole per estasiarsi di fronte a quella maniera tutta loro di prendere la luce. Di tanto in tanto lei farfugliava qualcosa in quel suo idioma incomprensibile tutto sgrullo di vocali e vaccadi’. Ma a un certo momento a Lucio era scappata la pipì, e siccome si vergognava maledettamente di farla lì dietro al fico, aveva affidato l’albo alla bambina e aveva preso la via dei campi.
Aveva camminato senza voltarsi fino al limitare di quel campo che sembrava non finire mai, poi, con quel suo pudore di bambino di città, si era guardato attorno ben benino, e solo allora si era abbassato i calzoni e le mutande e aveva cominciato a orinare. Ma qui era successo l’imprevedibile. Da dietro un cespuglio di fronte a lui, aveva fatto cucù la testa di un ragazzaccio brufoloso. Avrà avuto sì e no diciassette anni, era biondo come la paglia e lo stava guardando proprio lì, a Lucio: nel pistolino. Lucio s’era voltato dall’altra parte, ma il ragazzo era scattato in piedi e l’aveva raggiunto con due balzi. Lucio allora era andato proprio nel pallone e aveva cominciato a pisciarsi sulle scarpe. Il ragazzo lo osservava fischiettando colle braccia puntate sui fianchi, e ogni volta che Lucio si girava per sottrarsi alle sue occhiate di scherno anche il ragazzaccio si voltava. Tanto che Lucio si era risolto di finire la minzione cogli occhi chiusi. Poco prima di riaprirli, mentre si stava rabbottonando la bottega, il ragazzaccio gli aveva urlato in un orecchio:
Viva il vermut!
Ma quando Lucio aveva riaperto gli occhi già non lo si vedeva più da nessuna parte. Era sparito, sto ragazzo: sparito.
Discendendo la china dei campi per tornare al fico e alla bambina minuscola, Lucio si era accorto di uno strano fenomeno. Le campagne tutt’a un tratto non rimbombavano più di quell’assurdo stridio di conigli. No, al suo posto si diffondeva invece una risata limpida di bambina... Lucio non si sarebbe mai scordato la scena di orrore che gli si era presentata di fronte agli occhi quando era tornato al fico. La bambina, questa volta in piedi, stava sporgendosi oltre la garenna per dare qualcosa in pasto ai conigli: in una mano stringeva l’albo delle figurine e, nell’altra, dei fogli spaginati da cui strappava lunghe striscioline che appallottolava e lanciava dentro la garenna... i conigli brulicavano, e saltandosi addosso in una lotta mortale cercavano di acchiappare quelle pallottole di carta e figurine. La bambina rideva e rideva, perdutamente rideva, forse perché, per la prima volta, era riuscita a chetare i conigli...
Di certo non era stata la rabbia a cogliere il piccolo Lucio alla vista di quello scempio che lei aveva fatto del suo grande tesoro. Al posto, una tristezza che gli scavava nel petto e nei polmoni, e adesso lo faceva annaspare affannosamente alla ricerca dell’aria... poi Lucio aveva provato un desiderio irrefrenabile di piangere e di correre via. A parte forse qualche lacrimuccia, aveva dato sfogo solo a quest’ultimo desiderio, ed era corso a perdifiato per tutti i campi, inciampando sulle zolle e sui sassi, fino a tornare a quel cascinale dove il babbo stava già salutando l’ultimo sdentato parente prima di andarsene.
Per il resto, della giovinezza di Lucio non c’è granché da dire. Fin dalla tenera età, il babbo lo aveva messo dietro il bancone del bar a fare tutti i tipi di mestieri: preparare i caffè, farcire le briosce, mescere i cocktail, e via discorrendo. Ben presto si era manifestato in lui un dolore cronico alle giunture delle dita e del polso che non gli causava nessuna deformità, nessuna irritazione cutanea, nessuna infiammazione articolare. Impossibile da localizzare con qualsivoglia strumento scientifico, intrattabile cogli antidolorifici, si trattava di quella che una volta Lucio aveva chiamato "allergia al lavoro", e per cui i dottori all’epoca non avevano trovato nome più adatto di “artrite fantasma" o "artrite isterica". Nei giorni migliori si sentiva le mani legate da un fascio di pampini di vite che, se non gli impedivano del tutto i movimenti, riducevano di molto la sua attitudine al lavoro; nei giorni peggiori quel male oscuro lo costringeva a letto e gli faceva salire una febbre da cavallo che gli appannava la vista e lo spingeva fino alle soglie del delirio e dell’allucinazione, prima di tutto acustica: da tutti i muri sentiva avvicinarsi un suono cupo e grave di slavina, come se una gigantesca palla di fango, sempre più prossima, fosse sul punto di raggiungerlo e frantumargli tutte le ossa, e lui steso a letto si divincolava cercando di levarsi di torno, doveva levarsi di torno prima che quel lugubre rotolio lo investisse una volta per tutte... poi silenzio. Silenzio assoluto. Un silenzio come di fango e d’ovatta. L’allucinazione, allora, diventava soprattutto olfattiva – sentiva odore di patatine, e di baccalà mantecato, e di olive marinate, e di sarde in saor – e visiva. Vedeva mani dappertutto. Mani che ammannivano cicchetti, mani che lavavano boccali e tazzine, mani che servivano ai tavoli, mani disincarnate e fluttuanti che nel buio del bar gettavano stracchissimi colpi di spugna sul bancone; mani, mani, mani dappertutto... e dietro quel gran carosello di lavori la voce di suo padre che tuonava, severissima:
IL FARE!!
Allora Lucio si sentiva le mani di fango incapaci di stringere qualsiasi cosa, e il ventre pieno di terra: terra che gli saliva alla gola coi lombrichi, il pietrisco, le radici e tutto, e gli montava in su la testa fino a battergli nelle tempie per poi fiottare in colate di melma dal cavo degli occhi e dalle narici: tutto melma si sentiva, limaccioso e lutulento fin dentro le ossa... vomitava e sveniva.
Attorniato da volontà troppo più forti della sua, Lucio non aveva mai preso nella vita una decisione che si potesse ascrivere per intero alla sua responsabilità. Anche quella prodigiosa facilità per la matematica l’aveva scoperta come per inerzia un pomeriggio dei suoi tredici anni che si era fratturato un braccio e il padre, al ritorno dall’ospedale, l’aveva messo a sedere nel retrobottega del bar di fronte al libro mastro.
Almeno mi aiuti a fare qualcosa!
Ma era proprio in quello stanzino che Lucio aveva incontrato il suo destino. Si trattava di uno sgabuzzo misero, poco più che un ripostiglio delle scope, tutto pieno di scatoloni e scansie arrugginite, e dove una vecchia lampada alogena, ronzando, proiettava un cono di luce giallo catarro sopra un banchetto di formica. Sul banchetto c’era il libro mastro e una pila di scontrini; sulle scansie si trovavano un manuale di contabilità e uno di economia aziendale, entrambi muffi e pieni di orecchie. In meno di mezzo pomeriggio Lucio aveva disbrigato tutta la contabilità del bar dagli albori fino a un punto x nel futuro, e senza toccare la calcolatrice. Al babbo non aveva detto nulla. Per diversi mesi ancora era rimasto nel retrobottega. Risolveva la contabilità e poi si buttava sui quei due manuali. Coltivava quella passione per la matematica come un progetto di evasione dalle volontà altrui.
I professori a scuola non avevano tardato ad accorgersi del suo talento smisurato per i numeri e l’avevano mandato all’agone regionale, prima, e alle olimpiadi della matematica, poi. Durante gli anni delle superiori Lucio aveva cominciato a studiare, sempre per suo conto, la matematica dei sistemi complessi, la meccanica dei fluidi e la geometria a quattro dimensioni. Come di una divinità minore, la voce si era sparsa in tutto l’istituto che Lucio era un vero genio della matematica, e che sicuramente un giorno avrebbe vinto la medaglia Fields e forse persino il Nobel. L’ultimo anno delle superiori i professori avevano convocato il babbo di Lucio e gli avevano spiegato la situazione. Consigliavano caldamente gli studi di matematica pura. Il babbo, che era venuto al colloquio senza neanche levarsi il grembiale da barista, ascoltava e si allisciava le punte dei baffi. Ci aveva pensato un attimo su, poi si era tirato uno schiaffo sul panzone da oste e aveva esclamato:
Niente da fare! Io lo mando a economia aziendale
Lucio avrebbe forse voluto obiettare, ma un’occhiata del padre era stata sufficiente a convincerlo altrimenti. Era un verdetto inappellabile: e così Lucio si era iscritto alla facoltà di economia aziendale con grande rammarico dei professori. Si era deciso di iscriverlo all’università di Venezia, poi, perché così nelle ore buche sarebbe potuto tornare a Mestre a lavorare nel bar dei genitori.
Ma alla fine del primo anno di università era successa una disgrazia. Una notte che non si spicciava più a tornare a casa, la mamma e Lucio avevano trovato il babbo stramazzato sul bancone del bar. C’era rimasto lì, freddo, collo strofinaccio ancora in mano, mentre stava facendo la chiusura. Nel rigor mortis ci aveva l’espressione un po’ dispiaciuta e un po’ incazzata di chi s’è n’è dovuto andare al diavolo lasciando un mestiere a metà.
Triste da dire, ma il giorno del funerale di suo babbo Lucio non aveva provato alcun dolore. Si sentiva addirittura sollevato, e di lì a qualche mese erano scemate fino a scomparire del tutto quelle allucinazioni che lo torturavano fin dall’adolescenza. La vita gli sembrava un po’ più vuota e molto più leggera.
Per la prima volta gli era capitato di sedersi al bancone di un bar dalla parte del cliente. Si trattava di quel bacareto di Santa Margherita dove Lucio avrebbe incontrato il suo grandamico Righetti. Righetti, lui, era un giovanotto che doveva avere giuppersù la sua età, ma già vistosamente ingobbito sotto al peso di chissà quali preoccupazioni, e colle guance sporche di una barba di tre settimane e gli occhi cerchiati di occhiaie nere come susine. Era anche straordinariamente sciatto nell’abbigliamento, nonostante tutti dicessero che fosse ricchissimo perché fino a qualche anno prima era stato un vero prodigio della musica, e aveva suonato al cospetto di re, principi e capi di stato. Eppure niente di quello splendore emanava dal ragazzo seduto laggiù, in fondo al bacareto nel cono d’ombra di un cipresso, chiuso in chissà quali meditazioni che accompagnava con una sigaretta dagli odori indici. La prima volta Lucio si era seduto al suo tavolo perché quello di fronte a Righetti era l’unico posto disponibile. Non si erano detti nulla, ma ciascuno percepiva una certa affinità e uno strano senso di compagnia. Il giorno successivo Lucio – che aveva appena scoperto che l’alcol si poteva anche bere, oltreché servire – era tornato nello stesso bacareto. Righetti sembrava non essersi mai mosso da lì. Nonostante il bacareto non fosse del tutto pieno, Lucio si era seduto al tavolo di fronte a lui. Di nuovo non si erano detti nulla. Il terzo giorno avevano cominciato a parlare, e subito erano diventati migliori amici.
Righetti l’aveva iniziato ai piaceri dell’ozio senza sentimenti di colpa, all’alcol, alle sigarette, alle donne, all’arte e, soprattutto, all’hashish. E coll’hashish Lucio finalmente metteva il babbo a nanna nella tomba come che nella coscienza. Si recavano nei bacari di Santa Margherita tutti i giorni e tutte le notti. Nell’ozio e nel fumo Lucio aveva pensato di trovare qualcosa di sé stesso. Righetti gli parlava soprattutto di musica, e lui gli rispondeva colla geometria a quattro dimensioni. Si sarebbero dette due menti completamente estranee, e invece s’intendevano alla perfezione.
Il tempo passava e Lucio si era sposato, e con una donna molto ambiziosa. Poco dopo il matrimonio, con grande dispiacere di lei – e rabbia – Lucio aveva abbandonato gli studi e aveva aperto una parrucchieria. La notte ascoltava la moglie dormire e il russio di lei gli sembrava tutto un discorso ricattatorio contro la sua piccolezza, la sua mancanza d’ambizione, contro quella sua volontà di bietola cotta con cui aveva mandato tutti i suoi i suoi talenti a schiantarsi contro il muro della pigrizia, della soddisfazione così così, della felicità intesa come semplice assenza di dolore, della rinuncia a ogni potenza. Ascoltava la moglie russare e si sentiva molto piccolo anche di fronte al sonno di lei.
A un certo momento la moglie l’aveva costretto a sottoscrivere un’assicurazione sulla vita. E così negli ultimi anni con orrore Lucio ascoltava la moglie russare, si rimemorava di quella assicurazione sulla vita e si chiedeva se lei si sarebbe mai spinta fino ad accopparlo. Si rispondeva che no, che per quanto lui la deludesse lei era pur sempre la sua polpetta e – da qualche parte molto in fondo al suo cuore – ancora lo amava, e che perciò non l’avrebbe mai fatto secco. Il seguito prova che aveva torto. Uno non pensa mai abbastanza male degli esseri che ama.
[NOTA: LA MOGLIE DI LUCIO, O POLPETTA, O MARTINA... VOLETE SAPERNE DI PIU'? LEGGETE QUI]