La casa di via Ghibellina

La casa di via Ghibellina

 

Al secondo piano di via Ghibellina 71 c’è un appartamento tagliato in due dal pianerottolo. Da una parte una stanzetta stretta e alta, coi muri grossi intonacati di bianco, che dà sulla strada. Aldilà del vano scale, il resto della casa.

La casa è piastrellata di graniglia. Stanzetta a parte, è composta da un lungo corridoio che sfocia in una camera da letto, più un bagno e una cucina.

In cucina ci sono una grande stufa a gas, compresa di forno, un lavello di pietra e un piano di legno bianco. Al centro un tavolo rotondo con quattro sedie di legno scuro, ma altre due sono schierate lungo una parete nuda, in attesa di ospiti. La finestra dà su un cortile dentro cui s’inerpica un alberello nudo d’inverno, ricoperto a primavera da una peluria di foglie, che diventano scaglie nei mesi caldi. È una finestra senza tende, trafitta, nelle mattine serene, da una spada di luce che si sgrana, lentamente, fino a sera.

La ragazza ha subaffittato la stanzetta da due sorelle di Reggio Calabria, studentesse di medicina. Due ragazzone dai capelli corvini, indomabili. Una burbera, l’altra timida.

La burbera indossa delle gonne a quadrettoni, a quadrettini, di una stoffa rigida, con due pieghe simmetriche ai lati, gonne da cui spuntano dei solidi polpacci. Abbina le gonne a golfini a girocollo di lana soffice, un po’ pelosetta, color pastello, chiusi con un bottoncino di madreperla sul dorso, golfini che tradiscono una qualche dolcezza.

La timida porta con orgoglio dei pantaloni stretti, che esaltano i fianchi robusti e le cosce corte.

La burbera disapprova e quasi litigano. Così conciata sta malissimo, una gonna la slancerebbe.

La timida si lamenta, uffa, non le va mai bene niente.

Cambia stanza per evitare lo scontro.

L’altra insiste, ma la sorella non sente ragioni. Sbotta. Le gonne non sono più di moda, invecchiano.

Il cuore della casa è la cucina, perché le sorelle, in particolare la timida, vi passano ore e ore a tritare, impastare, infornare, sorvegliare cotture, mentre ripetono ad alta voce, correggendosi reciprocamente, elenchi di ossa, muscoli, legamenti, patologie del miocardio, e così via.

La casa è spoglia, le pareti bianche, il pavimento nudo, ma tutto è pulito e in ordine. Sembra in attesa di qualcuno che all’ultimo momento ha dato buca.

Ogni cosa ha un suo posto preciso, immutabile.

La pulizia degli spazi comuni si esegue a turno. La burbera sbuffa contro la ragazza che se la sbriga in fretta, lasciando negli angoli tracce di sporcizia, il water incrostato, il lavello unto, impronte sul pavimento, e tocca a lei rimediare. La timida le insegna come si usa lo straccio: che andasse sciacquato dopo ogni passata, e riposto pulito alla fine del lavoro, è per lei una scoperta.

La stanza della ragazza, cui la timida ha rinunciato per qualche soldo in più, è piccola, ma il soffitto alto la fa sembrare grande.

Quando vi era approdata, la ragazza era molto triste. L’urgenza di una sistemazione l’aveva arenata lì, la cui desolazione esacerbava la sua propria pena.

Ma la finestra si affaccia sulla strada e ci ha appeso delle tendine a righe bianche e gialle, che fanno luce. Poi ha imparato a riconoscere i rumori che salgono dal marciapiede, quali passi e di chi. Quelli che passano e via, quelli dei vicini, quelli dell’anziano che esce col cagnolino. A volte, attraverso il pavimento, lo sente supplicare al telefono l’ex moglie, che lo riprenda con sé. Riconosce i passi che la fanno agitare, perché vivere senza passione non è vita, quelli che aspetta, quelli per cui spegne subito la luce e finge di non essere in casa.

Nella camera c’è un armadio di legno scuro (attenti alle tarme, meglio proteggere le maglie), un lettino con la testiera in ferro (apre una brandina, quando qualcuno si ferma a dormire), un tavolino minuscolo, una sedia rossa, una scansia per i libri. Ma le lenzuola, sottratte al corredo della madre, sono di lino fine, ricamate a mano dalle suore.

Nel lettino con le lenzuola di lino, ogni sera, o la mattina indugiando, la ragazza legge Dostoevskij. Grushenka la fa piangere. Che amore, che sacrificio, che grandezza sublime. E intanto, in attesa di nuove, la vecchia pena è passata.

Ora le piace quella stanza, ma la cosa seccante è andare in bagno di notte. Uscire nel freddo delle scale, infilare la chiave nell’altra porta, avanzare al buio per non svegliare le coinquiline, trovare finalmente il cesso. Peggio ancora quando qualcuno dorme con lei e a un certo punto è necessario una sciacquata. Le sorelle non gradiscono, si sentono in pericolo.

Durante le feste lunghe e le vacanze, le due sorelle rientrano a Reggio Calabria, in treno.

Puntualmente i genitori spediscono i soldi per i biglietti di prima classe. Sempre oculate, in questo caso non badano a spese, è in gioco il loro avvenire. Se in viaggio incontreranno qualcuno, sarà qualcuno di riguardo. Il treno è un’ottima occasione per fare conoscenza. Loro in genere escono poco, un po’ per timidezza, che il mondo è grande e si può perdere la strada, un po’ per non cadere nella tentazione di spendere.

Invece, nell’intimità del vagone, soprattutto quando viene servito il pranzo, che in prima classe non sta bene portarsi dietro involti e involtini, anche se un buon panino con la frittata, per ogni evenienza, da consumare in segreto alla toilette, lo si ficca in borsa, insomma, in quel vagone di prima classe di cui hanno regolarmente pagato il biglietto, niente di più facile che attaccare discorso, e poi, di parola in parola, scivolare in quella gradevole intimità che è la premessa di ogni relazione seria e duratura.

Proprio sulla tratta Firenze-Reggio Calabria, scendendo per le feste di Natale, la timida ha incontrato un ragazzo di Potenza, che si è accomodato nel suo vagone per sbaglio e lì è rimasto, finché il controllore non l’ha ricacciato al suo posto. La timida lo segue in seconda classe, dove consumano in allegria il panino con la frittata. Si separano a Salerno, quando il ragazzo cambia treno.

La burbera è inferocita. Tanta spesa, un’elaborata strategia, per poi incocciare in un morto di fame qualsiasi. La timida è irremovibile: è un ragazzo gentile, di buona famiglia. Non ricco certo, ma è istruito e col tempo, lei a medicina lui a legge, si sarebbero fatti strada. C’è di peggio a questo mondo, guarda quegli spiantati, per esempio, senza posizione né principi, che la ragazza riceve addirittura in camera. Vuole forse ridurla così?

La sorella cede.

Il viaggiatore è un tipo riservato, veste sempre di scuro, forse perché si lava poco. Non che puzzi, ma gli abiti gli s’incollano addosso e sanno di pelle. In compenso ha un viso tondo e gradevole, gli occhi azzurrini.

Ha l’abitudine di capitare all’ora di pranzo, tormentandosi le unghie per l’imbarazzo. La timida dà il meglio si sé: pasta alle melanzane, salsicce ai funghi, peperoni ripieni. Per rallegrare la compagnia e dare a quegli incontri un carattere più ufficiale, le sorelle invitano anche la ragazza, che ne approfitta senza tanti complimenti.

Lo studente alterna lunghi silenzi a discorsi appassionati. Racconta della sua bella città arroccata sulla montagna, del vento gelido che s’infila nelle strade e sferza il viso, di casa sua, dei genitori impiegati al catasto, della madre che resta sveglia a cucire per i figli, dei nonni contadini, della sorella bellissima che l’avrebbe raggiunto dopo la maturità. I genitori confidano in lui perché non incappi in qualche mascalzone, un giorno a letto con una, il giorno dopo dietro a un'altra. Lui, dichiara, punta a una relazione seria, a una ragazza coi piedi per terra, in grado di condurre una famiglia, una donna come sua madre, insomma, non una di queste puttanelle di oggi che, con permesso parlando e senza offendere le presenti, si accoppiano come cagne.

La timida s’illumina e gli sfarfalla intorno. La burbera annuisce. Dalla finestra entra una luce tenera e fresca, che danza in mezzo ai piatti. È primavera, ormai.

Ma il viaggiatore non parla alle sorelle, la ragazza lo sa. Ogni volta che per un attimo i loro occhi s’incrociano, la faccia di lui s’infuoca e a lei sfugge un mezzo sorriso.

Fu la burbera ad accorgersene e corse ai ripari.

Bussò alla cameretta della ragazza, le spiegò con voce rotta (non era così burbera, in fin dei conti) che studiare e dormire nella stessa stanza con la sorella le era divenuto impossibile, avevano assolutamente bisogno di spazio. Tranquilla, non la cacciava via, ma prima trovava un nuovo alloggio, meglio sarebbe stato.

 

La ragazza e occhi azzurrini si ritrovarono l’autunno successivo, in un tardo pomeriggio in cui soffiava un venticello umido, che prometteva pioggia. Sbatterono naso contro naso sotto il portico della facoltà di lei, dove lui confessò di averla cercata più volte. Il viso un po’ smunto, sembrava invecchiato e stanco. Propose di accompagnarla a casa.

Lungo il tragitto le raccontò che aveva smesso di frequentare la timida, non voleva illuderla, lei già insisteva per presentarlo ai genitori e non gli sembrava giusto continuare ad approfittare della sua cucina.

La sorella bellissima, che avrebbe dovuto raggiungerlo, aveva invece optato per Roma e non si capacitava che i genitori avessero ceduto a quella follia. Lui si sentiva un po’ solo, arrancava dietro gli esami.

Nel nuovo appartamento di lei, bevendo un tè nerissimo e passandosi una canna che la ragazza aveva prontamente rullato, chiacchierarono ancora a lungo, intrecciarono le dita e accostavano sempre di più le labbra.

Un attimo prima di unirle la ragazza si alzò per chiudere dall’interno la porta di casa.

Il suo compagno, gli spiegò, sarebbe capitato a breve. Nessun problema, bastava ignorare le eventuali scampanellate. Lui non arrossì, ma sgranò gli occhi azzurrini, si rizzò in fretta e si congedò.

Un ragazzo riservato, vestito di scuro, che sbaglia vagone, che sbaglia tempo.

 

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