Solo che qui ci sono i nomi

Solo che qui ci sono i nomi

Matteo 12:36-37 
Gesù dice: "Ma io vi dico che gli uomini renderanno conto, nel giorno del giudizio, di ogni parola vana che avranno pronunciata; poiché dalle tue parole sarai gustificato e dalle tue parole sarai condannato"

La vecchia suora finisce di asciugare il piatto e lo ripone in pila sopra un altro; spegne il lume più grande e ne accende uno più piccolo al centro della stanza, accanto al tavolino di ferro che le fa da scrivania. Si siede.

La vecchia suora non è in realtà molto vecchia, ma a volte non ricorda neanche lei gli anni che tiene: non sono domande che si pone. Ha tra le mani ossute un dattiloscritto voluminoso con una copertina anonima di colore giallo spento, piega l’angolo destro del volume e prende a far scorrere velocemente tra le dita i numerosi fogli, dall’ultimo al primo. Non lo fa per cercare una pagina, un appunto, o per verificare non ci siano errori; facile che il suo sia un gesto meccanico, meglio istintivo come una carezza che si dà a una persona che sai non vedrai per molto tempo. Solo dopo una piccola pausa che non chiamerei esitazione, afferra una penna e sulla copertina giallo spento comincia a scrivere: «Solo per lei Signor Presidente, è tutto negli atti processuali, solo che qui ci sono i nomi. Riservato». Ora, la vecchia suora o la suora ossuta o semplicemente la suora pensa che sia tutto finito o in procinto di finire, che finalmente si potrà aprire la stagione della pace; eppure, forse, gli ronzano come moscerini ancora delle domande, ma lei ha imparato come cacciare via queste domande. È in piedi e vicino alla rete del letto comincia a spogliarsi dalla tonaca cominciando dal velo, viene distratta da voci o forse risate che provengono da fuori la porta; voci sommesse e confuse ma non domande. Siede sul bordo del letto e riguarda il dattiloscritto illuminato al centro della stanza.

Esistono risposte, deve pensare, che serrano le labbra a qualsiasi pensiero e dubbio; questa cosa che c’è o forse che non c’è, ma comunque aleggia, acquisisce di giorno in giorno sempre più forza, fino a valersi sull’animo umano, tenendolo prigioniero, plasmando il suo vuoto, riempiendolo di mostri invisibili ma troppo grandi da combattere. È semplice, come il buio che disfa la luce. L’incurabile operosità del dubbio tortura chi nonostante tutto si affanna solo a vivere. Il dubbio e il sospetto lasciano tutti nella solitudine, impediscono la visione, la fede. Riducendo gli uomini solo a degli automi; la vita implica continui atti di fede. E allora chi sono questi solerti ricercatori di verità? Verità porose. Verità fragili.

L’unica verità è Dio, e qui la verità è solo un cadavere rannicchiato.

Certo, anche lei aveva conosciuto il buio, giorni pieni di nubi e incertezze ricordava, anche se ora i ricordi erano adombrati sempre più da una patina, da una fuliggine che le impediva di vedere tutto chiaramente, con un senso logico che sicuramente c’era, ma che lei non ravvedeva più; i suoi ricordi, ecco, non erano più disciplinati ma riaffioravano senza evidenti perché. Ricordava un pomeriggio nel suo paese in Calabria, pioveva o forse minacciava solo pioggia, e lei stava andando in salita verso il belvedere, al castello o forse alla chiesa. Lei saliva e sei, sette, bambini, zompafossi veloci in bicicletta scendevano e le sbarrarono la strada e presero a ridere, ad urlarle contro, come ti sei conciata? scopa; racchia; strega. La provincia, o forse i giovani anni, non concedevano molta fantasia alle loro parole. Le urlavano contro additandola; anche il figlio del commesso che quando stava solo non avrebbe mai avuto il coraggio di chiamarla così. Lo sconforto che sentì fu feroce e ricordava di averli maledetti tutti questi bambini, uno ad uno, e che in molti casi le maledizioni andarono a buon fine. Ricordava la vertigine e lei che proseguiva verso il belvedere, una strada di poche centinaia di metri ma che lei ci mise molto, molto tempo per percorrerla, i suoi passi che si arrestavano e i suoi occhi che si fissavano su tanti particolari, i nodi del legno di un albero, la cancellata verde di una casa forse disabitata, una scritta su di un muro con un errore grammaticale, quale errore però ora non le tornava in mente. Come se ognuna di queste minuzie potesse suggerirle chissà cosà. Che strano meccanismo la memoria, perfetto eppure imperfetto, che seleziona, scarta e quando vuole distorce. C’era questa donna enorme davanti a lei, la donna più grossa che avesse mai visto in vita, con la faccia di un mastino; una suora enorme con la faccia di un cane che le si avvicinò, la scrollò per le spalle e può anche darsi la schiaffeggiò e poi con una voce da serpentina le chiese: «Salve signorina cosa turba la tua anima?», ma forse non utilizzò quelle parole, ma altre e poi proseguì sibilando: «Adesso è l’ora di smettere di avere paura! Non puoi permettertelo!».

Non sapeva perché quelle immagini stavano nuovamente comparendo proprio ora e non riusciva a ricordare il preciso momento nel quale conobbe Dio; ma la memoria è così, un gioco di specchi. Poi la scelta di farsi suora, una delle serve di Maria riparatrici e i genitori, che di questa sua vocazione forse avevano sempre saputo o sperato, di certo tirarono un sospiro di sollievo quando lo seppero.

Ora, fuori la porta le risate e le voci sono cessate, la suora è seduta sul bordo del letto e come in un quadro fiammingo, illuminato, il volume dalla copertina giallo sporca è ancora lì.

Senza ricordi il tempo perde di significato, e il tempo non può dar retta a nessuno, procede a modo suo, rallentando o accelerando quando vuole. Quelli furono anni velocissimi. Era ancora giovanissima quando arrivò a Roma, la città santa; vorticosa, bellissima, la città con mille città dentro e poi il Vaticano, il Santo Padre. Il diploma da infermiera e il lavoro da infermiera, le preghiere, i ceri e i parenti dei malati che le portavano i regali e si buttavano ai suoi piedi spesso in lacrime, e lei diceva, alzatevi, non serve a nulla! Andate in chiesa!

Le singole vite, tutte minuscole davanti alla storia che non fa favori a nessuno, prima il boom economico e tutti i suoi orpelli, la lavatrice, le vacanze, la nuova Fiat 128. La televisione in tutte le case, sembrava tutta una pubblicità. I capelloni, i diritti urlati in piazza, gli scontri in piazza, e il Vietnam che nessuno sarebbe riuscito a indicarti su una cartina. Il divorzio! Gli omosessuali e ancora l’eroina, i sobborghi, vetri infranti, bombe, rapimenti, la recessione. I ragazzi armati. Quelli rossi e quelli neri.

Furono anni duri e confusi; non per tutti, ma per la maggior parte sì. Tutti, loro malgrado, avevano imparato ad essere prudenti, pronti al sacrificio e grandi risparmiatori. persone normali ma animate da un'ansia inspiegabile. Gente onesta, buoni cristiani, cattivi cristiani, comunisti e intellettuali che giravano le spalle e quando si ricordavano si accusavano tra di loro, si accusavano ma non ci credevano. Sembrava tutta una pubblicità.

La storia, anche se è fatta da loro, non è decisa da un uomo o un altro, la storia è un gioco più oscuro. Al pari di un sogno, in quegli anni difficili, la storia appariva come un accidente. E quando sogni, non ti fai domande ma accetti quel che ti capita oppure ti svegli e in quel preciso istante nel quale apri gli occhi sei fuori dal sogno, quindi sei morto.

In quegli anni, tanto efferati quanto veloci, sembravano tutti addormentati, confinati in un lungo sogno di un mondo perfetto e inesistente. Tutta una pubblicità. Ma, a dire il vero, si diceva ora la suora, il mondo sembrava diviso in due blocchi. Ben distinti. c’era chi faceva, chi si agitava, urlava e sparava e chi invece camminava pigramente e incerto come un Lazzaro, gente non più capace di abbracciare l’evento fondativo di Cristo nostro Signore; donne e uomini vivi che non sapevano più dialogare con i morti.

La suora ossuta, spogliata dalle sue vesti è davanti uno specchio consunto, prende con una spazzola a lavorare sui suoi capelli sciolti. Domani, il manoscritto lo consegnerà dentro una busta a mani sicure che a loro volta lo daranno ad altre mani sicure e forse ancora ad altre fin quando non arriveranno a destinazione e lei ne perderà le tracce.

Quand’è che aveva incontrato Dio veramente? Non lo rammentava; ora ricordava che a messa c’era sempre andata, sin da piccolissima, i suoi genitori del resto erano cattolici praticanti, ricordava l’oratorio, i sacramenti e la suora enorme con la faccia da mastino che la scrollava per le spalle e forse, inganno dell’età, ora gli attribuiva frasi che non aveva mai detto con quella sua voce da serpentina: «Guardati ragazzina, brutta come sei, solo la suora puoi fare! lo dico per te!». Le sembrava di ricordare così, ma non ricordava il momento preciso nel quale incontrò Dio. Insieme al lavoro da infermiera, cominciò in seguito a frequentare le carceri. Per dare sollievo, carezze ai sofferenti si diceva. E si diceva che fosse molto brava nel suo lavoro. Una parola per tutti, un pacchetto in più, una preghiera quando richiesta e soprattutto li ascoltava, avevano tutti un gran bisogno di parlare, parlare; i detenuti come i parenti e quest’ultimi a raccomandarsi, a ringraziarla, a dirle lei è una santa e lei che rispondeva di non bestemmiare e di pregare piuttosto per il figlio, il fratello, il padre che fosse. C’era di tutto in carcere, tante ferite da sanare, ricordava ladri, drogati, perfino uno stupratore; gente, in linea di massima, poco collaborativa, spenta e rassegnata. Con alcuni di loro fu molto difficile, le inveivano contro ad ogni visita pensando di ferirla o chissà addirittura spaventarla. C’erano loro, i cosiddetti detenuti comuni e poi c’erano i detenuti politici, prigionieri politici preferivano dire loro, ma per lei erano solo i ragazzi armati, i suoi ragazzi armati; loro erano diversi, gente viva che sapeva parlare e sapeva ascoltare, tutti con molte letture alle spalle o che le millantavano, la maggior parte provenienti da buone famiglie, non tutti però. Nessuno di loro si sottraeva alle domande, neanche quelle che potevano sembrare scomode e di domande gliene facevano tante anche loro: «Le sembra giusto questo Sorella? Le sembra giusto quest’altro?».

Chiedevano libri, alcuni che avevano già letto e glieli spiegavano o criticavano, pensatori francesi, tedeschi, ma anche italiani, e poi i giornali che leggevano con meticolosità, gli articoli che parlavano di loro certo, ma anche gli esteri e la pagina culturale e in ogni riga forse, pensa la suora, trovavano il vuoto, dietro quella instancabile meticolosità c’era il vuoto. E gli chiedevano anche quaderni per scrivere e le penne nere; e poi sempre le sigarette, così aveva iniziato anche lei a fumare. Accettavano la condanna ma l’accettazione nulla c’entrava con la rassegnazione, loro erano prigionieri e questo non lo si doveva dimenticare. Sentivano, con ogni probabilità, di avere la storia dalla loro parte, ma la storia già si è detto non appartiene a nessuno. La sera quando tornava nella sua stanza all’interno dell’ospedale, ci ripensava a questi ragazzi armati che tutto sembravano meno che spaesati ma che dovevano esserlo, e pensava alle loro parole, ma pensava anche alle vittime e pensava ai familiari delle vittime e allora univa le mani per loro in preghiera, un Salve Regina e una Maria ausiliatrice, “tra noi ci sono molti adulti sfiduciati e stanchi, sostienili, o Maria Ausiliatrice!” ma l’orazione veniva interrotta da un continuo eco che le soffiava in testa e nelle orecchie e che ripeteva, «Le sembra giusto questo Sorella? Le sembra giusto?».

Univa le mani per loro. Per tutta la vita, le sembrava ora di ricordare, aveva toccato mani, in ospedale e nelle carceri: mani deboli, mani malate, mani di malati, mani grosse, callose, umide, sicure; alcune, troppo sicure, che avevano sparato, erano mani potenti. Erano mani di potenti.

Strano meccanismo la memoria, ma la memoria non riguarda quasi mai la verità, la memoria come il dubbio è viziata, è solo un brandello smembrato, strappato via con la forza dalla verità. Parcellizzare, vivisezionare non serve a nulla. La verità è una e deve essere una, come la voce di Dio.

Sin dal principio e con il passare degli anni, durante i processi e le sentenze i ragazzi armati non avevano mai provato vero pentimento, ma solo un sentimento più vicino alla nostalgia. Parlavano, parlavano con lei come si poteva parlare a una madre, ma non cedevano su nulla, non avevano tentennamenti e così una rapina era solo autofinanziamento, i sequestrati dei prigionieri politici, il loro covo una prigione del popolo e un morto, un giustiziato.

Quella mattina aveva un epilogo già scritto, ma questo lo si poté capire solo in seguito.

«Giovedì 16 marzo, un nucleo armato delle Brigate Rosse ha catturato e rinchiuso in un carcere del popolo il presidente della Democrazia Cristiana. La sua scorta armata, composta da cinque agenti dei famigerati Corpi speciali, è stata completamente annientata».

C’era un'aria rarefatta e sospesa, come se tutti fossero stati infilati loro malgrado, con la forza, dentro un sogno che non gli apparteneva, che non li riguardava eppure era chiaro che riguardava proprio tutti e che nulla sarebbe stato come prima. Sarebbe stato impossibile tornare indietro. Tutti a fluttuare in una incertezza che non aveva nulla di naturale, tutti ad agitarsi restando fermi come bandierine al vento, richiamati all’ordine dalla sigla dell’edizione speciale dei telegiornali, dalle sirene spiegate, dal rumore degli elicotteri che volavano bassi sopra i tetti e la suora, ricorda, pregava, pregava di continuo: pregava per un miracolo ma non ci credeva e allora si concentrava sulla salvezza delle anime, sulla pace. Ma anche quello non era facile e così ricompariva davanti a lei la grande suora con la faccia da cane e la voce da serpentina: «È inutile che ti agiti, smettila, è morto, lo hanno già ammazzato, ammazzato».

“Ammazzato”, si ripeteva, ma poi le veniva da dire “ammassato”, e i velivoli in cielo tagliavano l’aria e allora non riusciva più a sentire la sua voce; ammazzato, ammassato.

Tutti confinati in un presente inerme e immobile, inesistente. Rimordeva a tutti la coscienza, ma l’uomo è un animale che si abitua a tutto, alle cose belle e alle cose brutte, questo è il segreto della sua longevità; ma le abitudini quasi mai sono cose buone.

C’era tanta confusione e anche l’onorevole contribuì a questa confusione, è cosa certa, i morti non parlano, né tantomeno si mettono a scrivere lettere.

«Se, voi, non intervenite, sarebbe scritta una pagina agghiacciante nella storia d’Italia. Il mio sangue ricadrebbe su di voi, sul partito, sul Paese».

Tutto un Paese a trattenere il fiato e quando la verità finalmente emerse, quando si spalancò quel portabagagli e tutti poterono vedere quel cadavere rannicchiato, tutti ripresero a respirare, tutti di colpo come risvegliati da un lungo coma.

Seguirono altri anni difficili, attentati, bombe e sentenze continuarono a scandire le giornate come la timbratura sul posto di lavoro. E continuarono a parlare, a scrivere, a dire la loro, a fare congetture.

A cosa serviva? Lo volevano forse ammazzare due volte?

E più le ripetevano le cose e più le facevano diventare vere, più le urlavano più si credeva che le cose fossero andate proprio in quel modo. Ma a cosa serviva tutto questo rumore? A chi serviva? I morti vanno lasciati in pace, al massimo pianti, ma non chiacchierati.

C’era un uomo, dal viso scavato, morto. Questo era.

A chi interessava se dietro ci fossero stati interessi dei servizi segreti o addirittura degli americani, della CIA, o se fosse stato tutto escogitato dalla loggia Propaganda due? e, ancora, se insieme ai ragazzi armati italiani avessero partecipato all’azione anche i ragazzi armati tedeschi della La Rote Armee Fraktion o se le armi che avevano sparato e quelle che si erano inceppate fossero o meno di matrice palestinese? Cosa diavolo importava! Un’arma è un’arma, spara, spesso uccide, è il loro lavoro. E ancora, sapere se ci fossero stati dei comunicati falsi o delle lettere del morto nascoste, tutto un agonizzante, incessante, fastidioso chiacchierio. E il lago di Duchessa e la seduta spiritica e l’oro del Vaticano e la quinta colonna e il fatto che non doveva essere lui ma un altro dello stesso partito… avrebbero forse fatto risorgere il morto?

Qualche anno prima, ricorda la suora, era già buio, prima dell’ora di cena, e suor Iride la venne ad avvertire in stanza all’ospedale che aveva una visita e si dileguò subito, prima che potesse chiederle di chi si trattasse. Si avvicinò alla finestra e sollevò le veneziane con una mano e vide nell’atrio due macchine lunghe e scure e, fuori, tre o quattro uomini vestiti uguali che fumavano e parlavano a voce troppo alta; si infilò un soprabito e fece per uscire dalla stanza per recarsi all’ingresso quando gli si parò davanti il Presidente. «Buona sera sorella, perdoni la visita inaspettata», disse «Mi invita ad entrare?», proseguì e senza attendere risposta varcò la porta. Era elegantissimo e se ne stava in piedi al centro della stanza, senza sedere né parlare. La suora forse lo invitò a sedersi o si scusò di non aver altro da offrirgli che acqua e lui chiese se poteva accendersi una sigaretta, tossiva come per schiarirsi la voce e, quando lo faceva, si portava davanti il viso tutta la mano aperta fino a coprirsi gli occhi. Le disse che aveva tanto sentito parlare di lei, che Padre Antonio e Padre Gabriele l’avevano fortemente raccomandata e gli avevano parlato delle sue tante qualità, e lei non sapeva chi fossero questi padri e per cosa l’avessero raccomandata. Parlava lentamente, prendendo delle pause che le sembrarono esagerate. Il Presidente le disse parole inattese, con una voce grave, come suggerite da altri; le disse che conosceva il suo delicato lavoro nelle carceri, le sue attenzioni, le disse che aveva piena fiducia in lei, che era ora di medicare il Paese, di non farlo crollare dinanzi a risibili dubbi. Disse che era necessario l’aiuto di Dio e forse la suora gli voleva rispondere, ma invece gli disse che in passato aveva pregato per lui. «Ho pregato per lei presidente!». «Spero che prosegua a farlo!», rispose e le prese le mani nelle sue mani e le parlò di un lavoro delicato che solo una persona devota e con la sua sensibilità avrebbe potuto svolgere. Non si trattava solo di parlare, ascoltare o riferire. «La verità è una sorella e deve essere una. Credo che lei capisca. Vogliamo pregare insieme Sorella?».

Una verità è giusta solo nella misura in cui è funzionale a un valore, altrimenti è irrilevante se non pericolosa. L’incertezza separa la parola dall’azione e dall’amore che deve essere il bene finale. Allora è chiaro che non servono tante domande ma una sola risposta. Certo, siamo responsabili delle nostre azioni, ma anche delle nostre parole; ce lo dice Cristo che è l’unica cosa che conta.

C’era questo ragazzo in un carcere vicino a Frosinone, che si faceva chiamare con un soprannome da cowboy, o uno da indiano, e che parlava in maniera differente dagli altri e a volte non parlava per niente, non si infervorava o aveva smesso di farlo, la sua voce era incerta e vacillante; parlava al passato, diceva noi avevamo ragione, noi credevamo; ma non vi erano certezze ferme tra le sue labbra. Era chiaro, pensa la suora, che non credeva a quello che diceva ma che lo ripeteva come una nenia per non considerare il fatto che avesse sprecato una vita, l’unica a disposizione. Quando la vedeva era felice e quando se ne andava le diceva non manchi per troppo tempo sorella, e poi le afferrava le mani e se le portava alle labbra per baciarle, La suora in quelle occasioni provava ribrezzo e pure lo lasciava fare.

E la suora non mancava, tornava spesso e più le parole del ragazzo si facevano esitanti, se non addirittura interrogative, più la voce della sorella diveniva ferma e perentoria. «E, ora, cosa pensi di fare della tua vita ragazzo?», alternava parole dure a parole dolci, «non è mai troppo tardi!», il ragazzo come tutti non era un pentito, ma un dissociato sì e aveva bisogno d’aiuto. E la suora tornava ogni giorno e lui la stava ad ascoltare, lei gli portava le sigarette e il cioccolato, e utilizzò tutti i suoi buoni uffici per ritagliargli una stanza con un personal computer tutto suo. «Cosa dovrei farci?», chiese e la suora rispose senza troppi giri di parole che era terminato o doveva terminare il periodo del chiacchiericcio, doveva scrivere tutto. «Tutto cosa?».

La verità. Ma una verità un po’ più semplice, senza inutili orpelli. Una verità organizzata che avrebbero compreso tutti e allora il ragazzo crollò, disse che non ne era capace, al ché lei gli alzò il mento e gli disse che certo che ne era capace e che non doveva preoccuparsi, l’avrebbero fatto insieme. «Lo faremo insieme!», disse e poi distese le ossute mani e gliele offrì per farsele baciare.

Nell’antico testamento è scritto che la morte e la vita stanno nel potere della lingua; e chi la ama, ne mangerà i frutti. È importante scegliere bene le parole che servono alla causa, con attenzione e intenzione.

È così che era andata, si dice ora la suora distesa a letto, ha difficoltà a prendere sonno e guarda ancora il volume dalla copertina giallo sporco, ma le sembra che sia diventato più piccolo, sempre più piccolo e sottile, vorrebbe alzarsi a controllare ma le sembra una cosa ridicola, vorrebbe alzarsi e verificare che non siano scappate le parole da quel volume, ma non ne ha le forze; ora deve dormire, smettere di farsi domande, domani finirà tutto. Ma prima di chiudere gli occhi o appena li chiude, vede salire sul soffitto l’ombra dell’enorme suora con la faccia da cane e la voce serpentina. «Brava ragazzina, dormi, hai fatto il tuo dovere; ora smetti di ricordare, i ricordi creano solo false verità. Ora dormi.»

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Il traduttore

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