E così Miriam la grassa, Miriam la stupida, aveva salvato il bambino. Miriam la cicciona che se si butta in piscina fa uscire tutta l’acqua, Miriam la scema che passa la ricreazione in classe perché nessuno vuole stare con lei, alla fine qualcosa di buono l’aveva fatto.
Il Sindaco stava per premiarla davanti a tutta la città, una città piccola, un paese, a voler essere sinceri, ma era la prima volta che Miriam non si sentiva a disagio stando tra gli altri.
C’era la sua classe, e tutta la scuola, e quasi tutti i docenti di ruolo. Dei supplenti c’erano solo quelli di sostegno; quello era un grande giorno per loro, soprattutto per il suo. Gli altri, ginnastica, musica, francese, non erano venuti. Del resto di lì a qualche settimana se ne sarebbero andati per sempre, sarebbero tornati nelle loro città, liquidando quell’anno come una parentesi sfortunata.
Miriam era raggiante mentre attraversava la sala comunale tra gli applausi. Camminava lenta, le gambe sfregavano una contro l’altra. Sua madre le aveva fatto mettere una camicia col colletto bianco e una gonna grigia e vestita così si piaceva, anche se non metteva quasi mai la gonna.
Forse i supplenti nelle nuove scuole avrebbero incontrato altri supplenti che avevano fatto un anno lì. «Dio – si sarebbero detti – era un incubo, c’era solo un bar in tutto il paese», e poi avrebbero parlato della nebbia. Di certo però qualcuno si sarebbe ricordato di lei, la ragazza grassa con l’insegnante di sostegno che a sedici anni era ancora in terza media, e allora il suo insegnante di quell’anno avrebbe raccontato che lei aveva salvato il bambino, e tutti si sarebbero dimostrati sorpresi, «Era una tua allieva?» avrebbero chiesto, e lui avrebbe detto di sì, e anche altri insegnanti che non la conoscevano avrebbero preso parte alla conversazione e alla fine della storia tutti avrebbero detto: «Ma che ragazza eccezionale» e il suo insegnante di sostegno avrebbe detto: «Davvero eccezionale», rimpiangendo quell’anno passato con lei.
Mentre si avvicinava al palco il Sindaco le tendeva le mani, poi la applaudiva insieme agli altri, e poi le tendeva le mani di nuovo, come se stesse chiamando un cane. Quando finalmente gli era arrivata vicino, però, aveva detto nel microfono: «Eccola qui, la nostra eroina», parlandole come a una persona vera, e tutti avevano applaudito ancora più forte.
Lei il bambino non l’aveva neanche visto, ma lo vedeva ora, in braccio alla madre. Gli avevano messo una giacca che lo faceva sembrare un vecchio, anche se aveva solo pochi mesi.
Il Sindaco le aveva consegnato il microfono e Miriam lo aveva preso, mentre la gente continuava ad applaudire. Si aspettavano che raccontasse di come lo aveva salvato, che raccontasse che la madre del bambino era svenuta e non poteva aiutarlo, ma lei se ne stava semplicemente lì, davanti a tutti, soddisfatta, mentre gli applausi iniziavano a scemare. Solo i suoi compagni stavano ancora battendo le mani fortissimo, finché le insegnanti non li avevano zittiti. Ferma in silenzio davanti a tutti, Miriam si sentiva bene, non come durante le interrogazioni.
Teneva strettissimo il microfono che le aveva dato il Sindaco e dondolava lenta a destra e sinistra. I suoi compagni la guardavano, la madre del bambino la guardava, il Sindaco la guardava, i suoi genitori la guardavano, e anche Miriam continuava a guardarli sorridendo, una fila per volta, una faccia per volta; l’intera cittadina concentrata su di lei, l’eroina. Non le staccavano gli occhi di dosso e sorridevano ancora tutti, ma forse un po’ di meno di prima, anzi, alcuni sorrisi iniziavano a essere più tirati e il silenzio scendeva sempre di più denso sulla sala comunale, sul tavolo con la tovaglia verde, sulle due composizioni floreali, una alla sua destra e una alla sua sinistra, sulla targa che il Sindaco le avrebbe consegnato, e Miriam lo sapeva che alla fine qualcuno avrebbe dovuto spezzare quel silenzio, e che quel qualcuno era lei, ma non era ancora pronta.