Tre ore
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Tre ore

 

Avevo comprato tre ore di silenzio da un venditore che incontrai per caso all'angolo tra via del Corso e via del Tritone, accanto alla bancarella del lettore di tarocchi. Non si può dire che fosse economico. Mille euro per tre ore di silenzio assoluto sembravano una spesa eccessiva, ma ero stanco, tremendamente stanco del rumore incessante di Roma. Il clacson delle auto, le voci dei turisti, gli scooter che sfrecciavano sui sampietrini, e soprattutto quel ronzio costante dei miei pensieri che non mi dava pace da quando avevo perso il lavoro al ministero sei mesi prima.

Il venditore sembrava onesto. O meglio, onesto quanto può esserlo un venditore di silenzio che sta all'angolo di una strada trafficata di Roma. Era un uomo sulla sessantina, con una barba grigia mal curata e occhi che sembravano aver visto troppe cose.

"È un silenzio di qualità," aveva detto, estraendo dalla tasca interna del suo giubbotto logoro una piccola scatola nera che brillava stranamente nella luce del tramonto romano. "Non è come il silenzio che ti vendono al mercato del Tiburtino, quello dura solo quaranta minuti e poi senti comunque i clacson dei macchine." Aveva gli occhi iniettati di sangue e un'energia nervosa che mi faceva dubitare che avesse mai usato il suo stesso prodotto. Le sue dita tremavano leggermente mentre mi porgeva la scatola. "Questo silenzio viene da lontano," aveva aggiunto con un tono quasi reverenziale. "Alcuni dicono dalle montagne del Tibet, altri dal deserto del Sahara. Io non faccio domande ai miei fornitori."

Avrei dovuto sospettare che c'era qualcosa che non andava quando mi aveva chiesto se volevo la ricevuta. Chi mai chiede una ricevuta per il silenzio? Ma io avevo semplicemente fatto no con la testa, imbarazzato, come se stessi comprando qualcosa di illegale. In realtà non c'era niente di illegale nel silenzio. O perlomeno, non ancora. Anche se nell'ultimo anno il governo stava discutendo di tassare persino quello.

Quando sono tornato a casa, Dana stava aspettando sul divano con le gambe incrociate, un bicchiere di vino in mano e un'espressione che non riuscivo a decifrare. Aveva i capelli rossi raccolti in una coda disordinata e indossava quella vecchia t-shirt dei Radiohead che le avevo regalato al nostro primo anniversario. Ci eravamo conosciuti all'università, durante un seminario su Kafka. Lei sosteneva che l'insetto in cui si trasforma Gregor Samsa fosse uno scarafaggio, io un coleottero. La discussione era diventata così accesa che il professore aveva dovuto interromperci. Alla fine eravamo andati a letto insieme, e da allora ci siamo trascinati in questa relazione per due anni e mezzo senza mai risolvere la questione. Ultimamente parlavamo sempre meno, come se temessimo di disturbare un equilibrio già fragile.

"Dove sei stato?" ha chiesto quando sono entrato. La sua voce aveva quel tono particolare che assumeva quando era preoccupata ma cercava di non darlo a vedere.

"Ho comprato del silenzio," ho risposto, mostrando la scatola nera. Lei ha alzato un sopracciglio, senza commentare, e ha bevuto un sorso di vino. "Da quel tizio all'angolo tra via del Corso e via del Tritone," ho aggiunto, come se questo spiegasse tutto.

"Ma non è uno che legge i tarocchi?" La sua voce si era fatta più attenta. Dana aveva sempre avuto un debole per l'occulto e il misterioso, a differenza di me che cercavo sempre spiegazioni razionali.

"Quello dei tarocchi è quello accanto. Questo vende silenzio." Mentre parlavo, mi rendevo conto di quanto fosse assurdo ciò che stavo dicendo.

Dana ha posato il bicchiere sul tavolino di vetro senza usare il sottobicchiere – cosa che di solito mi avrebbe irritato – e ha sospirato. I suoi occhi verdi mi studiavano con una miscela di scetticismo e preoccupazione.

"Non funzionerà mai," ha detto alla fine. "L'ultima volta che Leonardo ha comprato il silenzio da quel tizio, si è ritrovato a sentire i pensieri della gente. È stato terribile. Ha scoperto che sua madre pensa sempre a quanto sarebbe stato meglio se fosse diventato medico invece che grafico. Ha dovuto prendere tre Xanax e ancora non è tornato completamente in sé."

Leonardo era un nostro amico comune, un grafico – appunto – sempre alla ricerca di nuove esperienze. Ricordavo vagamente che aveva attraversato un periodo difficile qualche mese fa, ma non sapevo che fosse legato a questo.

Non le ho detto che in realtà era proprio quello che speravo. Non il sentire i pensieri degli altri, ma il non sentire più il rumore. Il suono costante di Roma che entrava dalla finestra anche quando era chiusa. Il rumore dei miei stessi pensieri che rimbalzavano nella mia testa come un'eco infinita in un canyon deserto. Da quando avevo perso il lavoro, quel rumore interiore era diventato assordante, come se l'assenza di una routine avesse amplificato ogni mia insicurezza.

"Te l'ha venduto per quanto?" ha chiesto lei, osservando la scatola con una curiosità che non riusciva a nascondere.

"Mille euro," ho ammesso, sentendomi improvvisamente stupido. Era quasi tutto quello che mi restava del TFR.

Dana ha riso, ma non era una risata cattiva. Era la risata di chi sa che stai facendo una sciocchezza ma ti ama comunque abbastanza da permettertelo. Era lo stesso tipo di risata che aveva fatto quando le avevo detto che volevo lasciare il lavoro sicuro al ministero per scrivere un romanzo. Il romanzo che non avevo mai iniziato.

"Leonardo l'ha preso per settecento la settimana scorsa. Quel tipo ti ha fregato."

"Sono comunque tre ore di silenzio," ho ribattuto sulla difensiva. "E poi mi ha detto che è di qualità superiore. Non quello economico del Tiburtino."

"Lo dicono tutti," ha mormorato lei, allungandosi per prendere il telecomando. La TV si è accesa sul notiziario delle otto. Una donna con i capelli perfettamente in ordine parlava di un attentato da qualche parte in Germania. Tre morti. La vita continuava, rumorosa e indifferente.

Non sapevo bene come funzionasse il silenzio. Il venditore mi aveva dato istruzioni vaghe: aprire la scatola, premere il bottone nero, chiudere gli occhi per dieci secondi. Sembrava una di quelle app di meditazione che Dana aveva sul telefono e che non usava mai. Mi sono seduto sul divano accanto a lei e ho aperto la scatola. All'interno c'era un piccolo dispositivo nero con un unico pulsante. Sembrava antico e moderno allo stesso tempo, come un manufatto di un'altra epoca reinterpretato con tecnologia contemporanea.

Dana mi guardava, curiosa ma scettica. "Se inizi a sentire i pensieri della gente, non venire a dirmi quelli che ho su di te," ha detto con un sorriso lieve. "Ci sono cose che è meglio non sapere."

Ho premuto il bottone e ho chiuso gli occhi, contando fino a dieci. Quando li ho riaperti, Dana era ancora lì, ma il suono era cambiato. Non era scomparso completamente – sentivo ancora la TV, il fruscio dell'aria condizionata, i clacson giù in strada. Ma il rumore dentro di me, quello costante che mi accompagnava da sempre, era sparito. Era come se qualcuno avesse finalmente spento una radio che trasmetteva a basso volume nella stanza accanto. Per la prima volta da mesi, potevo sentire un pensiero alla volta, nitido e chiaro, senza l'eco di mille altre preoccupazioni.

"Funziona?" ha chiesto Dana, e ho potuto vedere le sue labbra muoversi, sentire le sue parole, ma non c'era più l'eco di tutte le possibili risposte che avrei potuto darle che risuonavano nella mia testa prima ancora che finissi di formulare un pensiero.

"Sì," ho risposto, e quella singola parola è uscita pulita, senza strascichi. Nel silenzio interiore appena scoperto, ho potuto vedere Dana veramente, forse per la prima volta da tanto tempo. Ho notato le piccole rughe agli angoli dei suoi occhi che non c'erano quando l'avevo conosciuta, la leggera cicatrice sopra il sopracciglio sinistro, risultato di una caduta in bicicletta l'estate precedente. Ho visto la preoccupazione nei suoi occhi, ma anche qualcos'altro. Pazienza, forse. O speranza.

Dana mi ha guardato per un lungo momento, poi ha annuito, come se capisse qualcosa che io stesso non potevo afferrare. "Hai bisogno di spazio," ha detto semplicemente. Si è alzata, ha preso la giacca ed è uscita. Non ha detto né dove andava né quando sarebbe tornata.

Mi sono reso conto che non mi importava, non in quel momento. Per la prima volta in molto tempo, ero solo con me stesso e non sentivo il bisogno di riempire quello spazio con altro rumore. Nell'appartamento silenzioso, ho iniziato a pensare alla strada che mi aveva portato fin lì – alle scelte, alle paure, ai compromessi. Ho pensato al romanzo che non avevo mai scritto, alla sicurezza che avevo scelto invece della passione, a come avevo smesso di ascoltare Dana molto prima che le nostre conversazioni diventassero sporadiche.

Il silenzio era costato troppo, certo. Il venditore mi aveva fregato, probabilmente. Ma per tre ore ho potuto sentire i miei pensieri, uno alla volta, con spazi vuoti tra l'uno e l'altro. Spazi in cui potevo respirare. E in quel respiro, ho trovato qualcosa che avevo perso: la chiarezza. Non risposte, ma almeno domande più precise.

Quando il silenzio è finito, all'improvviso come era iniziato, Dana non era ancora tornata. Il dispositivo nella scatola nera si era trasformato in polvere, esattamente come il venditore aveva detto che sarebbe successo. Ho passato le dita su quella polvere nera, domandandomi se contenesse ancora frammenti di silenzio. Mi sono chiesto se sarei tornato a comprarne dell'altro. Probabilmente sì. Probabilmente avrei pagato anche duemila euro la prossima volta. Ma sapevo anche che il vero silenzio non si comprava all'angolo di una strada.

Poi ho sentito la chiave nella serratura. Dana è entrata con due borse della spesa e un'espressione serena, come se non fosse successo niente di strano. "Ti sei divertito nel tuo silenzio?" ha chiesto, posando le borse sul bancone della cucina.

"Non era divertente," ho risposto, cercando le parole giuste in quella nuova chiarezza. "Era solo, come dire... necessario."

Lei ha annuito come se capisse perfettamente, e forse era vero. "Nel mio piccolo, ho comprato del vino," ha detto. "E anche due biglietti per quel concerto di cui ti avevo parlato. Ho pensato che dopo tanto silenzio, un po' di buon rumore potrebbe fare al caso tuo."

"Sai," le ho detto, avvicinandomi e prendendo una bottiglia dalla borsa, "credo che Kafka non abbia mai specificato che tipo di insetto fosse."

Dana ha sorriso, un sorriso che conteneva tutte le sfumature della nostra storia. "Lo so," ha risposto. "Ma era divertente vederti argomentare con tanta passione."

Qualche settimana dopo sono passato di nuovo all'angolo tra via del Corso e via del Tritone. Il venditore di silenzio non c'era più. Al suo posto c'era una donna che vendeva ricordi, cinque minuti di un passato che non hai mai vissuto per duecento euro. Per un attimo ho pensato di comprarne uno, un ricordo di una vita in cui non avevo mai smesso di scrivere, o in cui avevo detto le cose giuste a Dana quando contava. Ma poi ho cambiato idea. Di ricordi, per quanto rumorosi, ne avevo già abbastanza.

 

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