Le case del signor Lombardi
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Le case del signor Lombardi

 

Il signor Federico Lombardi possedeva diciassette case. Non dimore qualunque, ma spazi che aveva selezionato in trent'anni di carriera finanziaria con la meticolosità di un collezionista che non sa più perché colleziona. L'attico a Milano non si limitava alla vista sul Duomo: c'era quella crepa sottile nel soffitto della camera da letto che aveva imparato a cercare al risveglio, come un vecchio amico. Il casale toscano, con i suoi cipressi che oscillavano al vento come metronomi impazziti, gli ricordava il tempo in cui credeva che la pace fosse un luogo da acquistare. L'appartamento parigino nel Marais conservava ancora, in un cassetto chiuso a chiave, le lettere di Marianne, l'unica donna che forse aveva amato davvero, prima che la finanza diventasse la sua vera compagna. La villa sul lago di Como, acquistata il giorno della morte di suo padre, quasi a compensare un'assenza. La casa sulla scogliera amalfitana, dove non riusciva mai a dormire per il rumore delle onde. Lo chalet svizzero che visitava solo in inverno, quando la neve cancellava i contorni del mondo. L'hacienda messicana, comprata d'impulso dopo una bottiglia di tequila di troppo. E altre dieci proprietà sparse per il globo, ciascuna accumulata come un tassello di un puzzle senza disegno.

Il problema – Lombardi lo sapeva ma non voleva ammetterlo – era che poteva essere fisicamente presente in un solo luogo alla volta. Questa banale limitazione aveva iniziato a ossessionarlo non come un sassolino nella scarpa, ma come un tumore silenzioso che cresce senza dare sintomi fino a quando non è troppo tardi.

Un martedì d'autunno, mentre il caffè nella tazzina di porcellana si raffreddava intonso, si trovò a fissare la cupola del Duomo dalla terrazza milanese. La luce la tingeva d'oro, ma lui vedeva solo un edificio come tanti. Sentì con precisione matematica che in quel preciso istante sedici altri panorami, sedici albe, tramonti e stagioni stavano trascorrendo senza di lui. Sedici vite parallele che gli sfuggivano mentre era imprigionato in una sola.

"È matematicamente inefficiente," mormorò guardando le cifre sul tablet dove monitorava i suoi investimenti. E in quel momento, con la stessa lucidità con cui aveva costruito il suo impero finanziario, elaborò il suo piano.

Era un piano senza senso, naturalmente, e lo sapeva. Ma lo studiò con precisione: escludendo i tempi di trasferimento, avrebbe potuto trascorrere circa un'ora e dieci minuti in ciascuna proprietà nell'arco delle ventiquattro ore. Poteva sembrare una follia, certo, ma una follia calcolata al minuto.

Il primo giorno dell'esperimento, l'allarme suonò alle tre e quarantotto. Non aveva dormito per l'emozione e la tensione. Si alzò nel buio, il corpo rigido come se già sapesse che quella prova sarebbe stata un errore. Dopo una doccia rapida – deviazione dalla tabella di marcia: tre minuti e diciassette secondi, troppi – era già nell'auto che lo attendeva con il motore acceso. Il jet privato lo portò verso la Toscana mentre il cielo era ancora nero come inchiostro.

Alle sei e trenta sedeva nel giardino del casale. Il programma prevedeva colazione rilassante. Ma mentre cercava di ingoiare un boccone di pane toscano, si sorprese a contare mentalmente i minuti: diciassette già trascorsi, trentasei rimanenti. Il cinguettio degli uccelli risuonava nella sua testa come un cronometro.

"Signore, desidera altro caffè?" chiese il domestico.

"No," rispose secco, e poi con più gentilezza: "No, grazie. Devo partire." Non poteva permettersi distrazioni.

Alle sette e quarantacinque era nuovamente in volo. Roma. Cinquantatré minuti esatti nell'appartamento con vista Colosseo. Non riuscì nemmeno a ricordare cosa avesse fatto in quei minuti. Poi la Costiera, dopo ancora la Sicilia, in un susseguirsi di elicotteri, jet, auto di lusso, persino un motoscafo privato, Lombardi si muoveva come una pallina impazzita in un flipper globale.

Quando infine tornò a Milano, alle tre e diciassette del mattino successivo – tredici minuti in anticipo sulla tabella di marcia – crollò vestito sul letto king size. Si sentiva come se qualcuno gli avesse risucchiato l'anima con un aspirapolvere industriale. Non ricordava quasi nulla. I panorami, i profumi, i suoni, tutto si era fuso in un'unica macchia indistinta di sensazioni.

"L'implementazione richiede aggiustamenti," si disse prima di precipitare in un sonno senza sogni.

Ma il secondo giorno non fu diverso, né lo fu il terzo. Dopo sei giorni di questo regime, lo specchio gli rimandava l'immagine di un uomo che non riconosceva. Aveva sviluppato un tic all'occhio destro che faceva preoccupare il suo assistente, e portava sempre in tasca un foglio stropicciato con il programma dettagliato, perché a volte – sempre più spesso – dimenticava in quale delle sue case si trovasse.

Una sera, nel volo tra Parigi e Londra, mentre fissava il buio oltre l'oblò, si rese conto che non solo non stava godendo delle sue proprietà, ma le stava attivamente odiando. Odiava i soffitti affrescati, le viste pittoresche, i giardini curati, i maggiordomi discreti. Odiava tutto ciò che un tempo lo aveva fatto sentire arrivato.

"Calibrazione necessaria," si disse, usando il linguaggio asettico degli algoritmi finanziari che avevano governato la sua vita. Cambiò strategia: avrebbe visitato una casa al giorno, trascorrendo esattamente ventiquattro ore in ciascuna proprietà. Un ciclo completo in diciassette giorni. "Un compromesso ottimale," annotò sul suo tablet.

Ma anche questo tentativo si rivelò fallimentare. Il suo corpo era in un luogo, ma la mente vagava altrove. Mentre cenava nella villa sul lago di Como, pensava già al mattino successivo a Parigi. E mentre passeggiava lungo la Senna, una parte di lui era già proiettata verso Berlino. Le sedici case vuote lo perseguitavano come fantasmi di vite non vissute.

Fu nel dodicesimo giorno del suo esperimento, nella villa sul lago di Como, che l'insonnia lo colse con particolare violenza. Era tornato lì per la prima volta dopo l'inizio della sua folle rotazione. Le tre del mattino lo trovarono in piedi sulla terrazza, a guardare le stelle che tremavano riflesse nell'acqua scura. Il lago sembrava un buco nero che inghiottiva la luce.

"In questo momento," pensò con lucidità cristallina, "sto fallendo in diciassette luoghi contemporaneamente."

L'intuizione lo colpì non come un'epifania luminosa, ma come un pugno allo stomaco. Si era sempre considerato un uomo pratico, non incline alle fantasticherie filosofiche, eppure ora vedeva con chiarezza l'assurdità della sua esistenza.

Il mattino dopo chiamò il suo assistente. La voce era calma quando disse: "Voglio vendere undici delle mie proprietà."

"Undici?" L'assistente sembrava sconvolto. "Quali undici, signore?"

Lombardi esitò. Non aveva previsto quella domanda. "Tutte tranne..." Fece una pausa, cercando di capire quali case significassero davvero qualcosa per lui. Non era una decisione che poteva essere presa con un algoritmo. "L'attico milanese, il casale toscano, l'appartamento parigino, la villa sul lago, la casa nella costiera e lo chalet svizzero."

"Sei case? Signor Lombardi, sei sono ancora troppe per una persona sola," osservò l'assistente con una franchezza che non si era mai permesso prima.

"Lo so," rispose Lombardi con un sorriso amaro. "Ma non sono ancora pronto a lasciar andare del tutto le altre. Forse non lo sarò mai."

Nelle settimane successive, mentre alcune vendite venivano finalizzate, si stabilì nel casale toscano. Non c'era una ragione particolare per quella scelta, se non che lì il tempo sembrava scorrere diversamente. Fu in quel periodo che Elena entrò nella sua vita, non come un colpo di fulmine da romanzo, ma come una presenza graduale che si fece strada attraverso piccoli gesti quotidiani.

Elena era la nuova cuoca che aveva assunto quasi per caso, dopo che il precedente chef aveva dato le dimissioni, stanco dei continui spostamenti. A differenza degli altri dipendenti che lo trattavano con un rispetto distante, Elena sembrava considerarlo semplicemente come un uomo che aveva bisogno di mangiare. Non era particolarmente bella né giovane – doveva avere più o meno la sua età, quarantacinque anni o giù di lì – ma si muoveva nella cucina con una sicurezza che lui trovava ipnotica. Le sue mani avevano cicatrici di vecchie ustioni e tagli, medaglie di una vita passata ai fornelli.

Una sera, dopo cena, si ritrovarono a condividere una bottiglia di vino rosso. Non era stata una sua iniziativa né un invito formale; semplicemente, Elena aveva apparecchiato per due sul tavolo di legno in cucina, e lui si era seduto come se fosse la cosa più naturale del mondo.

"Non mangia mai veramente," disse lei a un certo punto, riempiendogli il bicchiere. Non era una domanda.

"Come, scusa?"

"La osservo da settimane. Lei ingoia il cibo, ma non mangia. C'è differenza."

Lombardi avrebbe dovuto sentirsi offeso, ma invece si sorprese a ridere. "Tendo a essere... distratto."

"Da cosa?"

"Da tutto. Dal passato, dal futuro. Da ciò che potrei fare altrove."

Elena annuì, come se stesse confermando una diagnosi già fatta. "Lei ha il morbo del possesso."

"Il cosa?"

"Il morbo del possesso. La malattia di chi ha troppo." Bevve un sorso di vino. "Mio marito l'aveva. Non con le case, ma con le donne. Ne voleva sempre un'altra, e un'altra ancora. Alla fine è rimasto solo."

"E tu?"

"Io sono qui, no?" rispose semplicemente.

Quella notte, Lombardi non riuscì a dormire. Le parole di Elena rimbombavano nella sua testa come un fastidioso promemoria di qualcosa che aveva sempre saputo e dimenticato. Il morbo del possesso. Una diagnosi perfetta per la sua condizione.

La mattina seguente chiamò di nuovo il suo assistente.

"Vendi anche lo chalet e la casa sulla costiera," gli ordinò. "E cancella tutti i miei impegni per il prossimo trimestre."

"Trimestre? Cosa...?" L'assistente era genuinamente allarmato. "Scusi se mi permetto ma... sta bene? Devo chiamare qualcuno?"

"Sto bene," rispose con calma. "Forse per la prima volta da anni."

"Ma cosa ha intenzione di fare per tre mesi?"

"Imparare a stare fermo," disse Lombardi. Poi aggiunse, più a se stesso che all'assistente: "Voglio vedere se è possibile."

Quando chiuse la chiamata, uscì in giardino. Il sole di mezzogiorno proiettava ombre nette sotto gli ulivi centenari, e in lontananza un trattore avanzava lentamente tra i filari di un vigneto. Era una scena che aveva visto decine di volte, ma che non aveva mai osservato. Ora notava come la luce cambiava colore attraversando le foglie degli ulivi, come il rumore del trattore arrivava in ritardo rispetto all'immagine, come l'aria sapeva di terra secca e rosmarino.

Per la prima volta in anni, non pensava a dove sarebbe andato dopo. Era semplicemente lì, con il peso del corpo distribuito equamente su entrambi i piedi, come se stesse imparando di nuovo a stare in equilibrio. Un luogo solo, un momento solo.

Non sapeva se sarebbe stato sufficiente, probabilmente no, ma era un inizio.

 

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