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Lungotevere. Castel Sant’Angelo era una sagoma marrone acquattata sulla sponda opposta del Tevere. Sembrava un animale sornione che riposa, un orso bruno in letargo nel caos di uno sciopero dei trasporti post moderno. Emanava l’energia seducente che hanno certe cose superflue. Dalla radio sul cruscotto le notizie terribili si alternavano alla musica che fa sognare le vacanze. Devo aver cambiato repentinamente direzione quando l’asfalto grigio si è fatto libero dalle lamiere luccicanti delle auto e un uomo di mezza età in sella a uno scooter, come una saetta, mi si è parato davanti al finestrino a meno di un metro. Aveva la testa infilata in un casco nero avvolto dalla luce limpida delle mattine di maggio. Dalla visiera alzata la prima cosa che ho notato è stata una barbetta perfettamente curata, geometricamente delineata sotto gli zigomi, un’infinità di puntini fitti e neri. Allungava il collo con le mani strette sul manubrio e i piedi piantati a terra per darsi stabilità. Urlava rabbioso verso la mia faccia senza distogliermi lo sguardo da dosso, aveva gli occhi insanguinati, sembrava volessero uscire dal cranio. Seduto sul sedile di guida, dalla cornice che offriva il mio finestrino spalancato, mentre sbraitava al mio indirizzo, notai una schiuma bianca che gli montava sugli angoli delle labbra togliendo credibilità al suo impeto rabbioso. Feci caso ai suoi denti perché mi piacciono i dettagli dei visi delle persone. Erano bianchi e ben allineati di sopra, mentre nell’arcata inferiore piuttosto affollata si presentavano inclinati verso destra e verso sinistra, sembravano birilli colpiti da una palla e lasciati lì al loro inutile disordine. Comunque entrambe le arcate erano due chiostre ferme fuori sincro con le labbra che invece si muovevano nel pronunciare una serie violenta di improperi nei miei confronti. Un’immagine inquietante, sembrava una marionetta omicida. Guardai un secondo lo schermo del telefono fissato sulla plancia in modalità navigatore, le strade della città erano tracciate rosse e blu come le arterie e le vene del corpo umano nei manuali di anatomia. Subito dopo tornai negli occhi del motociclista che mi restituì lo sguardo e per qualche secondo ci fissammo, senza dire niente, lui con le arterie rosse nei suoi bulbi oculari come la mappa stradale di Google Maps, io come un cane bastonato. Non ho replicato niente. Avevo paura, ero oppresso da quella situazione irreale e non osavo pensare alla reazione a cui quell’uomo da un momento all’altro poteva giungere, anzi era proprio perché per un attimo l’ho immaginata quella reazione violenta, lui che mi sferrava un pugno dritto in faccia che io avrei incassato rimanendo dolorante incastrato nel sedile, che rimasi zitto, immobile pieno di imbarazzo. Tutta quella rabbia, mi aveva sorpreso. Era possibile assegnarla solo alla mia maldestra manovra? Con questo pensiero che difendeva la mia coscienza, quell’uomo si rivelava fragile e, concedendogli un alibi sebbene indeterminato, mi appariva meno detestabile. Mi allontanai per una ventina di metri. Lui fece in tempo a rivolgermi un’occhiata, l’ultima, un guizzo di superiorità morale gli era brillato nello sguardo e con una sgasata furiosa zigzagò e superò le macchine che lo precedevano per sparire dalla mia vista, per collocarsi in un altro spazio lontano da me dove dimenticarmi e poter tornare nei suoi pensieri che lo spavento aveva interrotto. Gridai qualcosa con un filo di voce, quando non poteva più sentirmi. Decifrai, considerandola invadente, una scritta pubblicitaria in inglese su un enorme cartellone che prendeva quasi per intero il fianco di un palazzo, enjoy car sharing. Il respiro dell’antica Roma saliva dal fiume, dagli intonaci dei palazzi e dal fogliame dei platani oramai rinsecchito dalla primavera inoltrata e io ero essenzialmente, in quel preciso momento, un autista di automobili con conducente oberato di sani princìpi e sovraccarico di inibizioni con indosso la solita grisaglia scura e la camicia bianca.

Era verso la fine di maggio e le giornate si erano notevolmente allungate. Rientrai a casa prima che facesse buio. Nell’appartamento per la prima volta avevo avvertito la deriva che stavano subendo quelle quattro mura, bolle di intonaco scoppiato in diversi punti del soffitto mi fecero sentire oppresso, erano l’emblema di una serie di desideri irrealizzati. Mi salì un’infelicità improvvisa nel torace, montò come l’onda più vigorosa di una mareggiata di fine estate. Avevo aperto la finestra del soggiorno per arieggiare un po', una folata di primavera aveva invaso la stanza, era una siepe di gelsomino in pieno rigoglio aggrappata a un muretto sotto nel cortile più qualche rondine che volava basso e garriva. Sul davanzale c’era un’ape morta su un fianco con le zampette rigide all’aria. Dalla finestra il solito paesaggio vagamente insulso e senza picchi di valore estetico, una città Roma che si estendeva verso sud est, dispersiva, caotica, tetti di tegole rosse, e in lontananza, nemmeno molta, il terminale di campanile di una chiesa novecentesca con una porzione di campana. Quella sera mi ero rannicchiato su un fianco con le ginocchia raccolte e sollevate fino a quasi toccare il torace. Spesso prendevo sonno in quella posizione, almeno quando c’era qualcosa che mi preoccupava, o non mi sentivo bene. Improvvisamente vidi la faccia del motociclista furioso della mattina, mi era apparsa la testa immersa in uno scenario di nuvole grigette, sbraitava senza che potessi sentire la sua voce, di nuovo i dettagli di quel viso, erano come proiettati a mezz’aria nella stanza. Non riuscivo ad addormentarmi, allora ero sceso in garage sotto casa a controllare il mio Mercedes Vito nove posti, nuovo, nero fiammante dentro il quale passavo le lunghe ore della giornata insieme ai clienti che trasportavo con i loro umori in giro nel trambusto della città. Avevo imparato a riconoscerli i miei clienti, andavo a prenderli a Fiumicino, sbucavano dalle grandi vetrate automatiche dell’aeroporto con le camicie a maniche corte indossate fuori i pantaloni. La loro euforia e le modeste incognite di un viaggio organizzato si mischiavano a un vago panico che avevano stampato in faccia. Ci dirigevamo verso la città, le risatine, il tono della voce alto, c’era sempre uno, il più allegro del gruppo che faceva battute simpatiche e tutti ridevano soddisfatti. Li osservavo dallo specchietto retrovisore con gli occhi e i nasi schiacciati sui finestrini, mentre il paesaggio più che alla vista era offerto dall’immaginazione; scorrevano i cespugli polverosi lungo la strada, fino a che s’intravedeva l’Eur; il palazzo della Civiltà del Lavoro si stagliava nella sua geometria elementare, era il primo monumento ad apparire in lontananza, fino ad arrivare nel centro storico e l’abitacolo si riempiva di gridolini buffi di stupore, le prime fotografie del viaggio alle antiche bellezze della città. Le aspettative ancora tutte integre. E poi arrivava puntuale quella confusa depressione che li colpiva alla fine della vacanza, man mano che ci avvicinavamo all’aeroporto, verso le loro case ancora lontane. Un silenzio tombale invadeva l’abitacolo, li vedevo lottare contro i pensieri pratici che avevano lasciato a casa, sospesi, e per alcuni giorni avevano dimenticato, ora a dominare erano le file estenuanti in aeroporto da svolgere ancora una volta, tante ore di cielo e tante nuvole ancora da sorvolare, la distanza dai loro appartamenti a Boston, a Dublino, a Madrid, a Nuova Delhi da riempire. Una specie di disforia post coitale li assaliva mentre in un inquieto silenzio mesto ci avvicinavamo in aeroporto.

Scrutai con attenzione la fiancata lucida, immacolata che si mostrava alla mia vista e dove si rifletteva il movimento cauto della mia sagoma che pedissequa ispezionava il Van. Mi allontanai pochi passi per poi tornare in preda a una esigenza irrazionale che pretendeva che girassi intorno all’auto per esaminare il resto del profilo che non avevo visto perché era nascosto dalla parete ruvida del garage. La leggiadria, la linea sinuosa nonostante il notevole volume del Mercedes, tutta quella bellezza sfavillante insomma, suggeriva qualcosa di bello, lo sentivo dentro al cuore che mi batteva fino alla gola. Se ci fosse stato un graffio? Dovetti camminare di traverso nello spazio stretto tra il muro grezzo e il Van. Era immacolato, luccicava alle fiacche luci che vibravano tetre nello stanzone in un silenzio muto. Intorno a sé nell’aria stagnava un odore di plastiche nuove. La mia ombra mi seguiva, scivolava sul muro e si allungava sul soffitto. Tutte le macchine parcheggiate nel loro logico disordine, un riposo in attesa dell’alba, un’attesa scoraggiata e avvilita di una nuova dura giornata di lavoro, prima di entrare nella cronaca di un giorno come un altro, suggerivano cautela ai miei passi come a non volerle disturbare. Tutto là sotto aveva una vita lunga, fisica, muta e reale. Arrivò un rumore lieve di quelli che per sentirli bisogna trattenere il fiato, pensai fosse il garagista. Mi avviai verso casa soddisfatto lambendo la guardiola. Dentro c’era la tv accesa senza volume vicino a una branda, un giaciglio sudicio con una pesante coperta sciupata che non mi respinse. Sopra un piccolo tavolo una bottiglia di birra e i resti di un pasto dentro una vaschetta di alluminio che rivelano, riassumendola, una personalità. Un canale commerciale proponeva una televendita, dallo schermo baluginavano spettrali lampi intermittenti, luci chiare, fugaci bagliori color ghiaccio. In fondo, in un angolo vuoto e abbandonato, un buio denso avvolto dall’assenza di forme di vita come in un fondale marino. L’odore di gomma, pneumatici, olio e grasso che saliva dal pavimento prudeva alle narici. Del garagista nemmeno l’ombra. Il giorno era stato caldo, ora c’era un’aria umida e fresca, nel cielo grigio risplendevano tre quarti di luna, dietro si ritirava la luce del giorno, pensai succede. Sentii dentro di me una solitudine colma di rimorso per le tante cose che avrei potuto fare e che non avevo fatto. Pensai al garagista come a un pipistrello, e anche che spesso la poesia si rifugia in uomini come lui, senza le carte in regola.

 

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