La letteratura cilena in Italia
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La letteratura cilena in Italia

 

Ci sono cose che uno capisce solo dopo che sono passati dodici anni.

Roberto Bolaño, La pista di ghiaccio

 

Ho conosciuto Julio durante il mio secondo anno all’università, e la prima cosa che ricordo di lui è la ciotola del mate con la cannuccia di ferro che si portava a lezione e che beveva sempre a piccoli sorsi, anche se mate è il nome della ciotola, non della bevanda, e la cannuccia si chiama bombilla – ma questo l’ho scoperto solo dopo, su internet, quando anch’io avevo deciso di cominciare a bere mate e poi non l’ho fatto, e non me l’ha detto lui, perché con lui del mate non ne ho mai parlato, solo una volta mi ha chiesto se mi ricordavo del suo mate e io gli ho risposto di sì, ma ora che ci penso non so bene se me l’avesse chiesto davvero o se me lo sto immaginando, e anche se me l’avesse chiesto non ricordo per quale motivo avrebbe dovuto farlo, o in quale contesto, e non ricordo affatto di cosa stessimo parlando, forse di letteratura. Io e Julio parlavamo sempre di letteratura – sudamericana, italiana, americana –, qualche volte di cinema, molto spesso di storia – frequentavamo lo stesso corso di Storia Contemporanea –, a volte di musica o di cultura popolare – cose così, molto semplici, molto stupide, anche –, oppure ricordavamo il corso di Filologia Romanza in cui ci siamo conosciuti. Tanto per dire, ora che ci penso, tutti e due adoravamo Bolaño. Lui diceva che il suo romanzo più bello è I detective selvaggi, io dicevo 2666, ma a parte questo ricordo perfettamente che quando parlammo di Bolaño per la prima volta lui disse che lo amava soprattutto perché quando cominciava a leggerlo non riusciva a staccare gli occhi dalla pagina e andava avanti frase dopo frase per ore intere, e insomma I detective selvaggi li avrebbe finiti anche in un giorno solo, se ventiquattr’ore non fossero state poche; e io ora non so se disse davvero “finirlo in ventiquattr’ore” – magari lo sto immaginando –, però sono sicuro che quando mi spiegò questa cosa delle frasi e del non fermarsi mai io gli risposti che 2666 l’avevo finito proprio così, in una settimana, più di cento pagine al giorno, senza staccarmi dal libro. Ridevamo molto delle invenzioni di Bolaño – come il messicano col sombrero sulla bicicletta –, ma lui disse che in realtà il suo scrittore preferito in assoluto era Cortázar, e che Cortázar gli aveva cambiato la vita – anche il suo indirizzo mail era un gioco di parole basato su un racconto di Cortázar, mi sembra di ricordare. Parlammo a lungo di Rayuela, del fatto che a me aveva cambiato qualcosa dentro senza che abbia mai capito cosa – tra l’altro certe parti le avevo lette sorvolandole, e in certi passaggi mi ero perso, eppure… –, e lui mi disse che la Maga era una persona vera e mi fece vedere una foto di lei, e poi una foto di Cortázar con sua moglie, e io gli raccontai di quando a Parigi vidi sul lungo Senna una campana disegnata sull’asfalto e pensai che probabilmente qualcuno come lui era passato di lì e l’aveva disegnata – oppure, se fossimo in un racconto di Cortázar, lo stesso Cortázar negli anni ’60 l’aveva disegnata con la punta delle dita –, e quando sono stato a Parigi qualche tempo fa sono andato sulla sua tomba bianca, e mentre ero lì ho pensato a Julio. Parlavamo spesso anche di scrittori italiani, ma quando mi chiese se conoscessi qualche autore italiano che scrivesse come i sudamericani io gli dissi di no, che probabilmente neanche esistevano, ma poi fui costretto ad ammettere che in realtà non avevo letto chissà quanti autori italiani e che quindi non ero affidabile; e però fu proprio durante i mesi in cui ci frequentammo che incontrai Tondelli e il suo Weekend postmoderno, e quando gliene parlai lui ne fu entusiasta – adorava il fatto che anche Tondelli girasse come uno dei tanti poeti perduti di Bolaño per le vie non di Città del Messico ma di Bologna; e cazzo, ora che ci penso non gli ho mai chiesto perché avesse scelto proprio Bologna, per fare i sei mesi all’estero, e non gli ho mai chiesto se in Cile avesse una ragazza o un ragazzo, o come si chiamavano i suoi o sua sorella, non gli ho mai domandato cosa volesse fare da grande, com’è l’università di Santiago, com’è vivere dall’altra parte del mondo – anche se a volte parlavamo delle nostre città e di dove vivevamo, e io gli feci vedere i borghi sulle colline della Romagna e lui mi fece vedere Valparaíso e le Ande, mi spiegò dei terremoti che sotto i sei gradi di magnitudo chiamano “scosse” e mi raccontò dei contadini che bevono il mate e vivono all’aria aperta. Ma era lui che sapeva più cose, anche sull’Italia. Ricordo che mi parlò di Pasolini e dei suoi Comizi d’amore, della nipote di Mussolini che era una cantante jazz famosissima in Giappone e della Carrà che in Sud America spopola; una volta mi fece scoprire My Heritage, un sito con cui si può ricostruire l’albero genealogico della propria famiglia – inserendo i dati dei tuoi genitori e dei nonni e a patto che qualche altro parente sia registrato e ci siano delle corrispondenze –, e lui infatti aveva trovato un parente in Spagna forse parte del ramo più antico, una cosa così, ma poi non scoprì nient’altro perché per poter accedere ai servizi premium era necessario pagare e allora non ne fece nulla, però ancora oggi ho My Heritage fra i preferiti. L’ultimo sabato in cui era in Italia organizzò una festa nel suo appartamento di Bologna. Io all’inizio dissi di sì, poi dissi che non potevo perché avevo avuto un mezzo imprevisto – e andare a una festa da ballo esagerata in mezzo a tanti sconosciuti mi faceva sentire a disagio –, allora gli chiesi di vederci il giorno prima visto che io avevo lezione, alle otto gli scrissi per chiedergli l’ora e ormai sono passati diversi mesi ma lui non mi ha ancora risposto. Forse era arrabbiato perché non sarei andato alla festa, forse si era svegliato tardi e ormai non ne valeva più la pena, forse-forse-forse ma ricordo che rimasi due ore seduto in facoltà ad aspettare la sua risposta perché mi dispiaceva tornare a casa senza salutarlo almeno un’ultima volta; e ogni tanto ci ripenso e non mi sento in colpa perché io gli ho scritto, gli ho chiesto a che ora ci vediamo, e se lui non ha risposto e non ci siamo beccati è colpa sua, eppure dopo aver pensato questo cambio subito idea e mi chiedo se per caso non sia colpa mia, in realtà, perché io dovevo andare alla festa, era quella la serata d’addio, non il pranzo del venerdì, e se lui si è arrabbiato è solo colpa mia, già una volta il mese prima o quello prima ancora era successa una cosa simile, gli avevo detto sono a Bologna e poi alle tre sono tornato a casa e lui magari pensava di vederci al pomeriggio e io non l’avevo specificato. La verità, credo, è che io Julio non lo conoscevo davvero. Sì, frequentavamo lo stesso corso e avevamo parlato un paio di volte l’anno prima, ci siamo raccontati storie e aneddoti curiosi, abbiamo riso di tante cose, ci siamo scambiati consigli sui libri, sui film… eppure non lo conoscevo davvero, non come avrei voluto o come avrei dovuto; e forse mi illudo e trasformo una semplice conoscenza in qualcosa di più perché all’università non ho mai avuto amici, ad ogni corso le persone più o meno cambiavano e io dopo aver finito le lezioni tornavo a casa, agli esami stavo in disparte e non ho mai fatto davvero amicizie, Julio è stato il primo, e quando parlavo di lui coi miei amici a casa ne parlavo esaltato, come se fosse il mio primo amico in assoluto – loro parlavano sempre dei loro compagni di corso e io mi sentivo a disagio e inferiore –, e ora che ci penso mi sembra quasi di averlo usato, di avergli dato un ruolo che non aveva o che non voleva avere senza farglielo sapere, e dire che mi dispiace non ha senso, non ha senso perché è una mossa egoista che non risolve niente, scarica solo la responsabilità chissà dove, non funziona così – e sì, mi dispiace davvero non essergli stato più amico e mi dispiace aver accettato una conoscenza così superficiale che lui non meritava, e quando un giorno atterrerò in Cile non potrò rivederlo e non potremmo abbracciarci e scambiarci ricordi perché non li abbiamo. Prima che se ne andasse ci siamo visti solo una volta, fuori dalle lezioni e come due amici, un pomeriggio grigissimo di gennaio in piazza dei Martiri, per un caffè; ricordo che parlammo dell’esame di Storia, di qualche cazzata e delle cose che si dicono sempre in quelle situazioni. Cavolo, io ricordo che ero troppo timido – sono, lo sono ancora, sono troppo timido –, e anche se lo conoscevo abbastanza bene non lo conoscevo così bene da aprirmi sul serio. Per dire, io ho molti amici, con loro sto bene e mi diverto tanto, ma sono passati molti anni e ho potuto conoscerli meglio e loro hanno conosciuto me, e in un certo senso siamo cresciuti insieme vivendo le stesse delusioni e condividendo quelle più intime, mentre con Julio tutto questo non è successo, abbiamo passato troppo poco tempo insieme e io ero troppo timido per fare qualunque cosa, anche solo per fare davvero amicizia, e a questo punto mi chiedo se sarà sempre così, d’ora in poi, se non farò più amicizie perché sono troppo timido o se le farò solo se avrò tempo per approfondirle – con Julio non ho mai approfondito perché sapevo che poi sarebbe partito?; sono davvero così stupido? E ora questo sfogo – ma a cosa serve? Non lo so, ormai lui è in Cile e io invece sono qui a pensare a quanto sono stato scemo a non diventargli più amico o a non conoscerlo meglio, quindi credo non serve a niente – ma è stata colpa della mia timidezza o sono un coglione?; vorrei che fosse ancora qui per conoscerlo davvero meglio o solo per sentirmi meno in colpa?; vorrei diventargli più amico veramente o solo per non essere più stronzo? Ho paura delle risposte e quindi non dirò niente – forse il solo fatto di non voler dire niente risponde già alle domande –, ma di una cosa sono certo – e so quanto ora possa suonare pretenziosa e stupida e vuota ma sono serio, davvero, sono serissimo –, e cioè che Julio è proprio una bravissima persona, e mi ha fatto un sacco piacere conoscerlo, anche se per poco.

 

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