Il confine
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Il confine

 

La linea che separava i due terreni era invisibile a occhio nudo. Non c'erano recinzioni, né siepi, né muretti a delimitare il passaggio da una proprietà all'altra. Solo una fila di pietre di fiume, disposte a intervalli irregolari, che affioravano dall'erba come pensieri incompiuti. Eppure, per gli abitanti delle due case che si fronteggiavano a distanza, quel confine pareva più concreto e invalicabile di qualsiasi barriera fisica.

Giovanni Saleri viveva nella casa a nord, una costruzione di pietra grigia con un tetto di ardesia che nei giorni di pioggia emanava un odore particolare, minerale e antico. Giovanni aveva sessantasette anni e viveva solo da quando sua moglie Adele era morta, otto anni prima. Era un uomo di abitudini precise, metodico fino all'ossessione. Si alzava ogni mattina alle sei e venticinque, preparava il caffè nella moka da due che usava da trent'anni, faceva colazione ascoltando le notizie alla radio – mai la televisione, che considerava troppo invadente per le prime ore del giorno – e alle sette e quaranta usciva per la sua passeggiata mattutina, che seguiva sempre lo stesso percorso: lungo il perimetro della sua proprietà, rigorosamente senza mai oltrepassare le pietre di fiume.

Dalla parte sud del confine viveva Marta Riva, quarantadue anni, trasferitasi lì tre anni prima dopo un divorzio che l'aveva lasciata con una diffidenza verso il mondo che cercava di mascherare dietro un'energia frenetica. La sua casa era più piccola di quella di Giovanni, con muri di un giallo pallido e persiane verde scuro che sbattevano nei giorni di vento. Marta lavorava come traduttrice freelance, il che le permetteva di organizzare le sue giornate secondo ritmi imprevedibili. A volte la si vedeva in giardino all'alba, altre volte le luci della sua casa rimanevano accese fino a notte fonda, mentre il lieve ticchettio sul computer risuonava nel silenzio.

I due vicini non si parlavano. Non per un litigio avvenuto o per un torto subito, ma per quella particolare forma di estraneità che a volte si instaura tra persone che conducono vite parallele, separate solo da una distanza che potrebbe essere colmata in pochi passi ma che nessuno dei due aveva mai avvertito il desiderio di attraversare. Si scambiavano cenni di saluto quando si incrociavano – un lieve sollevamento del mento da parte di Giovanni, un rapido movimento della mano da parte di Marta – ma niente di più. Come se avessero stipulato un patto tacito di reciproca non interferenza.

Il loro equilibrio fu alterato da un evento imprevedibile quanto banale. Una sera di fine settembre, Marta notò un movimento inconsueto nel giardino di Giovanni. L'uomo, contrariamente alle sue abitudini, era uscito quando il cielo già scuriva e si era diretto verso un vecchio ciliegio che cresceva a pochi metri dal confine. Lo vide chinarsi, raccogliere qualcosa da terra, poi rimanere immobile per un tempo che le parve inspiegabilmente lungo. Quando finalmente si mosse, il suo passo era incerto, diverso dalla sua solita andatura misurata.

Marta osservò la scena dalla finestra del suo studio, con una tazza di tè ormai freddo tra le mani. Non avrebbe saputo dire perché, ma ebbe l'impressione di assistere a qualcosa di intimo, quasi segreto. Si sentì improvvisamente a disagio, come se fosse un'intrusa in un momento che non le apparteneva. Distolse lo sguardo e tornò al suo lavoro, ma le parole sullo schermo sembravano aver perso significato.

La mattina seguente, Marta notò che Giovanni non era uscito per la sua abituale passeggiata. Alle nove le persiane della sua camera da letto erano ancora chiuse, fatto senza precedenti. Attese fino alle dieci, poi, spinta da un'inquietudine che non riusciva a razionalizzare, decise di attraversare il confine.

Le pietre di fiume erano umide di rugiada sotto i suoi piedi quando le scavalcò con attenzione. Si sentì stranamente leggera, quasi colpevole, come una bambina che infrange una regola non detta. Avanzò verso la porta di Giovanni con passi esitanti, non sicura di cosa avrebbe detto per giustificare quella visita improvvisa. Bussò due volte. Nessuna risposta. Bussò di nuovo, più forte. Il silenzio che seguì aveva una sorta di densità, pareva quasi palpabile.

La porta non era chiusa a chiave. Si aprì con un leggero cigolio quando Marta la spinse, rivelando un ingresso in penombra.

"Signor Saleri?" chiamò, con una voce che le sembrava appartenere a qualcun altro. "Giovanni?" Il nome proprio le suonò strano sulle labbra, come una parola in una lingua che non aveva mai studiato.

Lo trovò in salotto, seduto in una poltrona di pelle consunta, con una fotografia in grembo e lo sguardo fisso su un punto indefinito della parete. Era pallido, ma respirava regolarmente.

"Mi scusi per l'intrusione," disse Marta, "ma ero preoccupata. Non l'ho vista uscire questa mattina."

Giovanni si voltò lentamente verso di lei, come se faticasse a mettere a fuoco la sua presenza. "Lei è la signora Riva," disse infine. Non era una domanda.

"Sì. Marta."

"Marta," ripeté lui, come se stesse assaggiando il suono di quel nome. "Non sono stato bene stanotte. Una vecchia questione di cuore. Niente di grave."

Marta notò che la fotografia che Giovanni teneva in mano mostrava una donna di mezza età con un sorriso discreto e occhi che sembravano guardare oltre l'obiettivo.

"Sua moglie?" chiese.

Giovanni annuì. "Adele. Ieri sera ho trovato qualcosa che le apparteneva. Un orecchino che credevo perduto. Era sotto il ciliegio, dove amava sedersi nelle sere d'estate."

"Mi dispiace," disse Marta, rendendosi conto dell'inadeguatezza di quelle parole nel momento stesso in cui le pronunciava.

"Non deve," rispose Giovanni. "È stato... beh, è stato strano... ma non in senso negativo. Come ritrovare una lettera che si credeva persa per sempre."

Rimasero in silenzio per qualche istante, un silenzio non più imbarazzante ma quasi confortevole, come se avessero superato una soglia invisibile.

"Le preparo un tè," disse infine Marta. Non era una domanda, e Giovanni non rispose. Si limitò a seguirla con lo sguardo mentre si muoveva nella sua cucina con una familiarità sorprendente, come se conoscesse già la collocazione di ogni cosa.

Nei giorni successivi, qualcosa cambiò nel rituale delle loro vite parallele. Marta iniziò a portare a Giovanni parte dei dolci che preparava nei suoi momenti di pausa – torte di mele, biscotti alle mandorle, crostate di frutta. Giovanni ricambiava con verdure del suo orto e, occasionalmente, con racconti della sua vita passata, dispensati con la parsimonia di chi sa che le parole, una volta pronunciate, non possono essere ritirate.

La fila di pietre che segnava il confine tra le loro proprietà rimase al suo posto, ma ora appariva diversa agli occhi di entrambi. Non più una barriera, ma una sequenza di gradini, un invito al passaggio. Giovanni riprese le sue passeggiate mattutine, ma a volte deviava dal percorso abituale, avventurandosi nel territorio di Marta con la cautela di un esploratore in terre sconosciute. Marta, dal canto suo, prese l'abitudine di sedersi sotto il ciliegio nelle sere di fine estate, a volte da sola, a volte in compagnia di Giovanni, in un silenzio condiviso che non necessitava di parole.

Una sera di ottobre, seduti uno accanto all'altra sotto il ciliegio ormai quasi spoglio, Giovanni estrasse dalla tasca della giacca un piccolo oggetto luccicante.

"L'orecchino di Adele," disse, porgendolo a Marta. "Vorrei che lo tenesse lei."

Marta lo prese con delicatezza. Era un semplice cerchio d'argento con una piccola pietra blu incastonata.

"Non posso accettarlo," disse. "È un ricordo di sua moglie."

"Proprio per questo," rispose Giovanni. "I ricordi vanno tenuti vivi, passati di mano in mano come testimoni in una staffetta. Altrimenti muoiono con noi."

Marta strinse l'orecchino nel palmo, sentendone il peso leggero ma significativo. Non era sicura di comprendere pienamente il gesto di Giovanni, ma intuiva che rappresentava una forma di fiducia, forse persino di affetto, che andava oltre le parole.

Quella notte, tornata nella sua casa, Marta si sedette alla scrivania con l'orecchino di Adele accanto al computer. Iniziò a scrivere, non una traduzione questa volta, ma una storia. Una storia su un confine invisibile tra due vite, sulla solitudine che a volte ci separa anche quando siamo vicini, sul modo in cui le persone entrano nelle nostre esistenze in punta di piedi, alterandone il corso in modi che non avremmo mai potuto prevedere.

Scrisse fino all'alba, con una fluidità che non provava da anni. Quando finalmente si fermò, esausta ma stranamente pacificata, si accorse che fuori dalla finestra Giovanni stava iniziando la sua passeggiata mattutina. Lo osservò mentre si avvicinava alle pietre di fiume, esitava un istante, poi le scavalcava con un movimento deciso, entrando nel suo giardino.

 

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