La mattanza di Filetto
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La mattanza di Filetto

È il 7 giugno 1944 quando a Filetto, piccolo centro dell’Aquilano, 17 uomini vengono uccisi dai nazisti. È la rappresaglia per un’azione partigiana che, il medesimo giorno, aveva causato due vittime tra le fila tedesche. La colpa dei filettesi è stata voler proteggere i loro pochi mezzi di sostentamento.

La mattanza di Filetto
Filetto è assediato. In ogni vicolo c’è un tedesco armato di mitra. Braccano uomini, donne, vecchi e bambini, tutti cavati a forza dalle case, dalle stalle, dai campi, dalle grotte per essere adunati qui nell’aia centrale. L’attacco a sorpresa dei partigiani non ha portato alla liberazione come speravamo, ma a una dura rappresaglia. E ora, mentre attendiamo davanti al plotone nazista di conoscere la nostra sorte, qualche voce alle mie spalle sussurra che la lettera è diventata la nostra condanna a morte.

Eravamo una dozzina, la scorsa notte, in via Aruccia, a casa di Berardino e Marietta. Non tutti eravamo d’accordo all’inizio, ma poi il timore che saccheggiassero il paese ha prevalso. Abbiamo poco, ci siamo detti, e quel poco che ci è rimasto è tutto ciò a cui dobbiamo aggrapparci: scarse provviste, un po’ di dignità, la misera esistenza di montanari, di contadini. Abbiamo fatto capannello attorno ad Angelo, il più giovane, e che scrive meglio, e abbiamo dettato la lettera per i partigiani; anche se solo io e Antonio abbiamo davvero scelto le parole. «Aiutateci a liberare Filetto» era la preghiera finale.
Poi, abbiamo consegnato la lettera allo stesso Angelo, che stamattina all’alba è partito per Monte Archetto, dove stanno nascosti quelli della Banda Giovanni Di Vincenzo.

Non potevamo sapere se avrebbero accolto la nostra richiesta, né quando sarebbero venuti. È stata quindi una sorpresa prima per noi vederli in paese il pomeriggio stesso, verso le sei, quando in tanti erano ancora nei campi e nelle stalle.
A Filetto, da maggio, si era stanziato un piccolo reparto di fanteria della Wermacht, composto da quattro soldati e un maresciallo. Si erano presi palazzo Facchinei, dove giorno dopo giorno avevano stipato armi, munizioni e tutti i viveri che ci avevano sottratto. Due stanze piene, si diceva.
I partigiani, guidati dal comandante Aldo Rasero, hanno attaccato divisi in tre gruppi, accerchiando il palazzo. Ma davanti alla chiesa alcune donne, vedendoli, si sono messe a gridare. Così l’agguato è saltato, ma non lo scontro. Colpi di fucile, sventagliate di mitra, un paio di forti esplosioni: il tutto si è risolto in meno d’un quarto d’ora. Un tedesco è morto, uno è stato ferito gravemente, un altro è saltato da un balcone e si è nascosto in paese, gli ultimi due sono riusciti a scappare in sidecar verso Camarda.
Anche i partigiani avevano un ferito tra le loro fila ma, date poche raccomandazioni a noi paesani, si sono dileguati come erano arrivati.

Non ci è voluto molto perché i tedeschi tornassero. Camarda, dove è stanziato il grosso del contingente, non dista che pochi chilometri. E sono tornati in tanti, tutto il reggimento della 114ª Divisione Cacciatori delle Alpi.
Il rastrellamento è cominciato nei campi, poi a coppie sono entrati in paese. Come cani rabbiosi hanno battuto ogni strada, ogni vicolo, ogni casa, ogni stalla, mentre chi poteva cercava di darsi alla macchia. Ferdinando è stato il primo a morire. Stava alla fonte a prendere l’acqua e ha provato a scappare. Antonio, che pure aveva stretto amicizia coi nazisti, è stato il secondo. Poi, non so come, è morto anche un soldato tedesco; forse si sono sparati tra loro. Ma a farne le spese, però, è stato Mario Marcocci che, caricato il cadavere del soldato su un camion, è stato poi freddato alle spalle.

È buio quando i nazisti finiscono di setacciare il paese e ogni nascondiglio nelle vicinanze. Ora ci dividono. Separano noi uomini dalle donne, poi ancora gli anziani e, per fortuna, i bambini. Non restiamo che una ventina di filettesi: la carne da dare in pasto alla bestia perché plachi la sua vendetta.
Ci ordinano di seguirli. Dall’aia ci portano verso Fonte Bella, e poi ancora più avanti verso i Piani di Fugno. Quando siamo a quasi un chilometro da Filetto, iniziano le minacce a mitra spianati. Ci dispongono in due file sul ciglio della strada. Il più alto in grado prende a dare ordini a un tenente, ma questi si rifiuta, scuote la testa, dice «nein, nein!» Così tocca a un altro nazista dare corpo e corpi alla furia.
Ma sono questi istanti di disordine che ci destano dalla rassegnazione, attizzando l’antico istinto. Insieme a qualche altro ci lanciamo verso le campagne oscure. I tedeschi prendono a sparare. La prima fila cade. Noi corriamo, corriamo a più non posso, pregando che la notte ci prenda prima della morte.
Quando ci fermiamo per riprendere fiato, scopriamo di essere solo in quattro.

So, dalla ricostruzione fatta nei giorni seguenti, che una decina di filettesi sono morti sul colpo. Gli altri, rimasti in balia del momento, sono stati costretti a trascinare i corpi fino al casale di Zi’ Giocondo. Lì sono stati uccisi a loro volta e poi bruciati coi lanciafiamme per nascondere le prove.
I nazisti non si sono fermati, però. La loro attenzione, dopo, si è concentrata su Filetto. Sotto gli occhi dei vecchi, delle donne e dei bambini rimasti all’aia, hanno saccheggiato tutto quello che potevano: materassi, casse di biancheria, tavoli, sedie, farina, legumi, patate, lardo, formaggio, maiali, pecore, vacche e pollame; e distrutto il resto. Infine, alle prime luci dell’alba, hanno messo a fuoco il paese intero. Noi l’abbiamo visto da lontano.

La mattina dell’8 giugno c’era odore di morte e di carne bruciata dappertutto. Alcuni soldati tedeschi, prima di ritirarsi, in un italiano stentato hanno detto ad alcune donne: «Ora, andate a vedere i vostri arrosti!»
Ci sono voluti tre giorni per ricomporre e riconoscere i corpi. Erano diciassette.

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