La fine della vita inizia qui
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La fine della vita inizia qui

 

L’amore di una madre per un figlio è insondabile. Una dimensione destinata a essere solo esperita e mai davvero compresa, nemmeno da chi ne fa parte. Aver tenuto a mente questo è il motivo per cui adesso sono di nuovo qui. Sono qui, accanto a lei, dopo tutto questo tempo. Lei è un corpo di ricordi, non saprei come altro definirlo. Se si può amare l’oscurità di un luogo o di un momento, è solo grazie a una madre. Sembrerà strano, ma della mia infanzia avevo perlopiù impressioni. Quando mi sforzavo di ricordare, non serviva a niente. Avevo scaglie di niente che venivano fuori, bucavano appena la pelle, il tessuto teso dei pensieri, e poi mi rendevo conto dello sforzo del tutto vano che avevo fatto. Però le impressioni me le porto dietro tutt’ora e la maggior parte delle volte sono il motivo per cui sto male, sono il motivo per cui ho voluto allontanarmi.
Il motivo, dice mia madre, per cui anche mio padre è andato via.
Starle accanto è stato a lungo avere a che fare con un incubo. Ma ha sempre detto che se fosse stato per mio padre, io sarei morto. Ha sempre detto che comunque vadano le cose tra madre e figlio, se sei vivo e sei cresciuto con lei, allora è grazie a lei se sei vivo. Non ho mai potuto smentirla. Di mio padre, d’altronde, ho solo un’immagine, e non del suo viso. È uno dei frammenti che non voglio mai fare uscire del tutto, e l’unico facile da estrarre qualora volessi farlo, perché non c’è traccia della sua identità. È una stanza opaca. Dico opaca perché non è buia. Non era. Non era buia. Ma era spenta. Come casa nostra e tutte le immagini dei frammenti di quel periodo, a essere sinceri. Davanti a me, che spio dalla porta, credo, perché vedo distintamente mia madre di spalle e altre due figure, una delle quali so essere mio padre, c’è proprio il suo busto. Ha una polo verde scuro, so che è lui. Nella paura di farmi scoprire, o di guardare qualcuno con un’espressione con cui non è lecito che guardi nessuno, tengo gli occhi piantati sul tavolo che divide lei dagli altri due. L’altro uomo è in giacca e cravatta. Non ricordo le parole ma ricordo i toni maligni della conversazione. Questo è quanto ho di più vivido del periodo in cui è andato via di casa. Tutto del mio passato ha un tono maligno, motivo per cui me ne sono andato anche io, alla fine.
Quando decido di andarmene, di dire a mia madre che sto per andare via, sono anni che non la vedo così. Urla come una matta, prende oggetti dalla cucina, non ricordo quali, e me li lancia. Qualcosa di duro mi sfiora la testa e ricordo di essermi tamponato il sopracciglio. Allora piange, piange a dirotto mentre mi corre incontro dicendomi che non devo andare via. Sono un mostro, dice. Un mostro. Dice che Dio ha dato figli a donne che non li meritano, come lei, e li proibisce a donne che sarebbero ottime madri. Sembra stia soffocando e mi prende ma io mi divincolo e si getta a terra in ginocchio. Lei ormai è mia madre, dice, e per mostro che sia ha fatto del suo meglio. Allora piango anche io. Non posso perdonarla? Non posso? Poi più nulla, sono partito.

Negli anni ho messo assieme una cinquantina di quaderni scritti in modo fitto, costante. Sono loro il motivo per cui sono riuscito a fare chiarezza e per cui da dove mi trovo posso parlare di quello che è successo, della persona che ero e che sono, comparandole. Ora li posseggo tutti, li consulto in qualunque momento. Ne parlavo con lei che ascoltava in silenzio. Viveva unicamente del passato, non le restava altro. Il presente si diluiva nel futuro, il futuro si consumava nel presente. Ogni giorno d’altronde non poteva che essere uguale a quello che lo precedeva e a quello che lo avrebbe seguito. Ma i ricordi sono cisterne d’acqua da cui si può attingere sempre. Allora mia madre diceva una cosa, poi aggiungeva: ricordi? Era molto raro che fosse così. Però lei aveva ben impressi nella sua mente gli anni, e a volte anche mesi e giorni, per cose molto importanti. Mi diceva: avrai avuto dieci o undici anni. Sei o sette, ne avrai avuti. E io assaporavo le sue parole come si fosse trattato di storie. Poi, la sera, mentre dormiva, prendevo i quaderni corrispondenti al periodo di cui mi aveva parlato e li sfogliavo fino a trovare ciò che cercavo o finché non mi addormentavo, pronto a riprendere la ricerca il giorno dopo. E le ricerche a volte si accumulavano. In generale ho una lettura esaustiva e completa ancora in corso. Ho iniziato dal primo e ho proseguito per poter avere un quadro complessivo della mia vita. Che conosco bene da un certo punto in poi - la mia memoria non è sempre mancata - ma che cela anche molte cose in zone d’ombra. Non c’è una descrizione del viso di mio padre, ad ogni modo. Quella mai. C’è un passaggio molto bello, però, in cui ricordo, avrò avuto sei anni, mia madre che mi chiedeva se mi andasse di provare una cosa nuova che mi sarebbe tornata utile. Avevo appena imparato a scrivere. Tutto questo l’ho riportato più tardi, nel quinto quaderno, intorno ai dodici. Aprì un cassetto della scrivania della sua stanza e ne estrasse uno rilegato, bello, di pelle nera, e aprendolo mi mostrò pagine scritte con la sua grafia che non riuscivo a leggere. Lo fece lei, solo alcune righe, e poi mi chiese se sapessi cosa fosse. Rifletto sulle cose, spiegò. Su tutte le cose che mi accadono. Ne ho uno dedicato solo alla tua nascita, pensa!, rideva. I momenti più belli di quegli anni. Pur non ricordandolo, mio padre c’era ancora. Allora le dissi che volevo farlo anche io, lei mi regalò un quadernino piccolo con la copertina plastificata e colorata e una penna dall'inchiostro verde e si mise accanto a me, al tavolo della cucina. Lo stesso su cui ancora, a volte, leggo ciò che ho scritto. Scrivevo e tutto era salvo. La mia mente si alleggeriva e si sentiva libera di lasciare andare le immagini. Tratteneva impressioni e, solo a volte, consapevolezze. Mi aveva chiesto: cosa è successo oggi che ti andrebbe di raccontare? Io gliel’avevo detto e lei mi aveva dettato la sintesi della mia narrazione. Leggere quei quaderni è vedere l’andatura della mia mente. La complessità dell’esposizione che in qualche modo mortifica il pensiero. I quaderni di quando ero più piccolo mi spaventano per la loro schiettezza. Ora, però, scrivo molto meno, quasi nulla. Da quando ho compreso cos’è successo, ricordo tutto così bene.

Un po’ di tempo prima mi chiama la nostra vicina di casa. Dice che è molto malata. Non dice chi, tanto lo so bene. Penso subito a una delle sue depressioni. Ognuna era diversa. Ci ho convissuto da quando mio padre, quell’infame, quella merda d’uomo, così lei, è andato via. A lungo mi ha tenuto nascosto il motivo per cui se n’è andato, e io da piccolo non indagavo. Non amava più la mamma. Non la amava e io ero una conseguenza della sua vita con lei. Ecco tutto. Ma a molti figli capita questo, diceva lei. Non sentirti mai sbagliato. È stato lui, è sempre stato lui. E se io sono così è per lui, diceva. Se lei era un mostro era per colpa dell’uomo che aveva smesso d’amarla. Poi sembrava rinsavire. Dico rinsavire perché cambiava completamente l’approccio che aveva al discorso. Si placava e l’odio spariva dal suo viso. E diceva che forse stava male anche lui. Forse, sai, aveva una malattia come la mia, tesoro. E io non me ne sono mai occupata. Forse era malato, e io non ho saputo capirlo. Le depressioni arrabbiate diventavano disperate e lei sembrava preda di un inguaribile delirio. Urlava, bestemmiava, odiava la donna incapace e miserabile che i suoi genitori avevano messo al mondo. Passavo lunghi periodi a casa della vicina, che cominciai a chiamare mamma in sua assenza. Venivano gli assistenti sociali a prendermi e mi portavano in una stanza bianca dove una ragazza giovane mi faceva domande. Ma non ricordo quali fossero. Eppure tutte le volte tornavo e mia madre si rialzava dal letto. La vicina mi diceva che anche lei era stata a colloquio, proprio mentre io ero con la mia terapeuta, con un medico che la stava aiutando a sentirsi bene. E quando rientravo in casa la trovavo in piedi, vestita e truccata, a volte persino ai fornelli che mi invitava a mangiare con lei. Mi diceva che aveva preparato i miei piatti preferiti. A volte discuteva a lungo con la vicina che mi avrebbe voluto tenere ancora con sé. Ancora un po’. Capitava che i toni si alzassero molto. Mia madre urlava che non mi avrebbe più fatto andare da lei. Ma erano minacce vuote, perché le sue depressioni avevano una cadenza quasi matematica. Alcuni dei frammenti che ho con la vicina perdono la loro aura maligna. Sono anzi bianchi, quasi candidi, splendenti. Immagino fosse una forma piuttosto condivisibile di normalità. Imparai solo più tardi che il mio normale non era normale. Ricordo che mi faceva vedere la televisione, preparava da mangiare cose buone, giocava con me. Aveva una figlia grande che le mancava, mi parlava di lei e un paio di volte la venne a trovare quando c’ero anch’io. Il tono maligno ricompare in presenza d’altri. Parlava di me con la figlia. I loro occhi ruotavano e mi fissavano. Il tono della voce si faceva un sussurro. C’erano molte telefonate. Mia madre con persone che non riconoscevo. La mia vicina con persone che non conoscevo. Mia madre con la vicina, dalla quale, una volta, stetti per due mesi consecutivi durante uno dei ricoveri per una depressione più resistente. Si parlò di affidarmi alle persone che venivano a casa nostra. Vennero a casa della vicina e mi fecero delle domande, io dissi solo che volevo stare con lei. Loro dissero che probabilmente sarebbe andata così. Sapevo che anche la mia vicina doveva accettare perciò la guardavo e sollevavo spesso il discorso, tanto da stancarla. Lei mi rispondeva che stavano verificando che tutto fosse idoneo, e che in tal caso non ci sarebbero stati problemi da parte sua, ma erano titubanti perché noi abitavamo al piano di sotto, così che si sarebbero potute verificare situazioni sgradevoli. Sta di fatto che mia madre tornò a casa alla fine di quell’estate. Anche se ero tornato a vivere con lei, la vicina passava almeno due volte al giorno, anche di più. Restava sulla soglia domandando se andasse tutto bene. A volte aveva una scusa, come chiedere un ingrediente o un'informazione. Altre volte lasciava che tutto si palesasse, sperando forse di allarmare me, di farmi intendere che dovevo parlare, che la parola mi avrebbe salvato, l’avrebbe salvata. Era palese che sospettasse, che non si fidasse, che mi vedesse come vittima. Mi chiamava amore, tesoro, coi diminutivi di una mamma. Anche quello mi ha in qualche modo, credo, salvato. Ricordo una volta in cui mia madre mi strinse a sé, seduta sul divano. Ero già grandicello. Mi disse che io e lei eravamo un miracolo, che ci eravamo sempre salvati a vicenda, e lei non avrebbe mai smesso di esserci per me. Ricordo che cominciai a piangere e lei mi accarezzava i capelli. In quel momento era accaduto qualcosa, nella mia testa. Ero disperato, grato, eccitato dall’amore che mi dava. Il fatto che ogni cosa fosse così complicata, e che nonostante tutto continuassimo ad esserci, a essere insieme, mi esaltava. E ricordo di essermi abbandonato tra i suoi seni, il loro odore inebriante, e lei che mi teneva la mano sulla nuca, fino a tre anni mi aveva nutrito così, contenta che esistessi. Mi sembrò che dicesse ogni cosa bella che non riusciva mai a dire.
Non ricordo di avere mai scritto tutte queste cose, eppure nei quaderni ci sono.

Ma la vicina mi dice no, non si tratta di quello che pensi, vieni il prima possibile, sarebbe meglio venissi il prima possibile. Presto ti chiameranno anche loro. Loro? Gli assistenti sociali che l’hanno in carico, dice. Non si è mai risollevata, lo so bene. E ha sempre continuato a cercarmi. Telefonate sporadiche gliele ho concesse, e una volta mi sono affacciato a casa sua, mi avevano chiamato anche in quella circostanza per via di una ricaduta pericolosa. L’avevo vista cambiata. Non sembrava avere nulla a che fare con la donna che mi avevano descritto al telefono, ma anche questo lo sapevo. Sorrideva e mi corse incontro, mi abbracciò e la strinsi a mia volta. Quindi ora ritorni? Aveva chiesto. Al che non avevo risposto. Mi stavo sentendo male. La testa, la testa esplodeva. La sensazione opprimente che qualcosa dovesse venire a galla in qualche modo, che qualcosa spingesse per emergere. E perforava i pensieri. La parola sulla punta della lingua. Era la parola sulla punta della lingua. Ma c’era anche una donna con lei, in casa, che l’aveva distratta. E io avevo detto che restavo in città, ma non stavo bene. Se avevano bisogno potevano cercarmi. Mia madre era seduta sul divano dandomi le spalle e si lamentava di qualcosa. Stavo parlando con l’altra donna. Disse che andava bene, che non l’avrebbero portata via. La vicina di casa era lì, combattuta tra l’essere felice di vedermi e costernata per la situazione. La abbracciai. Mi disse che si assumeva la responsabilità di controllare come stesse. Sarebbe importante che tornasse almeno una volta, dissero. E io tornai, ma mai fermandomi oltre il poco tempo che avevo trascorso quel giorno. La parola sulla punta della lingua che spingeva per uscire: la mia vicina di casa abbassò lo sguardo mentre la signora che avevo visto nell’appartamento mi chiedeva perché avessi deciso di andare via. La donna aggiunse che dai racconti di mia madre emergeva un rapporto simbiotico, profondo, inscindibile. Non seppi rispondere. Anche se sapevo che la risposta c’era, non la trovavo. Ora lei è un rottame di corpo. Ma quello che la vicina mi sta dicendo in questo momento, al telefono, mi dà l’idea reale di quanto sta accadendo. Le hanno fatto degli esami dopo che ha avuto uno svenimento. I risultati sono arrivati oggi. È inoperabile, non le resta molto. Le dico che arriverò il prima possibile senza essermi nemmeno dato il tempo di metabolizzare la notizia. E ancora non ho avuto modo di metabolizzarla che mi chiama la donna che l’ha in carico. Sua madre ha fatto degli esami, mi dice. Le rispondo che so tutto, sono stato informato dalla sua vicina di casa, che come sa, l’ha sempre seguita. Ci ha sempre seguiti. Mi spiega la situazione per filo e per segno e poi mi dice che dovremo discutere della terapia da tentare, anche se le possibilità sono poche. Dovremo parlare con sua madre, dovrà farlo anche lei. Tuttora, è in cura presso uno psichiatra. E forse dovremo ricoverarla nel reparto oncologico dell’ospedale, se l’assistenza domiciliare non sarà in grado di garantirle ciò di cui necessita. A ogni cosa dico capisco. Ma stavolta torno a casa e trascrivo tutto. Anche in questo momento sto usando gli appunti per ricostruire quegli ultimi giorni. La confusione che mi assale appena arrivo mi sprofonda in un sogno. Ho un solo pensiero nella testa: tornare. Devo tornare. Devo muovermi per fare ciò che non avrei mai voluto fare.

La verità che non mi aspettavo è che mia madre è un corpo docile e abbandonato, che si lascia toccare, curare, è vuota. È una voce che si alza di rado mentre facendole il bagno sente il bisogno di parlare. Mi ha accolto con un affetto che mi ha ridotto alle lacrime. Ho pensato sempre e solo al fatto di averla lasciata sola. Parla di rimpianti, di passato. Insiste perché sia lei a cucinare, a rifare i letti, e a pulire, almeno finché la stanchezza non la fa crollare. È lei ad aprire il cassetto del mobile in sala dove tiene tutti i miei quaderni. Mi dice che nel tempo ha trovato anche fogli sparsi. Scrivevi poesie, ricordi? Ma no, non ricordo. Me le fa leggere. Sono puerili, sono tristi, sono desolate, ma qualcuna, ho l’arroganza di pensare, è bella. Tu hai mai scritto poesie?, le chiedo, e lei fa no con la testa. Solo per tuo padre, quando eravamo bambini, dice in tutta naturalezza. Ti manca?, continuo. E lei risponde che pensa a lui spesso, adesso che è molto lontana. Mi gelo. Quella sera scrivo subito la frase. Sul momento, però, non replico in alcun modo. Allora è lei ad alzare il viso e sorridere. Non so che differenza ci sia tra noi e tutte le altre persone, dice. Tra un genitore e le persone che non lo sono. Non lo so, penso. Si muove come se si trascinasse dietro il corpo. Il che mi fa pensare che non sia lei, quel corpo. Che si sia estraniato. Continua: io per un po’ ho smesso di essere madre, pur rimanendo la tua. Si siede sul divano e le chiedo se vuole dell’acqua. Gliela vado a prendere. È raro vederla bere senza accompagnare il sorso con medicine di ogni tipo. Mi dispiace di essere andato via, le dico. Dispiace a me, replica. Il fatto che tu te ne sia andato, mi ha fatto comprendere la misura del dolore che hai patito. Tuo fratello, per quanto sia orrendo ciò che è successo, non ha avuto modo di soffrire così.

Quaderno tre. Avrò avuto otto anni. Due anni dopo che ho iniziato a scrivere. La mamma continuava a dirmi che sono un piccolo miracolo. Il ricordo si sblocca quasi subito. Me lo dice ossessivamente mentre stringe il corpo morto del suo unico figlio vivo, ormai. Piange a dirotto. Dice che una madre non può permettere che accada una cosa del genere al proprio bambino. Non può permettere che il proprio figlio non riceva le attenzioni che merita, tutto ciò di cui ha bisogno. Sono cose che non capisco. Non le capisco e viene da piangere anche a me. Allora lei stacca il mio viso dai suoi seni e guardandomi mi dice, e per un secondo anche lei ha smesso di piangere, che non devo per nessun motivo avere paura. Lei protegge me come io, senza rendermene conto, proteggo lei. Mi hai sempre protetta, dice. Non devi smettere di farlo, perché della mamma ti devi fidare, io farò sempre lo stesso per te. La stanza è buia e so benissimo che - la parola. La parola sulla punta della lingua spinge da dentro il mio cranio. So benissimo che mia madre non è riuscita a proteggere mio fratello che giace morto nel letto. Quello che finora ho dimenticato è che papà nel frattempo stava tornando a casa. Che trovando il proprio figlio morto e me e la mamma sconvolti, la mamma che gli diceva che l’ambulanza e la polizia stavano arrivando, diede di matto, impazzì, mise a soqquadro la casa e crollò esanime in sala. Lo ricoverarono e mia madre si fece avanti a gestire la faccenda. Mio fratello, di appena un anno, aveva avuto un arresto respiratorio improvviso nel letto dei miei genitori, dove mia madre lo allattava. Io ero stato svegliato dalle sue urla. La mamma piangeva e il sogno che facevo era diventato un incubo, poi sono andato da lei che era nel suo letto e pensavo che c’era qualcuno che le stava facendo del male. Quello che ricordo, rileggendo quelle pagine, è che la morte del bambino è il motivo per cui i miei si sono separati, e per cui mia madre non ha più voluto vedere mio padre. Anni che ho rimosso in blocco. Il processo per la mia custodia. Mio padre, in quello che era stato definito a tutti gli effetti un delirio, asseriva che mia madre avesse soffocato il bambino col suo seno, perché mentre allattava si era addormentata. Diceva che l’aveva ucciso lei. Ma lei si era difesa asserendo che il minimo movimento del piccolo bastava a svegliarla, che non aveva mai fatto nulla di diverso da quanto aveva sempre fatto anche con me. L’esame autoptico aveva escluso che il decesso potesse essere stato provocato da una pressione forte quanto quella di un corpo adulto, ma mio padre non aveva mai accettato l'ipotesi di morte in culla. Aveva provato a portarmi con sé, ma non c’era riuscito. Il tracollo avuto aveva fatto sì che mia madre potesse allontanarlo da me definitivamente. Il fatto che non si fosse mai ripresentato, nemmeno come minaccia, doveva far intendere che non si fosse ripreso. La morte di mio fratello, nella mia memoria, era sempre stata un’altra scheggia di vetro. Era stata lì senza nulla attorno. Così, quando mia madre lo nomina, le chiedo di ripetermi quanto successo e lei mi racconta tutto. Piange. Piange perché pensa a mio padre che in tutti quegli anni è stato come morto, e anche ora non sa nulla di lei, di me, e vive nel dolore di una perdita, invece che in ciò che resta. Ammesso che sia vivo, perché anche noi non sappiamo nulla di lui, dice. Conferma che è stato per via di quella sera che la nostra esistenza si è ridotta a quella che è. L’onda che mi travolge mi spinge all’ira. Come hai potuto tacermi tutto questo, le grido contro. E che non le credo, non le credo perché dopo anni di silenzio non posso crederle così su due piedi. Allora lei, in lacrime, nel panico, mi dice di guardare coi miei occhi. Si trascina fino al solito cassetto dove tiene anche le carte del processo. E lèggi, mi dice, lèggi tu stesso. È tutto lì, è sempre stato tutto lì. Alla sola domanda: perché?, mi risponde che non avrebbe mai tollerato che sapessi quanto fosse pessima come madre. E che quando me ne sono andato, tutta la sua tristezza serviva in fondo solo a nasconderle un sollievo che rifiutava, sollievo di sapermi al sicuro lontano da lei. Quella sera cerco ossessivamente tutti i quaderni per avere una controprova nelle righe scritte da un bambino che non dicono niente, perché chi scrive non sa davvero cosa stia succedendo. Ma solo che è reale.

Gli esami, le terapie e i ricoveri non hanno portato a nulla se non a farla sentire più sola e più abbandonata, in un tempo vuoto che si riempie del dolore che la vicinanza alla fine le dà. Un dolore retroflesso al passato che non può cambiare. Di nuovo, mia madre è un corpo di ricordi. Hanno deciso che se avesse voluto poteva tornare a casa, a morire in pace, e lei ha immediatamente accettato. Sono finite per me le nottate di attesa, il telefono acceso sul comodino, il trasalimento ad ogni telefonata in ogni momento, le giornate passate nei corridoi d’ospedale. A casa siamo io e la mia seconda mamma, la vicina, a darci il cambio. Anche la mia vita ormai è sospesa. Quello che aspetto per riprendere a vivere è quello che non voglio succeda: che mia madre muoia. I giorni che trascorriamo sono una grande pausa che somiglia a una piccola morte. Le nottate insonni hanno reso ossessivo il pensiero della nostra conversazione. L’indignazione per quel segreto è diventata sospetto. Per molto tempo ho rigirato le frasi nella mia testa, la sua colpa era quella di aver lasciato un figlio senza le attenzioni che meritava. Eppure, ho cominciato a pensare, non si poteva dire del nostro legame. Non si è mai potuto dire di lei. Nemmeno se fosse stato vero quello che diceva mio padre, sarebbe risultata sensata l’affermazione di mia madre. Sarebbe anzi stato il contrario. Un eccesso di zelo, una stanchezza straripante, l’attaccamento al bambino che la portava a volerlo accanto a sé, pronta a nutrirlo, infine il seno che nutriva divenuto la causa del decesso di mio fratello inerme. Mia madre stava delirando in preda al panico, alla colpa, e poi, terminato il dolore più atroce, calcificatosi e cicatrizzatosi nascondendo la carne viva, si era chiusa nel silenzio. E non aveva mai mentito. Mio padre se n’era andato perché non l’amava più. Come poteva trattarsi di una menzogna? Era al più parte di un’omissione, ma mai e poi mai una bugia. Lei ha sempre creduto ad ogni parola che mi ha detto. Che ero il suo miracolo e ci saremmo protetti sempre. Non avrei dovuto smettere di farlo. Ero il suo miracolo, non dovevo smettere di esserlo. Non si può pensare a una madre che non dia al figlio le attenzioni che gli spettano. Questo. Questo. Questo. Come una parola che preme per uscire dal cervello, si affaccia alla lingua ma non esce. Non dovevo smettere di proteggerla, perché lei aveva sempre fatto lo stesso per me. Guardarla abbandonata in un corpo che è diventato la sua malattia mi uccide quanto il pensiero di dover attendere la sua morte per aprire il cassetto in camera sua, quello dove tiene i quaderni. Parlare con lei è diventato fingere che ogni sua parola non guidi a quella conversazione e, di conseguenza, a quel ricordo, ma non la affronto. Mamma, cosa intendevi dire che ci dobbiamo proteggere sempre? Che non si può pensare a una madre che non dia al figlio le attenzioni che merita? Quanto sarebbe facile per lei aggirare la domanda senza mentire, dire solo una mezza verità? E cosa succederebbe se invece decidesse di non farlo? Per questo, quando lei era in ospedale, pur non dormendo mai in quella casa senza che fosse lì con me, mi sono aggirato per le stanze nel silenzio come un detective che cerca di depistare le sue stesse indagini, che si muove nella paura, nello sconcerto. Sapevo che avrei trovato qualcosa, e dove avrei dovuto cercare, come sapevo che quel ricordo era lì, ed ero io a non volerlo vedere. Un giorno vado alla scrivania dalla quale aveva estratto il quaderno rilegato che mi aveva letto la prima volta. Se dovevo trovare qualcosa, lo potevo trovare lì. E infatti ci sono, sepolti uno sull’altro, nel vano. Apro il primo per trovarvi i giorni del mio ritorno, il quaderno inconcluso su cui scrive senza continuità, con una fatica che percepisco bene, e che rimarrà incompiuto. Sarà l’ultima cosa a rimanermi di lei, non terrò nient’altro, nemmeno la casa. La sua prosa la riconosco subito, il suo modo di vedere le cose, di raccontarsi. Con un drammatico distacco simulato, insincero almeno quanto nella vita quotidiana è incapace di mentire. Ne sfoglio altri. So bene cosa sto cercando e cerco di capire da poche pagine in che periodo della nostra vita mi trovo, in un continuo movimento a ritroso che mi confonde e mi preme sulle tempie. Devo fare molte pause durante le quali resto seduto sul suo letto, la stanza che ha trattenuto il suo odore malato, a ripercorrere le parole, comparandole coi miei ricordi, cercando corrispondenze e discrepanze. Alla fine arrivo al quaderno che cercavo. Leggo pagine sparse, partendo dal fondo. Mi oriento in fretta, c’è il processo, ci sono le accuse, le depressioni che si fanno forti, violentissime, quel figlio che resta da parte immobile, ricordandole la sua impotenza, l’incapacità di essere madre, la colpa. C’è rabbia, la rabbia che nell’esperienza che facevo io di lei traspariva solo come gesto. Ci sono io, sempre io, e quasi mai, se non come oggetto che viene spaccato in mille frammenti e osservato da mille prospettive, quel fratello che ricordo appena, di cui non ho mai visto una foto, tutte opportunamente occultate, di cui mia madre ha presto taciuto anche l’esistenza, non appena aveva capito, suppongo, e non so in che modo, che avrei dimenticato, o che lo stavo già facendo. C’è solitudine e dolore per mio padre, il padre di cui parla in modo così personale che riesco quasi a vederlo come lo vedeva lei. Riesco a vedere la persona, e la mancanza di un viso da dare a quel corpo mi fa mancare il terreno sotto i piedi. C’è una donna ancora viva, pronta a diventare quella che conosco, i cui pezzi ho raccolto fino a questo momento, che lavo nella vasca come si lava un oggetto fragile, che custodisco in tante brutte sensazioni di ricordi che ho solo potuto trascrivere. Odia tanto se stessa, perché non è riuscita a farsi capire. È a questo punto che intuisco di essere vicino, e mi fermo. In quel momento chiudo il quaderno e lo rimetto al suo posto, in attesa. In attesa che quello che leggerò possa influire solo su un ricordo, su un’idea. Mia madre sa benissimo quanta solitudine circonderà la sua morte. È da figlio che decido di non andarmene un’altra volta, così da non rendere vano il fatto che io sia venuto qui.

Alla fine, mia madre è un corpo da abbandonare. Non so se corpo e anima siano divisi, né se abbia senso parlare in questi termini. Qualcosa mi suggerisce di no. Ad ogni modo sembra vuota. Il suo corpo è ciò che resta. Lo abbandono. Anche io sono ciò che posso permettermi di lasciare in quella circostanza, sotto gli occhi della donna che mi ha fatto da madre quando mia madre era un incubo a me e a se stessa, e sotto gli occhi dell’altra donna, quella che l’ha seguita negli orrori della sua vita dandovi ordine e distanza e freddezza attraverso plichi di scartoffie ed esposizioni di regolamenti. Nessuna di loro piange. Io lo faccio per un minuto, forse, e da solo. Piango molto a casa, invece, sempre da solo, pensando a niente. Sono pervaso da un senso assoluto di - desolazione? Perdita? Ma il pensiero è vuoto, assente. Sono puro gesto, puro corpo. So bene cosa fare quando me ne sarò andato, appena avrò ritirato l’urna. Alla fine mia madre non sarà più un corpo. Forse non lo è nemmeno nel momento in cui riprendo in mano il suo quaderno. Prima però, mi do una settimana di tempo, ho letto da qualche parte che in alcuni popoli e in alcune culture, come quella ebraica, è la prassi, una settimana per elaborare il lutto. Mi tengo una settimana di lutto per svuotarmi di ogni cosa. Anche se forse non serve a quello, ma a prolungare la pausa, a riempirla con la sua assenza. Come un lento rientro alla vita. Ma ci vuole una soglia, alla fine, da varcare. Lo lascio per tutto il tempo sul comodino in bella vista, come un impegno. È una storia da chiudere, un ultimo atto. Quando lo apro alla pagina che mi aspetta, mi dico che è l’ultimo passaggio del rito funebre. Chiudere i conti con lei per lasciarla andare. Le spetta, se lo merita, me lo merito, mi spetta. Vada come vada. Mia madre non dice nulla di come si è svegliata, trovando il figlio accanto a sé con qualcosa di diverso che le ha permesso di capire che non respirava da troppo anche per una persona adulta. Dice solo di aver capito che era morto perché non respirava e non si svegliava. A quel punto ha cominciato a piangere e urlare, perché si era resa conto. Si era resa conto. Aveva avuto così tanta paura per me, scrive. Così tanta, che non potesse porre rimedio alle sue mancanze, alle sue debolezze e alle sue distanze. Che nessuno potesse capire e che non avrebbe mai avuto modo di rimediare a quello che non era stata capace di aggiustare. Invece, conclude, tra tutti io c’ero riuscito. L’avevo sorpresa e avevo capito. Lei col corpicino tra le braccia e io sulla soglia della stanza che le chiedevo se fosse morto. Così piccolo e avevo chiaro che il pianto di una madre deve sempre voler dire qualcosa di brutto. Gli ho chiesto perdono in ogni modo, in ogni modo, e lui e me l’ha concesso. Gli ho detto che stavo rimediando. Che sarebbe costato tanto, tantissimo, ma che l’avrei protetto come non ero stata capace di fare fino a quel momento e che doveva avere fiducia e lui me l’ha accordata. Si è messo un dito sulle labbra, scrive. Mi sono messo un dito sulle labbra. Le ho dato fiducia. Stava sistemando tutto ciò che aveva rotto. Sarebbe costato tanto, tutto, ma l’avrebbe fatto per me, se io l’avessi fatto per lei. L’ho dimenticato seduta stante, appena svoltato l’angolo del corridoio. Ho nascosto tutto nell’armadio, su un foglio perso per sempre. Forse scovato negli anni da mia madre. Sono andato in camera mia abbracciando un cuscino e mordendolo forte e nella mia testa stavo dormendo. Mi sono estenuato di pianto. Quale madre fa tanto per un figlio? L’attesa che papà tornasse a casa. La sua unica bugia. L’unica bugia che mia madre abbia mai detto, mentre io sarei solo dovuto rimanere in silenzio, non avrei dovuto mentire su nulla. Una parte di lei doveva essersi resa conto che era malata. Aveva cominciato a piangere prima che mio fratello morisse, perché attirato dal suo pianto ero entrato e l’avevo trovata ancora con la mano sul suo viso, il palmo sotto il mento e le dita sul suo naso.
Se fino ad ora non ho mai raccontato tutto questo è perché mi spaventa quanto velocemente possa essere liquidata una storia.

 

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