Illustrazione di Riccardo La Leggia (Schiuma)
Illustrazione di Riccardo La Leggia (Schiuma)
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L'anno del drago

 

«Buonasera».

«Buonasera, come posso aiutarla?»

«Dovrei riconsegnare il modem».

«Il modem…»

«…sì, l’ho riposto nella scatola, eccolo».

«Il modem non va riconsegnato».

«Come? Ho già dato la disdetta, devo solo restituire l’apparato».

«Il modem lo tiene lei, non va riconsegnato».

«Anche se il contratto è finito, insomma: anche se c’è stata la disdetta e non ho più il servizio a casa e…?»

«Appunto, il modem continua a tenerlo lei».

«D’accordo, ma mi sa spiegare se c’è un modo, magari per posta, con un pacco raccomandata, più che altro mi dispiacerebbe, è uno spreco tenerlo lì, e poi a dirla tutta non saprei proprio dove metterlo…»

«Arrivederci».

«…arrivederci».

 

«Senti, ora questo modem noi lo spegniamo» fece Mario, quando rientrò in casa.

«Cosa, amore? Scusa non ti sento, ho il phon acceso…»

«Il modem. Lo spegniamo».

«Che dicevi?» domandò Rita uscendo dal bagno.

«Sono andato giù in negozio per riconsegnare il modem… niente, non lo rivogliono, dobbiamo tenerlo noi, ma ora però si spegne anche l’altro…»

«…l’altro quale?» chiese Rita mentre armeggiava nell’armadio.

«Quello che utilizziamo adesso. Quello nuovo. Si spegne quando non lo usiamo. È inutile che stia sempre acceso, no?»

«Va bene Mario, se ti fa stare meglio…»

«Non si tratta di stare meglio, o almeno non si tratta solo di questo. È questione che per tenere accesi questi cosi serve del personale al lavoro, stabilimenti in funzione, infrastrutture da tenere in piedi, insomma un dispendio di investimenti ed energie che per la maggior parte del tempo ci assicura solo una spia verde accesa giorno e notte. A che pro?»

«Abitudine» fece Rita senza dare troppo peso alla risposta, mentre con le mani si stava ravvivando i capelli davanti allo specchio. «Siamo abituati. E poi credo che consumi molto meno che se si accenda e spenga ogni volta… c’è anche il fatto che di notte può essere utile, in certe situazioni…»

«Sì, hai ragione, se magari uno ha bisogno di verificare la ricetta del riso allo zafferano in piena notte, ed è nervoso e non prende sonno perché lo tormenta il dubbio su quali siano le quantità esatte, allora può tornare utile avere internet a casa perché intanto magari è crollata pure la rete mobile. Ciò naturalmente presuppone che si sia tenuto il telefono acceso accanto al cuscino – meglio sotto il cuscino, se proprio deve – e anche quello sia acceso, perché altrimenti…»

«Altrimenti cosa?» chiese Rita con aria un po’ stufa, mentre si preoccupava di recuperare la borsa dalla poltrona perché stava facendo tardi in ufficio.

«…altrimenti basta non avere sottomano il telefono, o che non sia in forze perché magari non lo si è caricato, e l’intero processo salta… e intanto le persone lavorano, gli stabilimenti devono produrre, gli investimenti stanno finanziando non so cosa, e a te non riesce nemmeno di controllare se ci va o meno il formaggio sui preparati allo zafferano… occorrono diversi fattori e tutti al meglio della loro efficienza perché uno di notte riesca a calmarsi e prendere sonno, smettendo di pensare allo…»

«Ciao. Io esco».

 

«…ieri ho sentito dire alla radio che buona parte delle comunicazioni che ci scambiamo è superflua, non ha alcun valore informativo vero e proprio e potrebbe benissimo non esserci… i saluti elargiti cinque volte al giorno, tutti quei messaggini vuoti, le faccine, quelle che un tempo si chiamavano catene di Sant’Antonio mentre oggi…»

«Ah sì?» si inserì Gianni. «Io per esempio ho conosciuto te grazie a questo. Avevamo solo i numeri di telefono, ti ricordi? di corsa a quella festa… insomma: una certa utilità l’avrà avuta».

«Sì, senz’altro. Ma credo che l’indagine volesse mettere in luce il fenomeno da un altro punto di vista, su larga scala diciamo, cioè lascia stare i singoli episodi ma nel grande, nel grandissimo, ciò che prevale è che le conversazioni hanno ormai poco o pochissimo peso a livello pratico. Non servono. E poi, chi ti dice che a noi due WhatsApp ha fatto realmente bene? Non voglio mettere in dubbio qualcosa, ma ci vuole del tempo, e poi c’è sempre quel problema… d’accordo, d’accordo: però ieri, ieri per esempio mi ci sono voluti tre messaggi contati per chiedere a Silvia come andava, perché ormai per far prima scrivo una parola e schiaccio invio, almeno son sicura che quella l’ho scritta – stavo guidando, lo ammetto… però, però in tutto ciò mi chiedo anche: tutti questi spazi vuoti, i video ironici, le foto montate, tutta questa roba qui prima dove la tenevamo? Era nascosta da qualche parte e ne sentivamo il bisogno?»

«Bah, io credo semplicemente che sia venuta fuori pian piano, che si sia sviluppata secondo le esigenze che di volta in volta…» e tracciò un gesto elusivo con la mano. «…certamente, nell’ottica di offrire un servizio sempre più vicino all’utente…»

«Sì, vicino, e intanto tutto ‘sto bailamme implica lo starcene lontani… sollecitarci continuamente l’un l’altro» disse tra sé e sé «come se andassimo costantemente risvegliati…»

«Senti Rita, ma a te ‘ste cose qui chi le mette in testa? Perché davvero, non ho mai sentito nessuno parlare così…» stava sollevandosi dal letto Gianni, cominciava ad abbottonarsi la camicia.

«Ne parla spesso…» ma si morse la lingua, e tentò di cavarsela dedicandosi agli abiti sparsi per la stanza.

«Tuo marito… e non sei stanca? È polemico, borioso, fa di tutto per non accorgersi di trovarsi proprio dove sono tutti gli altri…»

«…però secondo me un po’ ha ragione» ammise Rita con la voce che tremava. «Poi… poi è vero che esagera. Ma io in questo suo lato un po’ estremo lo capisco, si sente alle strette, quasi come se fosse un perseguitato, anche a lavoro per lui le cose sono cambiate, soprattutto perché fa fatica ad adattarsi, e così reagisce con forza, magari con rabbia delle volte…»

Gianni la interruppe: «Quante volte ti ho detto che non mi piace parlare di tuo marito?».

«…hai ragione, scusa» ci fu un attimo di silenzio. «C’è una guerra in atto, dice spesso queste parole, e io mi indigno, penso che ha rotto le palle, che non lo sopporto più e che se non fosse per il bambino…»

«Eppure continui a parlarne…»

«…da una parte c’è il mercato, per cui lavoriamo tutti, soprattutto chi non sa di farne parte, mercato come azienda vera e propria intendo… mentre dall’altra c’è l’individuo, una “foglia d’erba su di una sterminata prateria scossa dal vento” – dice sempre così, e quando arriva a questo punto lo vedo che ha gli occhi gonfi e dentro di me so anche che non ha torto, perché… perché… ma “l’individuo dovrà pur avere l’orgoglio”, conclude così, “l’individuo dovrà pur essere dignitoso” – questo aggettivo più di tutti mi è entrato nella testa, per come lo pronuncia – deve pur identificarsi l’individuo, e non soccombere…» Rita finì il discorso in bagno, da sola, dopo aver sbattuto la porta; stava sciacquandosi la faccia dalle lacrime e dai segni dell’incontro.

«Certo eh» disse Gianni a voce alta, per farsi sentire sopra lo scroscio dell’acqua, «…certo che se non avessi quel gran corpo, Rita mia, tu li faresti fuggire a gambe levate gli uomini…»

«…ma scusa, che dici?» proruppe Rita venendo fuori dal bagno, dove si stava rifacendo il trucco. «Non sono discorsi miei, o almeno non del tutto…»

«Ci risiamo. Senti: io mi arrendo. Usciamo, che tu fai tardi in ufficio e io devo andare di corsa a scuola per parlare con la professoressa di mia figlia. Hanno creato un caso nazionale con ‘sta storia dei telefoni, da quando gira quel video nei bagni della scuola che…»

 

Ora i cinesi, in città, per carnevale, si erano inventati questa cosa.

Avevano proposto al Comune di affidare loro l’organizzazione di una grande festa in maschera per la ricorrenza, in cambio avrebbero fornito l’allestimento, i materiali e le maestranze; insomma: avrebbero sopportato le spese per il carnevale di tasca propria. Dopotutto, l’anno del drago cadeva proprio in quei giorni. Le parole d’ordine della manifestazione sarebbero state “tradizione e innovazione”. E, tanto per cominciare, il corpo di ballo aveva il compito di intrattenere la piazza su un repertorio che sposava la causa, e dalla musica classica avrebbe teso la mano verso sonorità più moderne ed elettroniche. I ballerini erano stati mascherati a tema, con una sagoma di gommapiuma che ricordava molto da vicino il nuovo nato della casa cinese, l’ultimo smartphone di quello che era stato anche il maggiore finanziatore della manifestazione. Un drago cinese, fedele alle origini, avrebbe attraversato in lungo e in largo lo spazio, suggerendo in tal modo un collegamento costante tra i presenti; perciò il pubblico era stato invitato a prendere parte attiva nel quadro. E se si fosse stati sprovvisti di un vero e proprio costume a panino, emulo di un cellulare di ultima generazione, era raccomandato quantomeno munirsi di una faccina – emozioni a piacere – oppure applicarsi un’appendice – sul davanti o didietro, c’era libero arbitrio – a mo’ di cavo. E, ma solo per i più pigri, c’era addirittura la possibilità di presentarsi ai tornelli in abiti civili, a patto di inscenare in modo credibile il contenuto demenziale di un meme; o, in casi estremi, si arrivava a concedere la facoltà di recitare la battuta divenuta celebre grazie a un qualche prodotto seriale. Ma non era affatto scontato riuscire a entrare. Bluetooth, non a caso, erano stati definiti coloro i quali non avessero avuto voglia di immedesimarsi: per quanto invisibili, avrebbero fatto meglio a restarsene a casa.

La pubblicità era stata penetrante, ampia e condotta con grandi mezzi. Eppure, inizialmente l’amministrazione cittadina aveva espresso della perplessità sulla buona riuscita dell’evento. Si era ritenuto, forse non a torto, che la pretesa di trasformare dei cittadini in un prodotto del mercato cinese non avrebbe avuto presa.

Ma la realtà era questa: in coda, sgomitando per entrare, si pigiavano innumerevoli repliche dei dispositivi originali, solleticate da appariscenti parrucche di ogni forma e natura – il 5G era l’alternativa più gettonata perché offriva ampia libertà di interpretazione: c’era chi si era incollato tante molle elicoidali sulla cuffia da bagno, altri le avevano montate su uno scolapasta, il che peraltro rientrava nelle raccomandazioni… quasi tutta la fila saltellava a tempo, affinché il cavo per la ricarica, che non era infrequente, sobbalzasse da dietro le natiche.

Il drago aveva già fatto il suo ingresso trionfale e ormai si insinuava tra la folla estasiata, era una cosa realmente mai vista, in migliaia si erano assembrati fino quasi a disperdersi in un’unità indistinta, ma quando si intravedevano le corna da cervo e i baffi di tigre far capolino, quella sua bocca audace e spalancata, era un via vai per spostarsi e aprire due ali, cosicché il drago, tra il rispetto e l’ammirazione si facesse strada come fosse divino, e rideva beffardo in virtù di questo suo enorme potere.

Dalla prima mano strusciata contro il corpo di squame, ed evidentemente impregnata di vernice fresca, molte altre presero spunto e vollero fare lo stesso. Fu così che, in pochi minuti, da quella macchia “spontanea” si ricavarono altri segni dovuti a quanti si gettarono sul serpente, con l’intenzione di lasciare la propria fugace testimonianza. Da un momento all’altro furono fatti accedere dal perimetro della piazza interi pancali di barattoli, perché tutti si potessero servire della vernice. Cavi, faccine, stringhe di testo vuote o illogiche, ballando, presero a sporcare il corpo dell’animale. Quel drago dal ghigno vincente era divenuto ben presto il supporto dinamico per il gesto libero e istintivo. Ed è bene osservare come, a sua volta, sfiorando il pubblico, strattonandolo, facendosi forza talvolta tra interi gruppi organizzati, con le sue spire finiva per marcare i partecipanti.

 

Dal palco, una voce invitò l’enorme folla a ripetere appresso:

«Prassi!» e in un boato si sentì sciorinare quella parola inconsueta.

«Volatile!» Il pubblico rumoreggiava…

«Impostura!» Si alzarono cori sparuti.

«Catarsi!» La gente gridò divertita.

I ballerini, a quel punto, avevano assunto movenze di tipo marziale.

«E ora, attenzione» esclamò la voce dal palco, ancora più squillante e partecipe, «decliniamo!» il che fece esplodere urla isteriche e ondate di batter di mani.

«Puzza!»

Qualcuno gridò di rimando, ma forse era stato istruito.

«E allora ritentiamo: mantra!» al che la risposta fu di una parte più ampia del pubblico.

«Donno!» impartì con forza dal palco.

La gente allungò la vocale più del dovuto e riportò il termine alla sua forma originaria, per sottolineare che stava al gioco e aveva capito.

«E allora liberiamoci, perché vedo che siete proprio voi quelli giusti e che questa è una grande giornata per tutti, non è vero?» Si fermò, per tenere col fiato sospeso la folla. «Cazzaaa!!!».

A quel grido, il corpo di ballo compì un movimento inconsulto in avanti che non tenne in alcun conto i presenti. Sarebbe stato difficile, in astratto, dare tutta quella robustezza a degli uomini vestiti di gommapiuma, eppure il movimento fu a tal punto solidale, severo e rigido che falciò di netto le prime file.

Gli investiti strillarono tra i primi, travolti da quella che sembrava essere la truppa di un esercito. Un grido disperato. Ma la piazza era grande, e se solo ci fosse stato qualcuno che dall’alto avesse individuato il pericolo per segnalarlo, le cose non sarebbero degenerate. Dal palco, invece, l’unica preoccupazione era mandare avanti lo spettacolo. E così la piazza non seppe nulla dell’accaduto. Una seconda avanzata, ancora più efficace, si ebbe quando all’incitamento degli altoparlanti la risposta fu di una temibile veemenza: «Diuuu!» con le vocali cupe che fecero tremare il selciato.

Un’espressione così gutturale e inarticolata che coprì quella delle persone rimaste uccise.

 

C’era la figlia di Gianni a quella festa.

Erano appena usciti da scuola e il padre l’aveva lasciata all’ingresso nord, che era anche il più comodo da raggiungere. Poi, dopo averci pensato su per un po’, anche lui era entrato, grazie a un conoscente della sicurezza.

«Ehi!» protestò la ragazza all’indirizzo di uno che le aveva appena scarabocchiato qualcosa sulla schiena. Il tipo se la stava svignando tra la folla, ridacchiando ed elargendosi delle generose pacche sulle spalle con gli amici.

«Papà! Papà!»

Il padre era preso a scrutare il lungo carosello del drago, l’apparente fluidità che sembrava non conoscere ostacoli, pur nel marasma che si era formato. La sua superficie sovraccarica di segni.

«Papà!»

Gianni si girò e la inquadrò negli occhi, ma era assente. Li dividevano forse quattro o cinque maschere molto ingombranti, tipo monitor ultrapiatti.

«Mi hanno fatto qualcosa sulla schiena» si lamentò la ragazza.

Il padre la afferrò per un angolo del costume e la invitò a voltarsi. Pressappoco al centro del telefono, la gommapiuma era imbrattata di vernice fresca, un grosso disegno realizzato in modo rozzo e frettoloso ma che malgrado ciò non faceva mistero delle sue intenzioni. Una figura accovacciata, a una cui estremità si riconosceva la testa, premeva contro una sagoma verticale e stilizzata: non serviva certo un grafico per riuscire a scorgervi un atto di sesso orale.

Assordato dalla musica, spintonato dal tumulto, Gianni pensò che malgrado tutto sua figlia sarebbe diventata famosa.

 

Due anziani, marito e moglie, seguivano la diretta della festa.

«Ci voleva proprio una cosa così, ne avevamo bisogno. …ricordi gli americani? I fiori, una giornata stupenda… con quel sole…»

«Che succede?» si allarmò il marito. «Sta prendendo fuoco il drago?... Oh mio dio, ma perché nessuno interviene?»

La musica cessò di colpo, la voce al microfono smise di declamare i suoi versi. Ci furono alcuni secondi, in televisione, in cui si vedevano solo le fiamme in mezzo a un mare di teste immobili. Subito la regia fece notare che, sotto il tessuto del drago, stava venendo fuori il suo telaio.

«Niente paura! Ripeto: non abbiate paura!» esclamò la voce dal palco. «Non scappate, fa parte dello spettacolo!» comprensibilmente, il pubblico era in preda al panico. «Non ci sono rischi, si tratta di un processo controllato» la voce si era fatta carezzevole, quasi paternalistica. Rinfrancati dall’annuncio, il grosso dei presenti prese confidenza e, pur mantenendo una certa distanza, ricominciò a ballare in modo ancora più scatenato.

«Bene» disse la voce dal palco, quando si furono placate le fiamme «bene. Forse converrete con me: si è trattato di una trovata eccentrica, forse al limite del consentito, ma pur sempre in linea con lo spirito del carnevale. Tradizione e innovazione, come dicevamo: tutti noi sappiamo quanto i nostri munifici finanziatori siano legati alle arti pirotecniche, che ruolo rivestano nella loro tradizione e con quali perizia ed esperienza abbiano voluto dedicarle al servizio dello spettacolo… credetemi: non c’è nulla di cui preoccuparsi, io farei un grande applauso! Ma l’obiettivo era anche un altro. Ora vi chiederei non certo di smettere di ballare, ma quantomeno di prestare attenzione al nostro povero drago incenerito» pronunciò quest’ultima frase con indulgenza, e si lasciò andare a una risata che voleva risultare spigliata. «Potete vedere, ora che ha fatto per così dire la muta, quanti e quali siano i gentili amici che quest’oggi hanno lavorato per il nostro divertimento. Sono loro che hanno condotto il flusso, sono loro le braccia e soprattutto le gambe che hanno mosso il drago, e sono loro che ogni giorno ci aiutano, per certi versi, a comunicare. Salutate i valenti operatori che proprio oggi hanno permesso al drago di uscire dalla sua tana!». Sotto il telaio, a sorreggerne la struttura, c’erano decine se non centinaia di individui. Esili, denutriti, si guardavano intorno con aria smarrita. Naturalmente, finirono subito in pasto alla telecamera.

«Ho avuto paura» confessò l’anziana signora guardando dritto lo schermo.

Il marito non rispose, era affondato nella poltrona, impallidito.

«Sembrava così bello» disse ancora.

E subito dopo aggiunse, con qualche incertezza: «…sono davvero brutti».

«Sembrano davvero molto poveri» disse finalmente il marito.

«Certo che è strano…»

«Cosa?»

«Tutta questa festa, e… hanno le mani nere e i piedi scalzi, sembrano sofferenti…»

 

Rita si voltò sul letto e spense la sveglia.

«Dobbiamo alzarci».

Mario non rispose; si girò su un fianco, rivolto verso la parete.

«Alla fine l’hai fatto, non pensavo dicessi sul serio».

«…cosa?» chiese Mario, mentre si strofinava gli occhi.

«Il modem. L’hai spento».

«Spento?»

«Sì, avresti dovuto chiederlo e non fare di testa tua».

«…io non ho spento proprio nulla. Sarà andata via la corrente, io il

modem non l’ho toccato».

«Non c’è rete, e il wi-fi non funziona…»

 

Ciò che non ci si aspetta dalle rivoluzioni è proprio questo: vedere tutto insieme il buio che si annidava sotto la coltre dell’abitudine.

«Non è vero che prenderemo per primi i responsabili di questa crisi» annunciavano gli altoparlanti montati sopra camionette e carri che setacciavano la città, «Non è vero che puniremo secondo la giusta misura».

Per noi ad esempio fu un trauma scoprire che non sapevamo nulla di questa città. Che per quanto complessa e articolata fosse, potesse nondimeno scoprirsi al pari di un bunker, e, che vi si creda o no, far uscire dal suo sottosuolo l’equivalente di un esercito.

«Tranquilli: non moriranno per primi coloro che sono causa di tutto questo» echeggiava nelle strade ormai deserte. E intanto raffiche di mitragliatori venivano distribuite senza posa; le facciate dei palazzi collassavano, le auto sussultavano sui marciapiedi come se fossero in preda a una crisi di nervi.

Il bello delle rivoluzioni è anche qui: che quando accadono, danno l’impressione di spuntare dal nulla, di bruciare i tempi, di coglierci impreparati.

Ma non è così.

 

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