Affamata di luce, proiettava le sue carnose appendici fotosintetiche in qualsiasi direzione potessero intercettarla. Lunghi getti vegetativi si sopravanzavano l’un l’altro, aggrovigliandosi tra loro per un tratto e poi prendendo direzioni opposte, e, come irti capelli color smeraldo, formavano una robusta e impenetrabile chioma. La siepe appariva immensa, luminosa e vitale, e ad Enrico piangeva il cuore di doverla tagliare. Stava lì, con le cesoie in mano, ma non si risolveva a cominciare. Eppure, doveva: gli era stato imposto.
«Non ce la fai, eh?», disse Clara che lo aveva raggiunto alle spalle senza che lui se ne accorgesse.
Lui scosse la testa silenziosamente e la chinò sul petto. Si sentiva un codardo, un vigliacco, un traditore.
Rimasero un momento senza dirsi nulla, uno a fianco all’altra, davanti all’immenso vegetale.
«Dai Enrico, coraggio», gli disse ancora lei, appoggiandogli dolcemente una mano sulla nuca, «ti do una mano io, se vuoi... lo sai che dobbiamo farlo»
«Lo devo fare io, te lo già detto», rispose lui, con voce fioca, «se proprio vuoi aiutarmi, raccogli i rami e le foglie che taglio e mettile nei sacchi»
Era il solstizio d’estate quando Enrico Mazzotti cominciò a tagliare la siepe, e lo fece con rabbiosa precisione. Svettava le escrescenze arboree a filo della ringhiera, al millimetro, evitando che sporgessero verso la strada. L’ordinanza del sindaco d’altronde non lasciava scampo e, oltretutto, sembrava cucita su misura per regolare il suo caso specifico. Sì, d’accordo, invitava genericamente “tutti i cittadini a provvedere alla pulizia dei terreni/giardini incolti sia nel centro urbano che nelle zone di campagna”, ma era chiaro che ce l’avevano con il suo, di giardino.
Tutto merito dei suoi bravi vicini che, con la grazia che da sempre li distingueva, erano andati a lamentarsi in Comune che il suo giardino fosse ormai in stato di grave abbandono... Ma quale abbandono! Ma dove?... Lo curava, lui il suo giardino! Magari non lo teneva secondo i canoni che andavano per la maggiore, d’accordo, e allora? Uno non poteva fare ciò che gli pareva a casa propria?... Pareva proprio di no. Soprattutto se la siepe, sporgendo dalla ringhiera, occupava ormai il marciapiede per intero, impedendo il passaggio dei pedoni. Questo non era più tollerabile, gli avevano detto in Comune, e fa niente se di lì non ci passava mai nessuno, essendo una strada a fondo chiuso ed essendo, la sua, l’ultima casa della via: doveva tagliarla punto e basta.
I primi giorni di lavoro era comprensibilmente rancoroso.
«Il marciapiede non c’entra nulla, Clara!», si sfogava con la moglie mentre tagliava, «È una scusa!... Razza di bifolchi, che non sono altro!...»
E intanto, zac!... zac!... ci dava dentro nervosamente con le cesoie.
«Mi vengono a dire che lo stato di incuria del nostro giardino farebbe aumentare il numero di zanzare... Ma non lo sanno che il numero di insetti aumenta in totale? e che più insetti vuol dire anche più predatori di zanzare?... ignoranti che non sono altro!... e io che vado a parlargli della biodiversità!... ma cosa vuoi che ne sappiano quelli lì della biodiversità!...»
E zac!... zac!... che tagliava intanto come un forsennato.
Clara, nel frattempo, sminuzzava i rami e riempiva silenziosamente i sacchi che poi avrebbero portato alla piattaforma ecologica.
«Quell’altro imbecille che va a lamentarsi dal sindaco perché il nostro giardino sarebbe un potenziale pericolo di incendi!», continuava a sfogarsi Enrico, «ma quali incendi!... ma fatemi il piacere!... diciamo piuttosto che i nostri bravi vicini si sentono offesi perché il nostro giardino non incontra il loro gusto estetico... embeh?... Anteponiamo una scelta sostenibile a una estetica, e allora?...»
E zac!... zac!... che infieriva sui rami a più non posso.
Clara guardava il cervellotico individuo con cui aveva scelto di condividere l’esistenza con amorevole condiscendenza. Lo guardava tagliare istericamente e non riusciva a immaginare cosa gli frullasse esattamente per il cervello. Le aveva parlato, lui, tempo prima, dell’intenzione di rinaturalizzare il loro giardino, di riportarlo cioè allo stato naturale che avrebbe avuto senza l’intervento umano, ma c’erano un mucchio di cose che lui diceva, o faceva, e che lei non capiva del tutto. Ripeteva solo a sé stessa che se le fosse piaciuto il genere di uomini che tenevano il prato ben rasato, non avrebbe mai sposato uno come Enrico. Lo amava di un amore sincero e, raccogliendo pazientemente le foglie e i rami che il marito tagliava, si limitava a riempire un sacco dopo l’altro.
Certo è che, dopo cinque anni di incuria, o come altro volesse definirla Enrico, la siepe aveva assunto dimensioni ciclopiche. Non era solo una questione di larghezza, ma anche di altezza: bisognava salire su una scala veramente alta per svettare i rami che si trovavano a più di tre metri da terra, ovvero la maggior parte, e la fatica era notevole. Dopo quattro giorni di sfacchinata si resero conto di non aver scalfito che il bordo dei colossali arbusti. Il lavoro che li attendeva era soverchiante, avvilente, demoralizzante.
«Ma pensa te la fatica che mi tocca fare!», imprecava Enrico, «per un marciapiede che non usa nessuno, poi!... è assurdo! non ha senso!... e poi guarda che massa di roba, Clara!», si abbatteva, «Non ce la farò mai!»
«Su Enrico, coraggio», lo rincuorava lei, «Non pensare a tutto insieme... tagliamola un pezzettino per volta... vedrai che ce la facciamo»
Parlava con le sue gambe, in effetti, dal momento che lui era arrampicato sulla scala: due stecchi pallidi con pochi peli rossicci sparsi qua e là che sbucavano da un paio di pantaloni corti, troppo larghi per ciò che erano chiamati a contenere.
Eppure, quelle poche parole, pronunciate con calma da quella donna così minuta, avevano un effetto taumaturgico su Enrico.
Lui, più che altro, era ogni volta sbalordito dal fatto che lei sapesse con certezza che ce l’avrebbero fatta: non lo diceva tanto per dire, lei lo sapeva! Si percepiva dal suo tono di voce. E questo calmava Enrico all’istante, almeno per quella mattina.
Potevano infatti lavorare solo al mattino, prima che lui andasse in ufficio, perché l’imperversare dell’anticiclone africano, che aveva come complice l’esposizione a sud del lato da tagliare, rendeva l’aria torrida già alle otto: era impossibile anche solo immaginare di tagliare la siepe più tardi di quell’ora. Così dovevano alzarsi alle 5:30, cosa che Enrico odiava e non aveva mai fatto in vita sua. Quindi, la mattina dopo, puntualmente ricominciava:
«Ma è mai possibile doversi alzare a quest’ora tutte le mattine?», si lamentava, «Guarda, Clara! Non ci sono in giro nemmeno i muratori...»
E zac!... zac!... che tagliava intanto i ciuffi sporgenti. Sempre con meno rabbia, però, bisogna dire.
Clara cercava pazientemente di calmarlo e, intanto, giorno dopo giorno, si rendeva conto con piacevole sorpresa che l’umore del marito stava cambiando. La calma che regnava nel quartiere, a quell’ora ancora addormentato, pareva piano piano entrare anche dentro di lui. Il dolce cinguettio degli uccellini, che per primi si svegliavano, sembrava suggerirgli che alzarsi a quell’ora non era poi così male. Le sue lamentele divennero via via meno convinte.
«Amore, passami il seghetto per favore», le disse lui un bel giorno, «Questo ramo è troppo grosso... le cesoie non bastano»
«Ho sentito bene?», si chiese lei, scombussolata e compiaciuta al tempo stesso, mentre gli passava l’attrezzo, «Davvero mi ha chiamata Amore?...»
Capì che erano ad un punto di svolta: era dalla prima notte di nozze che non la chiamava più così.
Alzarsi presto, in breve, divenne una piacevole abitudine. Il profumo che si sprigionava ad ogni taglio dai rami di Lauroceraso pareva ora lenire i rancori di Enrico. E anche i suoi gesti si erano fatti più calmi: usava le cesoie con più cura e meno veemenza, facendo così meno fatica con più resa. Arrivò addirittura a dire che, se anche avesse potuto usare il decespugliatore elettrico, cosa che non poteva fare per via del rumore molesto a quell’orario, non lo avrebbe comunque usato per rispetto alle piante.
Così, Enrico, non più accecato dalla collera, iniziò a vedere nella siepe cose nuove. Trovò ad esempio delle infiorescenze a grappolo grigie e morbide come seta e, chiedendosi cosa mai fossero, all’uscita dal lavoro andò a comprare un libro di botanica che consultò la sera stessa. Con sua grande sorpresa riconobbe le infiorescenze come appartenenti al Salice viminale (Salix viminalis). Cominciò allora a mettere da parte tutti i ramoscelli e le foglie che gli sembravano differenti dal solito e scoprì ben presto che la sua siepe non era affatto costituita da una sola specie vegetale, ovvero il Lauroceraso (Prunus laurocerasus), come aveva sempre creduto, ma, frammisti ad esso, erano cresciuti in quegli anni una incredibile varietà di arbusti selvatici: vi trovò ad esempio il Corniolo (Cornus mas), riconoscibile per i suoi caratteristici frutti commestibili di color rosso ciliegia, il Carpino bianco (Carpinus betulus) con il suo manto di foglie rosso marroni, il Sambuco comune (Sambucus nigra) dalle profumatissime infiorescenze bianche e le bacche nere, addirittura il Nocciolo (Corylus avellana), con le sue tipiche ghiande! e ancora il Ligustro (Ligustrum vulgare), il Prugnolo selvatico (Prunus spinosa), la Sanguinella (Cornus sanguinea)! Per non parlare della fauna che era venuta a popolare quegli arbusti! Senz’altro gli uccelli, di cui, via via che tagliava, trovava i nidi, e poi i ragni dalle strabilianti opere architettoniche, i luccicanti coleotteri, i pericolosi nidi di vespe. La sterile siepe frangivista si era dunque trasformata in una selva, tutt’altro che oscura, ma anzi meravigliosa e ricca di vita. La rinaturalizzazione del suo giardino stava quindi avendo successo, ma la cosa paradossale era che non lo avrebbe mai scoperto se non lo avessero costretto a tagliare la siepe. Questa cosa lo fece riflettere. Lo sfiorò anzi il sospetto di essersi intestardito a non volerla tagliare soltanto per pigrizia. E, intanto, quella piccola avventura che si ripeteva ogni mattina gli smuoveva dentro, senza che ne fosse consapevole, cose profonde. L’antico cacciatore-raccoglitore sepolto dentro di lui riemergeva silenzioso dall’abisso ancestrale: anche se non cacciava nulla, anche se a raccogliere era sua moglie. Non si trattava più di teorizzare sul ritorno alla natura, osservandola a distanza attraverso la porta-finestra del suo soggiorno. Niente affatto! La quotidiana fatica a contatto con il creato lo aveva ormai immerso in essa fino al collo: ora ne era dentro, ne faceva parte davvero! Abituato da anni al solo lavoro d’ufficio, tornava finalmente ad appartenere al genere Homo! Ed ecco che quella strana macchina che era il suo corpo, anziché usurarsi, con l’utilizzo si fortificava. Ed ecco che gli isterici tumulti del suo animo finalmente si placavano e dentro di lui veniva a regnare la pace. Si sentiva inspiegabilmente meglio, più forte, pieno di energia. Gli capitò addirittura di tenere testa ad un collega durante una riunione, in ufficio, davanti a tutti i superiori, cosa già stupefacente di per sé, ma che lo sorprese ancora di più per il tono pacato, calmo, ma molto deciso con cui aveva saputo farlo.
Enrico, senza rendersene conto, era diventato un’altra persona.
Anche con Clara, adesso, le cose erano diverse: facevano l’amore due o tre volte alla settimana, non più una volta al mese. E lei, che si sentiva di nuovo desiderata, ne gioiva intimamente. Si guardava bene, però, dal manifestagli alcuna sorpresa, intuendo che sarebbe bastata una sola parola a rompere l’incantesimo. Si godeva semplicemente la trasformazione del suo Enrico, e lo ammirava da sotto in su, mentre, arrampicato sulla scala, lottava indomito contro l’entropia dell’universo a colpi di cesoia.
Manco a dirlo, i rapporti con i vicini migliorarono notevolmente. Ornella, la dirimpettaia, adesso si alzava presto apposta per far loro il caffè.
«Fate una pausa, su», scherzava avvicinandosi con le tazzine, «Dai Enrico, vieni giù da quella scala!...»
«Volete un po’ di limonata fresca?», diceva Stefania, quella che abitava all’angolo della via, arrivando poco dopo con una brocca imperlata di condensa.
Non ce n’era alcun bisogno, lo sapevano bene: Enrico e Clara erano subito fuori da casa loro, con un frigorifero fornitissimo a portata di mano. E, oltretutto, il taglio della siepe era ben lungi dall’essere completato. Ma era un modo che le vicine avevano per premiare la loro buona volontà e per mostrare che avevano ormai seppellito l’ascia di guerra.
Le donne si fermavano a parlare con Clara. Enrico, invece, mettendo in comunicazione i suoi due canali uditivi, faceva in modo che il loro chiacchiericcio ci passasse attraverso senza fermarsi in mezzo, e, tutt’uno ormai con le sue cesoie, in trance agonistica si potrebbe dire, continuava a tagliare, tagliare e ancora tagliare.
Verso la metà di settembre la potatura del lato esterno si poteva finalmente dire completata. Certo, c’era ancora da fare tutto il lato interno, ma erano almeno al giro di boa: anche se lontana, Enrico poteva almeno intravvedere la fine. Adesso anche lui era certo che ce l’avrebbero fatta. È vero, le giornate si accorciavano: Enrico non riusciva più a tagliare la siepe prima di andare in ufficio; ma, in compenso, faceva meno caldo e vi si poteva dedicare la sera, almeno quell’oretta che avanzava prima della cena. E poi c’erano il sabato e la domenica, durante i quali si votava completamente a quel lavoro. Recuperava così facilmente il tempo perso durante la settimana.
Venne però l’autunno, e con esso dei lunghi giorni di pioggia. E poi venne l’inverno, con il suo freddo pungente e addirittura la neve. Il lavoro procedette dunque a rilento e, per diverse settimane, addirittura si fermò. Ma Enrico ce l’aveva sempre in mente: sapeva quel che doveva fare, e, allo sciogliersi della neve, alla minima tregua della pioggia, ecco che si precipitava alla siepe a lavorare. L’obbiettivo ormai era a portata di mano: doveva completare la potatura a tutti i costi.
Ci riuscì, con molta gioia, a primavera inoltrata. Non gli pareva vero di aver dato l’ultimo colpo di cesoia. Già che c’era tagliò l’erba del prato: anche quella gli arrivava ormai alla vita, ma non gli ci volle che una domenica mattina. Era esausto, ma molto soddisfatto. C’era anche il sole. Dopo pranzo posizionò due sdraio nel prato appena tagliato e vi si sedette con Clara. Bevvero un bicchiere di vino mentre ammiravano con piacere il lato interno della siepe, finalmente ordinato, tenendosi per mano. Ce l’avevano fatta! C’era da esserne orgogliosi.
La mattina dopo, Enrico salutò la moglie tutto contento e uscì per andare in ufficio. Ma non ebbe nemmeno il tempo di vedergli chiudere il cancellino, che Clara sentì imprecare bestemmiando.
Corse fuori spaventata.
«Tutto bene Enrico?», chiese al marito che trovò piantato immobile sul marciapiede, «Eri tu che gridavi?»
«Ero io si!», sibilò lui imbestialito, «guarda!»
«Ma cosa, Enrico?... io non vedo nulla»
«La siepe!», disse lui incavolato nero.
«Eh», disse lei, «quindi?»
«Ma non vedi che il lato esterno è già cresciuto di un metro?... che occupa già mezzo marciapiede?...», gridò Enrico, «È già ora di ricominciare da capo, santo iddio!... No, ma io giuro che stavolta mi rifiuto!... No, no... io non la taglio più!»