Cartografia

Cartografia

 

Quante volte si lascia malvolentieri la propria casa, o il proprio paese, per partire alla volta di una coordinata astratta, convinti che mai in futuro sentiremo la mancanza della nostra condizione di esuli. E quante volte, al rientro, dopo anni e non senza sorpresa, ci abbandoniamo alla nostalgia. Pensiamo alla nostra nuova casa con il trasporto che talvolta accompagna il tradimento e con il fervore che si addice a una conversione. Ci chiediamo come un punto anonimo su una mappa abbia potuto trasfigurarsi in una città concreta. Di Wrocław non conservo alcun album di fermi immagine, non ne ho bisogno. Quella città vive in me e mi appare nitida soprattutto nei dettagli, nei suoi cortili nascosti e segreti come una confessione fatta a un amico. Tutt’ora, nel ricordo, le rondini impazzite perseverano nelle loro acrobazie tra le volte infinite del mercato vecchio, una nota si propaga da una finestra del teatro dell’opera accordandosi al rollio degli skateboard e dei pattini sul cemento, il matto barbuto annuncia con il megafono l’imminente fine del mondo e una signora in vestaglia rosa trascorre ogni notte a cantare per le strade. Sono certo che se la visitassi di nuovo, adesso che non le appartengo più, quella città mi apparirebbe fuori sincrono con la mia e mi offenderebbe con il suo presente. Meglio non disturbarla.

C’è qualcosa di innaturale nello stare legati a diecimila metri di altitudine in un cilindro di metallo. La liturgia del gate, l’ingresso dei passeggeri in fila indiana, il saluto rituale degli assistenti di volo, non facevano che confermare l’impressione che viaggiare in aereo dovesse essere ancora considerato un miracolo. Non ero mai stato ipocondriaco, ma nei mesi che precedevano la mia partenza, di notte, ascoltando le pulsazioni del cuore attraverso il cuscino mi ero chiesto: quanto può andare avanti a lavorare senza sosta? Quando avevo detto ad amici e familiari che mi sarei trasferito in Polonia mi avevano guardato stupiti, come se si fosse trattato di una terra remota oltre i confini del mondo conosciuto, il cui nome veniva tramandato soltanto da antiche leggende o mormorato da un oracolo al culmine dell’atto messianico.

L’aeroporto di Ciampino era immerso in una nube di polvere gialla. I pini che intravedevo offrivano un poco d’ombra a formiche che costruivano cattedrali sottoterra. C’era un vento caldo. Poco lontano, all’ippodromo delle Capannelle, dinanzi a un pubblico che assisteva annoiato, si dispiegava il miracolo barocco delle criniere dei cavalli. Sulla linea d’arrivo, un gruppo di aironi si alzava pigramente in volo, nel loro cristallino si immergeva l’immagine del mio Ryanair.

La stazione degli autobus di Varsavia sembrava esser stata esclusa da quel processo di modernizzazione che altrove aveva iniziato a mutare il volto della città da almeno trent’anni. Tutto, a partire dal grande orologio sovietico di metallo, qualificava la struttura quale lascito di un passato che obbligava a fare i conti con la propria esistenza. Nella sala d’attesa alcuni piccioni si erano posati sui tabelloni meccanici, sulle lampade color ocra a forma di imbuto, sul pavimento rivestito di gomma nera. Sospesa a mezz’aria da lunghe strutture d’acciaio, un televisore trasmetteva l’angelus. Anziane signore svolgevano incessantemente il conto dei groszy, ingabbiate in bussolotti di legno. Eravamo tutti stranieri in quella sala d’attesa. Brulicava di intere famiglie con valigie enormi e malandate, manipolate di mano in mano come in un carosello impazzito. Speravo di non perdere il mio trolley in quella corrente.

I giorni si rincorrevano confusi, penetrando l’uno nell’altro in un sovrapporsi di fattezze grigie, consumati sul sedile di un autobus o nei vagoni letto, di città in città, di colloquio in colloquio. Quando finalmente venni assunto, quella città mi accolse nel suo magma candido, mi abbagliò con i suoi azzurri e con i suoi grigi ghiacciati, come un paesaggio di Bruegel.

I primi tempi soggiornai nell’ostello più economico della città. Osservavo il soffitto scrostato, lanciando ogni tanto un’occhiata all’unica compagna di stanza presente, chiedendomi come fosse possibile dormire immobili per più di dieci ore. Dal piumino spuntavano le liane intricate della sua capigliatura.

Altri ospiti irruppero nella stanza sbattendo la porta, lenti nei movimenti e nella parola, sporchi di intonaco, trasportando cassette da lavoro, caschi e zaini, ignorando la mia presenza. Il primo dei tre, un ragazzo moro con al collo un enorme crocifisso che affondava in una selva di peli e una sigaretta quasi spenta in bocca, collocò un barile davanti all’ampia finestra. L’uomo più anziano dei tre doveva avere circa quarant’anni, portava le bretelle della tuta da lavoro ciondolanti sui fianchi. Vuotò un sacco di carbone nel barile parlottando con gli altri due. Il terzo del gruppo, un giovane biondo dalle labbra rosa, versò dell’alcool etilico sulla carbonella e il ragazzo peloso gettò un fiammifero nel barile. Un’alta fiammata divampò tingendo di riflessi sinistri la stanza. La finestra era spalancata e dopo un paio di minuti non seppi più se sentissi più caldo o più freddo di prima. Nascosi il portatile sotto il lenzuolo e mi avvicinai al trio. Avevano tirato fuori dai sacchetti delle birre forti in lattina, che, come noto, a prescindere dalla marca, sono sempre contraddistinte dal colore nero.

—Non lo sapete che è proibito? esordii in polacco a loro che parlavano ucraino – e russo. Loro si voltarono nient’affatto sorpresi da quell’interruzione, avevano capito. Il biondo e il più anziano si guardarono l’un l’altro, coprendo con la bottiglia un cenno di sorriso. Mi chiesero da dove venissi. —Italia, risposi senza staccare gli occhi dalla fiamma. I tre sghignazzarono come se avessi appena fatto una battuta simpatica, come se ci trovassimo alla fine del mondo. Il più anziano si rivolse a me un po’ a gesti e un po’ nella propria lingua, mi fece capire che non ci credevano affatto che fossi italiano. Per un attimo pensai di estrarre il mio passaporto dalla tasca e mostrarlo loro, ma poi ritenni preferibile non rischiare che il loro umore peggiorasse, dato che in quel momento sembrava ottimo. I tre non parevano turbati dalla mia presenza, il giovane moro mi passò una bottiglia di birra e mi lanciò uno sguardo duro.

Ci sedemmo sul pavimento, intorno al fuoco. Ciascuno dei tre mi mostrò alcune foto dei propri figli. Chiesi della situazione nel Donbass (era il 2017) e appresi che avevano tutti trascorso un periodo al fronte. Sorrisi molto, a volte di cuore, altre volte perché non avevo capito nulla. Il biondo finì per mostrarci una serie di foto di donne nude sul cellulare. Per qualche motivo ritenevano importante sapere quali tra quelle immagini preferissi: le indicavo puntando con il dito. Nella mia mente vorticarono le nebulose evocate da quel poco dei loro discorsi che fui in grado di comprendere. Pensai alle loro case in campagna, immaginai uno sterrato, il capannone degli attrezzi, i fiori finti e le icone tra tende ricamate in puntocroce. Le birre si moltiplicarono. Tutti ci lamentammo di esser senza soldi. Il fuoco si spense. La nostra scorta di alcol era terminata. A gesti, proposi loro di andare a comprarne dell’altro. Erano già alla porta quando mi piegai ai piedi del letto in cui dormiva la nostra sconosciuta compagna di stanza. I tre si fermarono all’ingresso, sussurrando tra loro. Scossi la ragazza. Niente. Non sentivo neanche il suo respiro. La spinsi in modo più brusco, iniziando ad agitarmi. Ipotizzai una intossicazione da monossido di carbonio. Lei si voltò lentamente e aprì i suoi occhi ancora animati dalle vibrazioni dei sogni.

Mormorò con voce lieve come se mi conoscesse, in un aspro accento impresso da una lingua madre che non seppi riconoscere, stemperato soltanto dal contralto della voce. Le iridi s’inabissarono, mentre affogava nuovamente nel buco nero del sonno. Sorrise, poi scosse la testa, gli occhi già chiusi, e non capii se stesse sorridendo di me o a me o per quel che già vedeva oltre me, oltre le volte a crociera dell’ostello, oltre il gioco assiro delle stelle inciso sul cielo nero di gennaio.

Tornai al trio, pronunciai la parola ‘vodka’. Partimmo. Percorremmo i corridoi oscuri, senza fine, intrisi dei bagliori intermittenti e smeraldini provenienti dalle porte socchiuse di alcune camere. Scendemmo le scale di legno tarlato e scricchiolante, superammo la reception deserta, caracollammo sul maniglione della porta d’ingresso ridendo e imprecando in tre lingue diverse e ci gettammo nel cortile buio e sporco.

Поехали! gridai, indicando col dito la direzione, mettendomi alla testa del gruppo, e, barcollanti, ci incamminammo alla volta del rivenditore d’alcolici 24/24, strappando alla notte il nostro esile sentiero verso l’ignoto.

Lavoravo da due settimane. La novità dell’impiego svaniva in fretta e quelle operazioni monotone erano divenute per me familiari come i pensieri che precedono il sonno, quelle strane liturgie sull’orlo dell’oblio. Eravamo un gruppo di ragazzi e ragazze tra i venti e i trent’anni chiusi in una scatola di ovatta in cui i pensieri, incapaci di formare strutture complesse, si discioglievano in scarabocchi. Le finestre insonorizzate non lasciavano trapelare che un mormorio quando la pioggia le colpiva. Tutti laureati in discipline umanistiche, fuori eravamo pittrici, scrittrici, musicisti, fotografi e ballerine, o almeno quella era la nostra illusione. Ma ogni giorno lasciavamo i nostri progetti all’ingresso, nelle tasche del cappotto. Lì dentro bastava eseguire pochi ordini e lasciare che il tempo scorresse.

Tornai per almeno cinque volte al contenuto dell’e-mail, non la compresi. Guardai la sedia di Piotr, vuota, pronta ad accogliere il prossimo. Eravamo diventati amici. Le nostre conversazioni erano continuamente interrotte da secche di silenzio, iati fisiologici nell’incontro tra due caratteri opposti e tuttavia complementari, piegato dalle leggi di un’imperscrutabile alchimia. Lui era una di quelle persone che quando esaminano una radio aperta sono in grado di intuirne l’intimo funzionamento, una di quelle persone restie a discorrere di amori e di corpi, che distolgono il naso dai profumi troppo intensi. Eravamo soliti mangiare un pretzel ricoperto di sale a pranzo. In realtà, Piotr avrebbe voluto saltarlo, ma mi faceva compagnia. Piotr serbava ancora un poco della sua grazia di bimbo, rimasta intatta come un relitto elettrico in certi singulti e spasmi da marionetta fuori controllo che era solito fare quando non sapeva come comportarsi nei momenti conviviali in ufficio o quando dicevo qualcosa che lo coglieva di sorpresa, che usciva dai binari del lecito. Dei bimbi aveva anche l’intransigenza, il fisiologico manicheismo, era duro, forte di un pessimismo che lo spingeva a non accettare alcun tipo di compromesso. Erano tratti che ammiravo in lui. Piotr era piuttosto taciturno e gli spazi vuoti li arabescavo di vagheggiamenti che ascoltava camminandomi accanto col capo chino, arrogante come ero nella convinzione che il suo grigio potesse rilucere dei colori riflessi dalle mie speranze scoppiettanti. Non aveva alcun bisogno, in realtà, dei miei fuochi d’artificio. Aveva solo imparato a tollerarmi. Magari, in fondo, gli facevo anche pena.

Di lui non è rimasta traccia, né delle ore trascorse lì ad aspettare che arrivassero le cinque. Era un tipo preciso. Spesso invece capitava che qualcuno lasciasse una traccia di sé prima di sparire: una foto inchiodata a una bacheca di feltro, un calendario con foto di cani o di neonati, una calamita a forma di cabina del telefono londinese o dell’Hard Rock di Barcellona abbandonata sull’armadietto. Anche Kasia se ne era andata da qualche giorno, si era innamorata di un uomo più grande e nell’ultimo mese aveva studiato l’italiano durante la pausa pranzo. Aveva dimenticato un romanzo: I fiori di Capri, ottocento pagine.

Seduto in una postura scorretta, mi lasciavo cullare dalla noia e dal tepore. Nelle cuffie le pulsazioni di una bossa nova mi aiutavano a collocarmi mentalmente nel mondo: cinque lunghi passi mi portavano a Roma, trenta passi di danza a due ne facevano sessanta avvinti in direzione di Rio. Ma il mio posto era lì: tra le cattedrali di mattoni e le ciminiere delle centrali elettriche, in un freddo grattacielo sorto in mezzo al reticolato dei tram su cui la gente alternava il silenzio ai bisbigli.

Mi piaceva il mio quartiere. Le strade non erano asfaltate ma lastricate. Le imponenti acacie esibivano grappoli di fiori bianchi a giugno, simili a ventagli di odalisca. Su alcune facciate non era affatto inusuale notare dei fori di proiettile dai tempi della guerra. C’erano, fondamentalmente, due tipi di abitazioni. File di eleganti appartamenti lasciati a loro stessi, costruiti dai tedeschi a fine Ottocento. Ampi androni decorati con stucchi raffiguranti immagini neoclassiche, un cigno, una naiade; nel cortile ombroso, un’ortensia blu. Scalinate di legno o di marmo, il pavimento crepato, ancora bello, una bicicletta appoggiata al muro, sull’intonaco che cadeva a pezzi una scritta con lo spray nero: Śląsk mistrz Polski. L’altra tipologia erano gli appartamenti costruiti sul modello sovietico, che potevano avere tre o trenta piani ma si somigliavano tutti. Io abitavo in un appartamento del secondo tipo. Anche questo tipo di abitazioni aveva un proprio cortile interno, una piccola giungla domestica. Mi piaceva esplorare quei sogni brutalisti. Non si giungeva mai ad un vicolo cieco. Se deviavo dal marciapiede e prendevo un vialetto di cemento tra l’erba alta, le aiuole e l’ombra di un salice, potevo proseguire sotto uno dei dieci archi in cui si divideva la struttura, curioso di vedere cosa mi sarebbe aspettato.

Dall’altra parte c’era un cortile silenzioso, popolato da malvarose che ondeggiavano al vento, poi un muro che potevo costeggiare passando accanto a una giostra girevole, scolorita. Consapevole ormai di trovarmi nel cortile del cortile del cortile, mi attendeva un altro palazzo, più grande, che ero in grado di varcare, i bagliori del tramonto lasciavano il posto all’insegna intermittente di qualche negozio di alimentari, di un barbiere, di un loculo che vendeva giornali e il lotto. Infine, giungevo davanti a un palazzo enorme, un Titanic illeso, davanti al quale potevo essere a Roma, bambino, sentirmi impaurito ma curioso. Curioso di esplorare, partendo da un pianerottolo a caso, i corridoi freddi di quei palazzi, salire senza mai voltarmi, per quindici piani, fino al tetto che era una distesa color ruggine, color piazza del Campo, colore dei miei sogni dechirichiani. Oppure - e ormai la vecchia signora intravista a vendere sigarette e i fiori che danzavano erano l’unica ancora prima della distesa metafisica in cui ambivo perdermi - aprire una delle porte coperte di verderame e discendere nelle viscere di quei palazzi, giù per scale metalliche fino a raggiungere una distesa di cantine chiuse.

Olga mi stava chiamando. Avevo un cellulare simile al 3330. I miei colleghi lo avevano ribattezzato “il cellulare di Pablo Escobar”. Ignorai la chiamata e mi tuffai in un locale frequentato da immigrati spagnoli e italiani. L’aria era quella di una serra. Litri di 1 Million si mescolavano a vodka e sudore. Due ragazzi in camicia abbottonata fino al collo, che non conoscevo, mi trascinarono in pista. Avevo seguito il consiglio perverso di Marcin: due bicchieri di vodka senza ghiaccio seguiti da due birre alla spina. Così mi riusciva meno facile pensare alla mia ragazza che non avevo il coraggio di lasciare, sensibile fino a essere sensitiva, che rigirandosi nel letto nella casa dei suoi, vicino al Baltico, avvertiva quanto fossi prossimo al punto di non ritorno.

Una bassetta mi guardava allusiva, forse aveva qualche anno più di me. Mi avvicinai, le chiesi il nome: Ola. Lei non chiese il mio. Iniziammo a ballare. Lei, quasi sorpresa dal mio ardimento, coronava di ‘O’ di rossetto fucsia il mio inatteso assalto: e allora intrecciamoci in questo reggaeton sul limitare della rovina, del domani, dell’estensione della mia ciucca! Ola aveva i capelli rossi. Mi disse: siete tutti uguali. È un complimento, lo so, pensai, mentre le stringevo la vita decorata da una gonna a papavero rovesciato, era una caramella da scartare, da mordere. Distinsi il suo volto non bello, tutto sparso d’efelidi leggere, quanto sarebbe facile una vita qui con te, pensai, e in fondo non ballo così male o forse è lei che volteggia così bene come una caramella impazzita al ritmo di:

 

She tells him, “Ooh, love

No one's ever gonna hurt you, love

I'm gonna give you all of my love

Nobody matters like you!”

 

Un’ora dopo mi trovavo in un uber, ho ancora tatuati nella mente l’oro e il rosso del locale pacchiano di poco prima e ora nel ricordo anche i sedili posteriori del taxi sembrano i posti a sedere del teatro dell’opera di Roma. Una ragazza spagnola, molto ubriaca, seduta a gambe larghe sul sedile di fronte, gridava frasi sconnesse in un castigliano incomprensibile all’autista con la schiena curva e un baffo rassegnato. Io mi ero afflosciato sui cuscini da bordello di quel bizzarro taxi: alla mia sinistra c’era Javier, l’unico ancora sobrio, che di tanto in tanto, sorridendo imbarazzato, cercava di rivolgere qualche parola alla madrilena indemoniata. Alla mia destra c’era Ola. Fingeva di guardare fuori dal finestrino. Le sfioravo le gambe ornate di calze decorate con bassorilievi e altorilievi raffiguranti lontane galassie e mi lasciavo cullare da quel momento perfetto, con i Myslovitz alla radio, le urla della spagnola e quel caschetto rosso e il collo bianco che costituivano un crocevia tra me e lei dove disperdere le sciocchezze che sciorinavo a mezza voce.

Quando arrivammo a casa di Javier, un appartamento acceso come un faro in un immenso edificio popolare di cemento azzurrino, Ola si sedette sul divano e mi sembrò ancora più piccola nell’oceano di finta pelle. Come un cucciolo di albatros invischiato in una macchia di petrolio, con estrema difficoltà cercò di riemergere dalla sbornia e si mise a sedere, guardò il parquet, sembrò sul punto di rimettere, ma poi trattenne chissà come l’impulso e si rigirò riassumendo la posizione fetale.

Io aspettavo Violetta. Mi aveva detto una frase che non riuscivo più a togliermi dalla testa:

—Anche io ho passato un periodo così, senza soldi, mangiavo solo patate. E mele.

Mi ricordai dell’apparizione che avevo avuto giusto qualche settimana prima davanti al microonde d’acciaio. In quell’occasione Violetta aveva accennato un sorriso, aveva abbassato gli occhi sul pranzo ma non lo aveva guardato. Nonostante il suo odore di maglioni umidi e di lavanda, ero attratto da lei: china com'era sul suo cumulo di riso scondito e sul suo uovo sodo, le sue braccia parevano due rami abbandonati sulla sabbia, strutture di agata o di alabastro su cui le vene disegnavano vaghi paesaggi marini. I nei si rincorrevano sulla pelle come note impresse su un’antica partitura, suggerivano scorciatoie verso una dimensione remota, verso quel che era stata: un cortile innevato, dove la città finiva, soltanto suo. Immerso nelle chiacchiere e stordito dalle risate dei colleghi, quante volte l'avevo ammirata, mentre leggeva un libro infinito, immersa nella luce. A ogni istante che si consumava appariva più slanciata, infinita, la sala pranzo non le bastava più, perché era già oltre, troneggiava dall'altezza del futuro che si era ritagliata e sapeva che ci avrebbe lasciati molto presto, a domandarci cosa ne sarebbe stato di lei. A noi, circensi in pausa, non restava che guardarla da terra librarsi sul sottile filo corsivo del futuro, maestra di equilibrismi.

Un'altra chiamata mi fece vibrare la coscia, era la terza, dovevo rispondere: —tutto ok, sono a una festa, sì che te lo avevo detto, ok dai parliamone domani, ma tu non eri andata a letto?

Mi voltai, oltre il banchetto privo di carboidrati: illa apparuit.

Alta, una scultura della dea Diana, l’incarnazione di Kalì ma di Kiev, il panneggio stantio e muffoso facevano risaltare una bellezza che - ne ero certo - solo io ero in grado di percepire, apparve sull’uscio. Violetta, mia compagna di digiuni già da prima che ci conoscessimo! Quante poesie, tu ignara, hai ispirato! Navigando per i perigliosi recessi di Facebook ero stato in grado di raccogliere tutti gli indizi per fabbricare una miriade di cosmogonie ispirandomi alle tue mani aperte. In una foto: le dita lunghe, la pelle chiara, i palmi tesi a mostrare due manciate di lamponi, il loro succo a macchiarli.

Ma la mia adorazione non poté durare che un istante: una figura grigia la seguiva, come un’orrenda appendice, lì per lì non capii, mi avvicinai facendomi largo come una spaccaghiaccio tra due ombre piroettanti, poi misi a fuoco i capelli da spaventapasseri, il volto poco intelligente, i vestiti fin troppo leggeri per il clima di gennaio: era il suo ragazzo. Ogni miracolo si fonda e trae forza da chi non se ne accorge, evidentemente. Malvolentieri mi ritrovai a chiacchierare su un divano blu notte, di raso. Nella mente avevo il suono impossibile della neve che avevo udito passeggiando davanti al Baltico, nel quartiere di Brzeźno, a Danzica. Non c’era vento e il freddo era accogliente. Con il suono delle onde dietro di me passai accanto ad un edificio di mattoni, ormai in rovina, scritte in tedesco risalenti a più di un secolo addietro trasparivano sotto la passata di intonaco ormai consunta. Sul muro qualcuno aveva affisso un cartello. A penna, c’era scritto: “Niemiecki sklep z początku XX wieku – część naszej historii”, negozio tedesco di inizio Novecento: un pezzo della nostra storia. Mi ricordai di Olga: in qualche ora avrebbe preso l’autobus per raggiungermi. Dovevo fermarla.

Quando passai per il corridoio alla ricerca di un angolo di quiete le luci erano soffuse e le voci degli ospiti si erano fatte più scomposte, le loro frasi più rade. Entrai in una stanza a caso, chiusi la porta, la musica arrivava ovattata, la stanza era tinta della luce azzurra dell’immenso cartellone pubblicitario. Il telefono vibrò. Risposi.

 

—Sei ancora alla festa?

—Sì. Non venire domani… cioè, oggi.

—Mi ami ancora?

—Sì.

—Allora prendo l’autobus.

—No, non venire, non ti amo più.

—Ti sei trovato un’altra, vero?

 

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