Diamantizzazione

Diamantizzazione

 

Il ticchettio dell’ombrello mi accompagna lungo Calle Cordellina. L’aria salmastra profuma l’abito di nebbia indossato dai palazzi, qualche patera riaffiora a ricordo della Serenissima.

Par Tera, Par Mar: San Marco!

Sbuco sul Rio della Misericordia e un’ondata di fritto, spritz e sigaretta mi inzuppa il completo.

Dopo il diluvio, i baccari serali sono tornati a raccogliere i propri adepti.

Sguscio tra universitari, turisti ubriachi, barcaioli e proseguo la marcia verso un cerchio di cilindri e treccine.

Il ghetto mi abbraccia nella sua muraglia. Dall’alto di un’altana, due bambini spiano la squadriglia di militari che pattuglia la piazza.

Appartamenti, sinagoghe, scuole, ristoranti kosher sono come valigie stivate nel traghetto per il Lido. Cammino verso la prossima fermata. Un sottoportego deserto, un anonimo ponte fino al cul-de-sac di una lunga calle. Sotto un filo di panni, una vetrina luccica di gioielli.

Busso alla porta. Il cloc della serratura invita a entrare.

L’orafo mi studia sotto una kippah blu, la bocca ondeggia indecisa in mezzo alla barba nera.

«Mi serve un anello» sputo fuori veloce, come un ladro.

Non serve aggiungere altro, che il gioielliere mi squadra con occhio esperto e poi traffica tra i cassetti.

Mi porge una scatolina in velluto rosso e aspetta a braccia incrociate.

«Bello vero?»

«Bellissimo» mormoro, gli occhi incastonati nell’arcobaleno di facce del diamante.

L’anello vortica tra indice e pollice, una ballerina di spigoli pungenti da cui non riesco a separarmi.

È per la luce? Eppure è solo un quarto di carato.

A Marta basterà?

Piego il gioiello in un arabesque.

Sono quattro anni che aspettiamo. Quattro anni che abbiamo imparato a fare i genitori, dimenticandoci del nostro bacio quotidiano, delle nostre cene, del nostro sesso.

Il cartellino del prezzo oscilla come un cappio. Faccio finta di non badarci, ma lo vedo. Eccome se lo vedo.

Silenzio.

Potremmo usare quei soldi per una vacanza. È da tanto che non andiamo in montagna. Noleggeremo un’auto per andare in quel laghetto di cui parla sempre e di cui non ricordo mai il nome.

Lo sguardo dell’orafo è un ascensore. Studia il mio viso, il diamante, l’orologio al polso.

“Un anello si compra senza riflettere” leggo tra le rughe della fronte stempiata.

Non esiste più la pazienza in questo universo.

Nemmeno per la scelta del simbolo di un amore. Un filo d’oro bianco e una pietra rubata alla terra.

Un quarto di diamante basterà?

La mano rugosa allunga un cartoncino dorato sul tavolo. Buona scusa per interrompere quella fila di pensieri dannosi.

«Colore D.»

«È buono?»

«Il meglio» commenta con un acuto.

«Niente A?»

«E o F.»

Poi il professore in cattedra telegrafa con l’indice su un’altra scritta.

«Vs1. Chiarezza più pura. Non lo dico io, ma il G.I.A.»

Annuisco.

«Americani.»

«Non eravate voi ad avere i diamanti?»

Declina con un gesto della mano.

«Gli indiani.»

«Indiani del Taj Mahal?»

«Un miliardo di persone è sempre un miliardo. Ormai comandano loro.»

«Dove?»

«Congo per lo più» dice e lancia un sospiro scenico. «“La globalizzazione futuro dell’umanità” dicevano. La globalizzazione ci ha rovinati».

I pensieri ruotano assieme alla ballerina.

Congo?

Zaire, Leopoldo II, 1997, Goma. Foreste, piantagioni, gorilla e miniere, tante miniere. Ecco cosa penso con la parola Congo. Miniere e bambini, sangue, terra e pietre.

Ma anche il processore del cellulare viene dal Congo, il chip del computer, il litio della batteria della bici. Il mondo di oggi viene da lì, perché io dovrei fare differenza?

In fondo è un quarto di diamante.

È la diamantizzazione.

«Bello vero?»

«Bellissimo.»

 

Mi lascio alle spalle il cloc e fuggo con il ticchettio dell’ombrello. Qualche goccia casca tra i capelli, ma non ci faccio caso.

Cammino piegato in avanti, indeciso se ridere, piangere, gettarmi nel canale e affondare. Un kway verde pisello si riflette sulla pozzanghera di fronte che quasi ci vado a sbattere.

«Scusi» balbetto e faccio per deviare.

«Antonio.»

Incrocio gli occhietti bovini squadrarmi famelici.

«Professoressa Baggio.»

Una collega quasi amica per il solo fatto che dice tutto quello che pensa.

«Chiamami pure Melissa» bisbiglia con un risolino soddisfatto. Un ricciolo castano sfugge dal cappuccio. «Che ci fai qui?».

«Mi sposo» confesso, lo sguardo incollato sul gorgoglio di una grondaia.

«Quando?»

«Non gliel’ho ancora chiesto.»

«Sei fiducioso» commenta, le unghie giallo canarino svolazzano per accendersi una sigaretta.

«Abbiamo una figlia.»

«Il test l’hai fatto?» sbuffa come un treno a vapore.

Evito di controbattere con l’afrodisiaco per zitelle.

«Mostra» aggiunge e scuote gli artigli. «Ti ho visto filare via dall’orafo qui di fronte. Ha fatto lo scontrino?».

Mi guardo attorno e allungo la confezione.

«Bello.»

«Bellissimo.»

«Quanti bambini è costato?»

Con un movimento riprendo la merce.

«È solo un quarto di carato.»

«Dieci bambini. Voi storici siete così ingenui» ridacchia e aspira di nuovo. «Congo» sillabano le labbra infuocate dal rossetto.

«Anche i telefoni allora.»

«E i computer, le gonne, i tampax, e bla bla bla.» La lingua fuori la fa sembrare un rospo con gli occhiali. «È la società, prof. Una società fittizia e fasulla, che ti fa credere l’amore sia un pezzo di pietra».

«Diamantizzazione.»

«Chiamala come vuoi. A Goma i diamanti significano M23 più AK47.»

«Le equazioni non sono il mio forte.»

«Un pessimo binomio.»

Abbasso lo sguardo.

«Voglio solo regalare a Marta un bel momento. Anni difficili.»

«Lasciandogli un paio di cucchi al gioielliere? A lui hai fatto passare un bel momento.»

Una barca sfreccia per il canale, lasciando alle spalle un odore di benzina e freschin.

«Forse la tua compagna ha bisogno di altro. Riflettici, Antonio» conclude e sculetta via sotto il k-way.

 

La passeggiata dura giusto il tempo per evitare di buttarmi nel canale.

Infilo le chiavi e spingo la porta, nascondendomi per un minuto nell’oscurità delle scale.

Torno a respirare.

Casa è sempre casa. Anche quando hai un rimorso grande un quarto di carato in tasca.

Un rifugio dove qualcuno ascolterà tutta la storia prima di emettere una sentenza. Bisogna pazientare in questo universo e l’unico posto che conosco è Marta.

La trovo in cucina. Le dita affusolate raccolgono i cadaveri della battaglia: pasta alle lenticchie, carote appiccicate sul frigorifero, il tavolo punteggiato dalla robiola.

«Come è andata?»

Afferro un bavaglino stropicciato e la bacio sul collo.

Marta risponde con un quarto di sorriso.

«Oggi almeno non ha perso le scarpe.»

«Maestre?»

Fa spallucce. Appoggia un bicchiere per prendere una tazza e riparte la catena di pulitura.

«L’hanno affidata a una nuova.»

«La scuola ci aveva detto che avremmo dovuto pazientare per i primi risultati.»

«Non ce l’ho con la scuola» sibila, gli occhi verdi sui miei. Aveva pianto. «È questa società. Un mondo di arrivisti a cui non frega niente di chi è svantaggiato». Il grido le si spezza in gola.

Entrambi ci giriamo allo schermo. Il canale sintonizzato sulla nostra Sara che dorme beata.

«Nessuno ha più pazienza in quest’universo.»

«Andiamocene via. Una settimana la potrai prendere. Potremmo andare al lago.»

Prega con le mani intrecciate. Prega un Dio idiota, che ha comprato una pietra scambiandola per amore.

Il peso mi affossa.

Scuoto il capo, lei sbuffa sconsolata. Da quanto non le dico che la amo?

«Voglio sposarti Marta.»

Dimentico l’anello in tasca, gli occhi lustrano le stoviglie sul piano cottura.

Dopo qualche attimo, mi solleva il mento con un dito. L’espressione al contempo confusa, serena, arrabbiata è come le facce del diamante. Vorrei rotearla fino a trovare quella della felicità.

«Ho comprato un quarto di diamante. Sono un colpevole della società.»

Marta aggrotta le sopracciglia. Poi fa un volteggio, poi un altro. Il grembiule si gonfia, le chiazze di ragù vegetariano ruotano veloci.

Infine allunga il palmo.

Anche lei è caduta nelle tentazioni della diamantizzazione?

Sfilo la scatolina in velluto, sconfitto.

«Saretta attende la fatina dei denti» sussurra.

«Ma così lo perderà.»

«Preferisco un marito senza rimorsi» risponde e getta la confezione in tasca.

«Nemmeno lo guardi?»

Marta fa spallucce con una smorfia innocente, che mi fa battere il cuore.

Eccola la faccia del mio diamante.

«Ultimamente ha il vizio di nascondere i tesori al parco.»

«La pietra tornerà alla terra. L’antidiamantizzazione.»

La mia futura moglie si alza in punta di piedi e mi bacia sulle labbra.

«Bello vero?»

«Bellissimo.»

 

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