Déjà vu
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Déjà vu

 

Lo studentato era circondato da altri studentati, tutti edifici simili, mediamente alti e retti, mestamente privi di qualsiasi slancio architettonico - caratteristica sottolineata dal grigio chiaro che accomunava ognuna delle pareti visibili. Nella loro anonima somiglianza, il terrazzo dove si trovavano pareva però più basso rispetto ai suoi vicini, come se al palazzo mancasse un piano - chissà quali ebbrezze e gioie e feste si nascondevano in quel piano mancante, pensarono i tre all'unisono. Avevano l'impressione che dai terrazzi in cima agli studentati attigui chiunque potesse vederli, ma non c'era comunque nessuno a osservarli, come sempre.

Togliendo camicia e pantaloni, stesero degli ampi asciugamani sul cemento grezzo e rovente del pavimento, e già stanchi si allungarono al sole del pieno pomeriggio. Per provare a rinfrescarsi si passavano un spruzzino riempito d'acqua fresca, che puntavano su viso e petto per un refrigerio di una manciata di secondi. Dopo pochi minuti uno di loro disse che scendeva in stanza perché doveva cambiare le lenzuola, ma non si mosse. Un altro, riparando gli occhi con una mano, cominciò a scrutare il cielo, mirando con decisione un punto preciso. Gli altri due lo imitarono, ma in quell'angolo di cielo - come nel resto dello spazio visibile - non c'era niente se non l'azzurro abbagliante, nemmeno una nuvola stiracchiata, nemmeno la scia di un aereo, niente di niente.

L'acqua nello spruzzino divenne presto bollente, il cemento del terrazzo rifletteva i raggi del sole e loro scommettevano su quale potesse essere la temperatura percepita. Quarantacinque gradi? Quarantasette? Cinquanta?

Dopo un'ora raccolsero le loro cose, per poi scendere lungo le scale verso le rispettive stanze. Tutti e tre avevano la pelle calda e arrossata, come dei polli allo spiedo a metà cottura. Farsi una doccia e stendersi su un letto pulito sarebbe stato bello però, un sollievo meritato. Ma nessuno aveva cambiato le lenzuola, quella settimana. Uno di loro le aveva tolte un mese prima per portarle in lavanderia, ma quel giorno non aveva avuto voglia di rifare il letto, e da allora dormiva direttamente sul materasso.

Dopo essersi rinfrescati a turno sotto la doccia dei bagni comuni, i tre si ritrovarono di nuovo in stanza. Un ventilatore di plastica ronzava rumorosamente, sforzandosi senza successo di tenere a bada il caldo opprimente che premeva contro le finestre chiuse. Sdraiati sui materassi nudi, fissavano il soffitto in silenzio, le menti ancora intontite dal sole cocente.

"Non ce la faccio più", borbottò uno di loro dopo un po', rompendo il torpore. "Questa città mi sta consumando lentamente".

Gli altri due annuirono con aria cupa. Sapevano cosa intendeva. Non si trattava solo del caldo, c'era qualcosa di soffocante in quella routine immobile, nelle giornate che si susseguivano identiche, scandite solo dal passaggio tra la camera e le aule. Le lezioni, un tempo fonte forse di eccitazione e scoperta, ora sembravano solo un inutile ostacolo prima di un futuro privo di prospettive.

"Dobbiamo fare qualcosa, prima di impazzire, davvero", disse il secondo con voce rauca. "Usciamo stasera? Andiamo a bere qualcosa?"

L'idea fu accolta con un mezzo slancio di stanco entusiasmo. Sì, uscire, ricordarsi che esisteva un mondo al di fuori di quelle mura opprimenti. Forse avrebbero potuto persino incontrare qualcuno di nuovo, persone diverse dai soliti volti conosciuti, chissà magari addirittura persone interessanti. Ma esistevano davvero queste cosiddette persone interessanti?

Trascorsero il resto del pomeriggio addormentati o a fissare i cellulari, troppo stanchi per fare qualsiasi altra cosa. Quando cominciò a imbrunire, si vestirono con cura, cercando di ravvivare l'eccitazione per la serata fuori. Uscirono insieme dall'edificio, unendosi alla processione di studenti che sciamavano verso i vari locali del centro.

La città, una volta immersa nell'oscurità, sembrava quasi un posto diverso. Le luci al neon trasformavano le strade in un caleidoscopio di colori sfavillanti, le voci e le risate riecheggiavano ovunque. Per un istante sembrò quasi possibile scrollarsi di dosso l'apatia e l'oppressione delle settimane passate.

Entrarono in uno dei soliti pub frequentati dagli studenti, un postaccio scalcagnato ma tutto sommato accogliente. Ordinarono da bere e si accomodarono a un tavolino di legno, osservando la piccola folla che si muoveva attorno a loro. Se anche gli altri ragazzi e ragazze provavano lo stesso abisso d'angoscia che provavano loro, beh, non lo davano a vedere.

Anche loro provarono a mostrarsi allegri, ma ben presto le conversazioni cominciarono ad inaridirsi, sostituite da pause imbarazzanti. Lo sguardo di ciascuno iniziò a vagare distrattamente per la stanza, finché non rimasero seduti in un silenzio teso.

"Ehi, guardate quella", mormorò uno di loro a un certo punto, indicando con un cenno della testa una bionda solitaria al bancone. "È carina, no?"

"Provaci".

"Ok".

Ma nessuno dei tre si mosse.

Ordinarono invece un'altra birra, e poi ancora. Le ore trascorsero in un brusio indistinto mentre le loro menti presero ad annebbiarsi. Eppure nemmeno in quella situazione riuscivano a scrollarsi di dosso la sensazione di vuoto, di mancanza di coinvolgimento. Erano usciti per fuggire la noia, ma quella noia sembrava essere diventata parte inscindibile di loro stessi.

A tarda notte, con i locali che cominciavano a chiudere, si trascinarono fuori nel buio della strada, barcollando leggermente. La città sembrava ancora più spettrale al buio, le luci artificiali gettavano un'aura surreale su ogni angolo. Camminarono in silenzio verso il loro studentato, troppo stanchi persino per parlare. Non avrebbero saputo dire nemmeno a che facoltà erano iscritti.

Appena rientrati, uno di loro si lasciò cadere sul materasso, fissando il soffitto con occhi spalancati. "Niente di tutto questo ha senso", mormorò.

Gli altri annuirono debolmente, le loro menti ancora appesantite dall'alcol e da quei pensieri sempre più cupi. Il vuoto sembrava ancora più profondo ora, come se la serata fuori non avesse fatto altro che sottolineare l'inutilità dei loro sforzi. Se ne rimasero lì, immobili e silenziosi, a fissare il buio fino all'alba. Non che ci volle molto. Fuori, oltre le mura dello studentato, la città già si risvegliava per un nuovo giorno uguale a quello precedente.

Il pomeriggio seguente il sole batteva di nuovo impietoso sul cemento rovente del terrazzo. I tre, con le membra ancora intorpidite dalla sbornia della notte precedente, si stesero sugli asciugamani consumati, ricreando la stessa scena di ventiquattro ore prima.

Uno di loro spelacchiava distrattamente l'intonaco del parapetto con le unghie sporche. "È come se il tempo si fosse fermato" biascicò dopo un po', la voce impastata.

"Dovevi provarci con la tipa".

"Cosa sarebbe cambiato?"

Gli altri annuirono debolmente, troppo stanchi persino per immaginare il sesso.

L'aria sembrava immobile e soffocante intorno a loro, priva di qualsiasi brezza rinfrescante. Provarono a schizzarsi con lo spruzzino riempito d'acqua fresca, ma come al solito non funzionava.

Le ore trascorsero in un letargo innaturale, le parole rarefatte. Si accennò all'annosa questione del cambio delle lenzuola, parole a mezza bocca che venivano sopraffatte da ondate di torpore.

Fu solo quando il sole cominciò a calare all'orizzonte che finalmente si mossero, radunando le loro cose con movimenti abitudinari. Scendere lungo le scale, percorrere quei corridoi, sembrava come attraversare un loop temporale, come se avessero già vissuto quella stessa sequenza di azioni innumerevoli altre volte.

Ormai non parlavano quasi più, troppo provati dall'immobilismo che avvolgeva ogni singolo aspetto della loro esistenza. Dentro quelle quattro mura, il mondo sembrava essersi fermato, stagno e stantio.

Dopo un'altra notte insonne, al sorgere dell'alba, si trascinarono verso il bagno per docce fredde che facevano poco per lavare via l'apatia che impregnava le loro membra. Poi, per puro istinto, senza davvero riflettere, si ritrovarono di nuovo sul terrazzo, dando inizio a un altro identico ciclo.

La luce accecante li investì mentre uscivano sulla superficie di cemento grigio. Era tutto esattamente come il giorno prima: il calore opprimente, l'azzurro spoglio del cielo, i loro corpi che si adagiavano sugli asciugamani logori. Nessuno disse nulla, nessuno ne aveva più le forze.

Solo dopo un'ora di immobilità totale, uno dei ragazzi ruppe finalmente il silenzio con un suono gutturale che poteva essere un singulto o una risata rassegnata. "È questo allora? Questo è ciò che siamo destinati a fare?"

Gli altri lo guardarono con la solita indifferenza. Lui si mise a sedere, scuotendo la testa lentamente. "Restarcene intrappolati qui? Consumarci giorno dopo giorno finché non diventeremo semplici gusci vuoti?"

Un silenzio carico si posò sulle sue parole, mentre gli altri due sembravano prendere coscienza per la prima volta del baratro che si apriva davanti a loro, di quell'esistenza immobile che li stava divorando.

"No, non può finire così. Dobbiamo darci una mossa", intimò.

Per un attimo gli altri due pensarono si sarebbe alzato in piedi di scatto, quasi con furia. Ma non accadde nulla. Anzi il ragazzo, dopo aver parlato, si sentì ancora più stanco e svuotato, privo di forze. Ebbe come l'impressione di aver fatto la guerra.

Nessuno disse altro, né mosse un muscolo. Ancora un altro po' e nessuno si sarebbe più ricordato se le lenzuola fossero ancora da cambiare.

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