Non so chi fossero tutte quelle persone. Non so nemmeno come ci ero arrivata in quell'appartamento, se devo essere onesta. Ricordo che stavo camminando lungo il corso, erano le otto di sera del trentuno dicembre, e la neve cadeva come confetti sporchi sotto i lampioni. Avevo addosso una giacca che non era mia - era troppo grande e sapeva di sigarette mentolate, una roba che non avrei mai fumato nella vita - e in tasca c'erano ventisette dollari che probabilmente avevo rubato a qualcuno, anche se non ricordavo a chi.
Il rumore veniva dal secondo piano di un palazzo di mattoni rossi con le finestre tutte illuminate. Musica elettronica che filtrava attraverso il vetro, voci che ridevano, il suono inconfondibile di gente che stava cercando di dimenticarsi di essere viva. Mi fermai sul marciapiede e guardai su. In una delle finestre vidi una ragazza con i capelli viola che ballava da sola, gli occhi chiusi, le braccia che si muovevano come se stesse nuotando nell'aria. Sembrava che stesse annegando.
Entrai.
La porta del palazzo era aperta, le scale puzzavano di piscio di gatto e marijuana. Salii seguendo la musica e le voci, e quando arrivai al secondo piano trovai la porta dell'appartamento spalancata. Dentro c'era così tanto fumo che l'aria sembrava solida, e le luci psichedeliche proiettavano forme che si muovevano sui muri come animali morti che cercavano di tornare in vita.
«Ehi!» gridò qualcuno appena entrai. Era un ragazzo con la faccia coperta di glitter dorato, vestito solo con un paio di jeans strappati e un cappello da festa. «Sei Marla?»
Non sapevo se ero Marla o no, in quel momento. Il nome mi suonava familiare come una canzone che hai sentito in radio ma non riesci a ricordare quale sia di preciso. Annuii.
«Cazzo, finalmente! Siamo tutti qui che ti aspettiamo!»
Mi trascinò dentro, e subito qualcuno mi mise in mano un bicchiere di plastica pieno di qualcosa che sapeva di antigelo e mandorle amare. Lo bevvi tutto d'un fiato perché sembrava la cosa giusta da fare.
L'appartamento era piccolo ma pieno di gente che si muoveva come se avesse tutto lo spazio del mondo. C'erano almeno trenta persone stipate in due stanze, e ognuna di loro pareva essere in un film diverso. In cucina una donna sui quaranta con un vestito da sera strappato stava piangendo mentre tagliava cipolle che non si capiva bene a cosa servissero, se non a far piangere. In soggiorno un gruppo di ragazzi sniffava polvere bianca da un disco dei New Order, e ogni tanto uno di loro cadeva all'indietro e rimaneva lì disteso sul pavimento a fissare il soffitto con un sorriso beato.
La ragazza con i capelli viola che avevo visto dalla finestra mi si avvicinò. Era più giovane di quanto pensassi, forse diciassette anni, con gli occhi dilatati come pozzi neri.
«Hai portato la roba?» mi chiese.
«Che roba?»
«La roba di Jimmy. Quella per dopo la mezzanotte.»
Non sapevo chi fosse Jimmy, e non sapevo che roba avrei dovuto portare, ma dissi: «È in macchina.»
Lei annuì come se avesse perfettamente senso, anche se io non avevo una macchina e probabilmente nemmeno la patente.
Il tempo intanto si comportava in modo strano. Un minuto stavo parlando con un uomo calvo che mi spiegava come costruire una bomba con i materiali che si trovano in cucina, e quello dopo ero in bagno con una ragazza bionda che si stava facendo un tatuaggio da sola con un ago e l'inchiostro di una penna. Il tatuaggio doveva essere una stella, ma sembrava più una ragnatela o forse una crepa nel ghiaccio.
«Che ore sono?» le chiesi.
«Non lo so. L'orologio si è fermato alle undici e venti.»
Guardai l'orologio sul muro. Le lancette erano ferme, ma continuavano a tremare come se stessero cercando di muoversi ma qualcosa le trattenesse.
«Che anno è?» chiesi.
Lei si fermò, l'ago a mezz'aria. «Non lo so. Tu non te lo ricordi?»
Non me lo ricordavo. Sapevo che era l'ultimo dell'anno, ma non sapevo quale anno stesse finendo e quale stesse iniziando. Poteva essere il 1995, il 1996, il 1999. Poteva essere qualsiasi anno, o nessun anno.
Tornai in soggiorno e chiesi in giro, ma nessuno sapeva che anno fosse. Il ragazzo con il glitter disse che era il 2000, ma la donna che piangeva in cucina era sicura fosse il 1997. Un tipo magro con gli occhiali da sole giurò che il calendario era una cospirazione del governo e che in realtà, secondo suoi calcoli, stavamo ancora al 1979.
«Niente di quello che è successo dopo è mai davvero successo,» disse. «È tutto un grande esperimento sociale.»
La musica era così forte che sentivo le vibrazioni nelle ossa. Qualcuno aveva messo su una compilation di canzoni che non conoscevo, tutte con lo stesso ritmo ossessivo, come un cuore che batte troppo veloce. Ballai con la ragazza dai capelli viola, poi con il ragazzo del glitter, poi da sola al centro della stanza mentre tutti gli altri mi guardavano come se fossi una divinità o un animale allo zoo.
A un certo momento mi ritrovai sul balcone con un uomo più vecchio che indossava un cappotto militare e fumava sigarette come fosse il suo lavoro in una catena di montaggio. Aveva la faccia di qualcuno che aveva visto troppe guerre, anche se probabilmente non era mai stato soldato.
«Tu sei quella del Tennessee,» disse.
«Non sono del Tennessee.»
«Tutti siamo del Tennessee, tesoro. È lo stato mentale, non il posto.»
Mi offrì una sigaretta e io l'accettai anche se non era della marca che fumavo di solito. Il fumo mi bruciò i polmoni ma mi fece sentire più presente, come se mi stesse ancorando al mondo.
«Sai che ore sono?» gli chiesi.
«È sempre mezzanotte da qualche parte,» disse. «Il trucco è trovare dove.»
Guardai giù dalla ringhiera. La strada era vuota, coperta di una neve che sembrava assorbire tutti i suoni. I lampioni creavano cerchi di luce gialla, e dentro a ogni cerchio cadevano i fiocchi come insetti attorno a una lampadina.
Quando tornai dentro, l'atmosfera era cambiata. La gente si era divisa in piccoli gruppi e tutti sussurravano come se stessero condividendo segreti. La ragazza bionda stava mostrando a tutti il suo tatuaggio incompiuto, che ora sanguinava e aveva arrossato metà del suo braccio.
«È quasi mezzanotte,» disse qualcuno.
«Come fai a saperlo?» chiesi.
«Lo senti nell'aria. L'anno vecchio che sta morendo.»
Tutti si radunarono in soggiorno. Qualcuno aveva trovato un televisore e stava cercando di sintonizzarlo sul countdown di Times Square, ma riusciva a prendere solo interferenze e l'immagine di una pubblicità del detersivo che passava in loop. Una donna con un vestito dorato urlava silenziosamente qualcosa sulla pulizia profonda mentre agitava una scatola di detergente come fosse una reliquia sacra.
«Dieci!» gridò qualcuno, anche se il televisore non mostrava nessun countdown.
«Nove!»
Tutti iniziarono a contare, ma ognuno andava con un ritmo diverso. Alcuni erano arrivati a cinque, altri erano ancora a otto, qualcuno aveva ricominciato da dieci.
«Tre!»
«Sei!»
«Uno!»
«Quattro!»
Poi, in qualche modo, tutti arrivarono insieme a zero, o almeno pensarono di essere arrivati insieme. Esplose una confusione di urla e baci e abbracci. La ragazza dai capelli viola mi baciò sulla bocca, e sapeva di alcol e metallo e qualcosa di dolce che non riuscii a identificare. Il ragazzo del glitter versò champagne sul pavimento e gridò che stavamo battezzando l'anno nuovo, anche se nessuno sapeva quale anno fosse.
Io rimasi lì in piedi al centro di tutto quel caos, e per un momento mi sentii completamente sola e allo stesso tempo completamente connessa con ogni cosa. Era come essere al centro di un tornado, dove tutto è calmo ma sai che intorno a te il mondo si sta distruggendo e ricreando ogni secondo.
Poi qualcuno mi mise in mano un altro drink, e la realtà si dissolse di nuovo nei suoi pezzi sparsi.
Il resto della notte è un collage di momenti che potrebbero essere successi in qualsiasi ordine. Ricordo di aver ballato sulla tavola della cucina mentre tutti gridavano il mio nome, anche se non ero sicura che fosse davvero il mio nome. Ricordo la donna che piangeva che mi abbracciò e mi disse che ero la figlia che non aveva mai avuto, anche se ci eravamo conosciute tre ore prima. Ricordo il ragazzo magro con gli occhiali da sole che mi spiegò la sua teoria su come il governo controllava il tempo, e per un momento mi sembrò la cosa più sensata che avessi mai ascoltato.
A un certo punto mi ritrovai nell'appartamento di qualcun altro, o forse era lo stesso appartamento ma trasformato. Le pareti erano dipinte di un colore diverso, e c'erano persone nuove che non avevo mai visto prima ma che sembravano conoscermi da anni. Un uomo con la barba rossa mi diede le chiavi della sua macchina e mi disse di portarla a sua sorella a Phoenix, anche se non sapeva il mio cognome e Phoenix era a migliaia di chilometri di distanza.
«Credimi,» disse. «Sei l'unica che può farlo.»
Presi le chiavi perché era impossibile dire di no. Pesavano come pietre preziose nella mia mano.
Quando finalmente uscii dall'appartamento - o dagli appartamenti, perché a quel punto non ero più sicura di quanti ne avessi attraversati - era giorno. Il sole filtrava attraverso le nuvole come luce attraverso una finestra sporca, e la neve si stava sciogliendo in rivoli grigi lungo i marciapiedi. La città sembrava diversa, come se durante la notte qualcuno avesse spostato tutti gli edifici di qualche centimetro, abbastanza poco da non notarlo subito ma abbastanza da fare in modo che niente fosse più esattamente al suo posto.
Camminai fino alla fermata dell'autobus, ancora con addosso la giacca che non era mia e in tasca le chiavi dell'uomo con la barba rossa. Nell'altra tasca c'era un pezzo di carta con un numero di telefono scritto con un rossetto blu, ma non ricordavo chi me l'avesse dato o perché.
L'autobus non passava, del resto era la mattina del primo gennaio. Dopo quello che sembrarono ore ma che potrebbero essere stati cinque minuti, mi venne incontro un uomo anziano con la faccia gentile che mi guardò come se mi conoscesse.
«Buon anno, ragazza,» disse.
«Che anno è?» gli chiesi.
«Quello che vuoi che sia,» rispose, e in quel momento mi sembrò la risposta più onesta che avessi mai sentito.