Emilia ha due madri.
La prima è quella che l’ha messa al mondo, la notte di San Lorenzo di quasi mezzo secolo fa.
Quel giorno, Antonia si era svegliata con l’idea di raggiungere il marito. Lassù, alla malga.
Era entrata già nel settimo mese ma si era messa in cammino, ignorando le proteste di sua madre e di sua nonna. Le due donne le erano state appresso, pregando e imprecando, fino a quando il sentiero si era impennato fra i castagni mozzando loro il fiato. Le voci, però, l’avevano seguita per molti passi. Poi, solo il rumore del ruscello e il canto del tordo a rompere la calura.
Quando Giulio l’aveva vista al limitare del prato, aveva pensato che la solitudine di quei mesi all’alpeggio, con l’unica compagnia delle sue mucche e di Argo, il cane da guardia, gli avesse fatto male al cervello. Ma quando l’aveva avuta fra le braccia, con quel profumo che gli ricordava la torta di pane con l’uvetta, si era ricordato che Antonia dei due era la più forte e che nulla, nella vita, avrebbe potuto fermarla.
«Mamma, ma tu lo sapevi che sarei nata quello stesso giorno?» Chiedeva Emilia da bambina, ogni volta che la nonna raccontava quel fatto con l’espressione di chi, da quella giornata, non si era ancora ripresa.
«Certo! Ti pare che avrei potuto partorire a casa, con nonna che si agitava per nulla?» Rispondeva Antonia.
Perché lei era fatta così. Pensiero e azione. Macché dubbi e tentennamenti. Aveva sempre avuto risposte per ogni cosa e rassicurazioni per chiunque.
Eppure non le erano mancati momenti di sconforto, come quando il marito non aveva fatto più ritorno da un’ascensione sul Monte Bianco.
Nemmeno quando un dottore, senza mezzi termini, le aveva rivelato che quel nodulo al seno era un tumore maligno. Sì, nemmeno allora Antonia si era data per vinta.
Lei e Emilia erano scese sino a Torino, dove la ragazza frequentava l’Università, per comprare una parrucca. Di capelli veri, perché, aveva dichiarato: «Se si deve prendere in giro qualcuno, allora bisogna farlo bene.»
Ma un giorno, mentre Emilia è seduta in cucina in attesa del caffè, vede sua madre mettere il sale nelle loro tazzine. Ridono insieme di quell’attimo di distrazione. Ma è molto, molto di più.
Emilia ha due madri.
La seconda è quella che va a trovare ogni giorno, percorrendo quei diciotto chilometri di curve e tornanti che ora le separano.
La trova seduta vicino alla finestra del tinello, in ogni stagione.
Antonia, che amava il suo giardino e vi trascorreva la maggior parte del tempo, ora ne ha paura. Quando Emilia la porta sul terrazzo, guarda con apprensione i pini, così alti da sfiorare i fili della luce. Sono quelli che un tempo avevano addobbato insieme, con le lucine e le bocce di vetro colorate e che poi lei stessa aveva messo a dimora.
«Che paura!», dice ora alla figlia. «Rientriamo in casa».
Ci sono pomeriggi in cui Emilia la trova intenta a frugare in una borsetta. Nemmeno risponde al suo saluto. Poi, all’improvviso, sembra accorgersi della sua presenza. Allora i suoi occhi celesti si riempiono di lacrime per la commozione.
«Sei arrivata. Come sono felice!»
Emilia le prende le mani, le accarezza. Le sembrano ogni volta più fredde. Non resiste a porle quella domanda. «Sai chi sono, vero?»
«Ma certo», risponde Antonia fiduciosa. «Sei la mia mamma».
Le prime volte Emilia non l’accetta. Tutto quell’amore ricevuto e ricambiato, si chiede, dov’è andato a finire?
Ma qualche volta Antonia le parla di lei. Di quella figlia bellissima che le dà tante soddisfazioni.
«La maestra, al colloquio, mi ha detto che mia figlia da grande sarà una scrittrice», dice fiera.
«E tu, a Emilia, vuoi bene?» domanda la figlia, con il magone che le sale dentro.
Antonia la guarda e sembra non trovare le parole per raccontarlo, questo amore infinito.
E allora fa un gesto semplice, con le mani. Le unisce, a creare un piccolo nido e ci guarda dentro, con tutta la tenerezza del mondo.