Il quadernino nero
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Il quadernino nero

 

-Lucy, non trovo la mia agendina. L’hai tu, per caso?

-Ma che ore sono?

-Di’, l’hai vista?

-Cavolo, sono le tre …lasciami dormire.

-Dimmi solo se hai preso l’agendina.

-Che agendina?

-L’ultima della Pléiade. Volevo aggiungere delle foto. Non c’è più.

-Sarà scivolata dietro i libri. Ci pensiamo domani, devo alzarmi presto.

-Ho guardato dappertutto. È sparita.

-Salterà fuori, vai a dormire.

-Non riuscirò a dormire se non la trovo.

-Io sì. Notte.

-Aspetta, ho fatto un sogno terribile e poi questa cosa...

-Ne parliamo domani.

-Lucy …

 

Non è possibile. Stanno tutte lì, sul terzo piano, scomparto quattro da destra della libreria. Una sopra l’altra, numerate. Non cambio mai di posto. Ne prendo una, la sfoglio e la ripongo. Incollo le foto e la ripongo. Scrivo una nota e la ripongo. Esattamente dov’era prima. Perché lo so che alla mia età, tante cose ammucchiate in testa, ci vuol niente a confondersi.

Ma se anche, per un accidente qualsiasi, il telefono, il bisogno urgente del bagno, non l’avessi rimessa al suo posto, ora sarebbe lì, sul tavolo. Invece non c’è. Chi può averla presa? La donna di servizio? Lei non tocca certe cose.

L’ho avuta fra le mani non più di una settimana fa. Chi è passato nel frattempo? Raoul? Neanche a pensarci. Ci conosciamo da trent’anni. Che Hélène …? Non avrei dovuto portarla qui ieri sera, è stato un colpo di testa.

Non m’inviti mai da te, aveva detto. E ci sono cascato.

Abbiamo cenato allegramente, chiacchierato tanto, ci siamo mescolati nel letto. Sa essere così avvolgente Hélène, ti si scioglie addosso come burro.

Poi quando già stavo per addormentarmi, è scivolata via all’improvviso. Qualcosa le si era guastato.

Resta, domattina ti accompagno al lavoro.

No, vado.

Aveva un tono strano, ma non ci ho badato.

Sarebbe bello svegliarsi insieme e giocare ancora, ho pensato. Ma le parole si sono spente prima di uscire dalla bocca.

Perché farmi un dispetto simile?

Il mio povero padre me lo ripeteva sempre, non mescolare ciò che va separato, niente errori. Si pagano tutti. Lui mi ha insegnato a separare l’alto e il basso, la luce dal buio.

Io mi attengo alle istruzioni, salvo qualche piccola sbavatura, s’intende, che nascondo in un buchino di fango tiepido, in una zona segreta del corpo. Lui capirebbe, ne sono sicuro.

Tu sei in alto nella luce, mia dolce Lucy, lo sai. Non te la prenderai, vero, se ieri sera, per qualche ora soltanto, ho capovolto il ritratto che tengo sul comodino? Quello scattato a Cambridge, con lo scialle bianco e il sorriso indulgente. Sorridimi sempre, cara Lucy.

Nel letto rimasto vuoto sono sprofondato in un sogno spaventoso.

Nel sogno papà non c’era. Anzi, sì. Sapevo che era prigioniero anche lui di quell’ospizio spaventoso, ma non ho fatto in tempo a trovarlo, mi sono svegliato prima. Li avevo dimenticati lì, i miei genitori, chissà da quanto, senza pagare la retta e dio, dio, come avevano ridotto la mia povera mamma. Accovacciata in una specie di gabbia, con un occhio gonfio.

Chi è stato?, le ho chiesto.

Mi si è incastrata la testa, e indica dei ferri che sporgono sopra di lei.

Ti porto via, le dico.

Sento una grande pena, ma la vergogna è più grande.

Ti porto via, ripeto.

Lei si rannicchia ancora di più, pronta a resistermi.

No, se mi muovo di qui il sorvegliante mi ammazzerà di botte. Scruta intorno.

Non c’è nessuno, le dico. Ho parlato con la direzione, sei libera.

Mi mostra le mani senza dita.

Guarda cosa mi hanno fatto, mi dice.

Vieni via, urlo e la tiro per un braccio.

Lei inarca la schiena.

NO, NO, NO.

Il suo NO mi sveglia e m’insegue fuori dal sogno. Si trasforma nel chiù dell’assiolo che ha nidificato nel parco difronte.

Ogni volta che infrango i precetti di mio padre qualcosa va storto.

Hélène, perché? Eppure, non è da lei un tiro simile, non ne avrebbe avuto il tempo. Tantomeno un motivo. Fra noi è tutto chiaro, ci regaliamo qualche carezza, niente di più. Quando è andata via non l’ho accompagnata alla porta. Che se la sia presa? È stata lei a impedirmelo: resta qui, ha sussurrato. E veramente non avrei avuto la forza di alzarmi.

Che sia successo in quel momento?

Non è possibile.

Piuttosto il fattorino delle pizze, quando sono andato a cercare i soldi. Si guardava in giro, con gli occhi ingordi. Magari ha afferrato qualcosa a caso, anche solo per rabbia.

Mio padre non avrebbe mai lasciato delle cose importanti lì, in bella vista. Nascondeva ogni cosa. Dentro libri cavi, in una rientranza del muro, nelle casse degli avvolgibili. Dopo la sua morte è stata una vera caccia al tesoro.

E ora, le stesse dita nere che hanno stretto la mancia, hanno sporcato le foto dei miei amici, delle nipotine, delle persone care. Prima di gettarle in qualche immondizia.

Mi manca l’aria.

Ho un tale peso sul cuore. Richiamo. Ti prego Lucy, rispondi.

Una voce registrata m’informa che il numero non è raggiungibile.

Lucy, per favore. Non lasciarmi solo.

Lei mi prende in giro. Dice che riempire quelle agendine nere di foto, appunti e ricordi è un’ossessione stupida. Le foto sono così piccole che per guardarle occorre una lente. Gli anni neppure corrispondono. Nel 2014 sono finite le cose del 2018.

In un anno ne condensi quattro, ride, ci accorci la vita.

Sciocchezze. Mi piace salvare i momenti importanti, con data, nomi, luoghi.

Lei non sa che significa crescere senza nonni, né zii, né cugini, né vecchi mobili o ricordi di famiglia. Lucy non capisce. La sua famiglia potrebbe riempire un condominio.

Io non ho neppure mai visto il volto dei miei nonni. Di loro non è rimasto niente. Dicevano che mio nonno paterno nascondeva uno sguardo furbo sotto due foltissime sopracciglia. Sembra che il mio modo di camminare, affrettato, un po’ molleggiato, assomigliasse al suo. Raccontavano che la mamma di mia mamma si era rotta un dente cercando di schiacciare una noce e quel vuoto le era rimasto fino alla fine. Nell’ultima estate portava un abito blu con dei fiorellini bianchi, nella scollatura un pizzo beige che le scendeva sul seno. Quando pedalava attraverso il paese, con i polpacci che sollevavano la gonna, gli uomini si toglievano il cappello.

Cerco di immaginarli, quei nonni, ora che sono nonno anch’io, ma la loro faccia resta una macchia di fumo.

Al contrario le mie nipoti, i loro figli e quelli che verranno, sfoglieranno le mie agende, ci guarderanno. Ci guarderemo.

Vedi, cara Lucy, le agendine sono più piccole di un album. Sarà facile portarle con sé, nasconderle, infilarle in una fessura, proprio come faceva mio padre. E non mi parlare, ti prego, di cellulari, pen drive, cloud. Tutta roba che vive nell’aria e può dissolversi, come le nuvole vere.

Ciò che si tocca ha la concretezza della vita.

In quelle pagine troveranno i nostri sorrisi, quelli degli amici.

Per strada di sorrisi se ne incontrano pochi. La gente si porta in giro una faccia scoraggiata, pietrificata, ostile. La mia povera mamma diceva che le facce o ti fanno paura o ti fanno pena. Un guaio, in entrambi i casi.

Tieni gli occhi a terra, mi diceva, lì si può trovare qualcosa di utile. Se non trovi niente, allora alzali al cielo e dimentica tutto.

I miei taccuini sono una terra piena di stelle. Ci sono le cene fra amici, da Mario’s, quando ci hanno invitato Luis e Claire, a La Tanière per il tuo compleanno, Lucy cara, a La fleur per Capodanno, con tanto di cappellino e trombetta. La vita di tutti, insomma. Che bello avere una vita ordinaria.

Ci sono le giornate trascorse nel tuo giardino in montagna (che cielo chiaro, Lucy, io e te), Santorini e Corfù, gli amici di Lugano, l’anniversario di Pierre e Debby, mia nuora vestita da Babbo Natale. Le bambine che fanno ooohhh. Lo scatto le acciuffa per un attimo. Sono spruzzi d’acqua salata, le mei nipoti.

I miei genitori avevano un quaderno giallo solo per me: 8 giugno 46, Nick e, sopra la scritta, un grumo nero con gli occhi serrati. Poi Nick il primo giorno di scuola, a quattro anni, Nick che suona il violoncello, Nick che riceve il premio di merito alla fine delle elementari, e poi il BAC a 16 anni, gli studi a Oxford, e il Bachelor e il matrimonio e il nuovo nato. Hanno registrato la mia vita come un cursus honorum che dava dignità alla loro. Per fortuna non hanno fatto a tempo ad assistere al mio disastroso divorzio.

Nessuna macchia su quel quaderno, non le crisi d’angoscia, non le lenzuola bagnate per cui mia madre mi aveva schiaffeggiato con forza, ma senza rabbia, giusto tre colpi secchi assegnati per pura necessità di correzione. Non l’umiliazione subita da chi derideva il mio naso in cui mi sforzavo di trovare qualche difformità. Non il panico davanti alla giovane bulgara cui m’aveva trascinato mio padre, per rendermi uomo completo.

Ho dato loro una terra su cui marciare. Un due, dietrofront, avanti, a destra, sempre dritto.

Non ho mai visto mia madre gironzolare a caso. Dalla cucina al bagno e ritorno, dalla poltrona del soggiorno al letto. Una corsa in banca, un salto a fare la spesa, in qualche ufficio, dalla sua amica, dal parrucchiere. Gli atti privi di scopo erano una colpa grave.

Ho assolto a tutti gli obblighi, cara Lucy. Dovrei esserne fiero, no?

Eppure, quando guardo indietro, vorrei che quel tempo naufragasse.

L’agendina nera è la mia zattera.

In quella perduta, c’era una foto che devo assolutamente recuperare. Una foto in bianco e nero di Paul, di questo mio figlio silenzioso e schivo. Ci sono stato sopra per ore.

C’è Anaïs sulle sue ginocchia. Lo sfondo è inchiostro. S’intravvedono, sul tavolo mezzo sparecchiato, tre bicchieri, una bottiglia di Perrier, un tovagliolo di carta appallottolato. Forse le bambine ne avevano fatto una palla e se la lanciavano, come sempre.

Paul fissa l’obiettivo, il viso di tre quarti. Accenna un sorriso che scava una grotta nella guancia sinistra. Nella faccia scarnificata la bocca è enorme. Il cranio ossuto dei calvi precoci, l’orecchio nudo. Un viso di lame e chiodi. Assomiglia talmente a mio padre da togliermi il respiro.

Per forza gli assomiglia, dici tu. È sangue del suo sangue.

Non parlarmi di sangue, Lucy mia, ce n’è stato troppo. Ha sommerso la gola, le orecchie, il naso. Ha invaso la sclera. Abbiamo sudato sangue, orinato sangue, sognato sangue. Non parlarmi di sangue.

Ho l’impressione che mi guardi. Cosa vuole dirmi? Figlio amato di genitori orgogliosi, di nonni adoranti, ottima educazione, ottimi studi. Ottimo tutto, anche il cioccolato a colazione. L’ho fatto crescere in Svizzera, perdinci.

Quando, da bambino, gli aprivo le braccia, perché mi corresse incontro, lui non correva mai. Mi abbracciava con una delicatezza rispettosa, come se avesse paura di farmi male e insieme d’invadere uno spazio segreto.

Mio padre non mi ha mai tenuto fra le braccia. Mi appoggiava la mano sulla spalla, come uno scettro.

Niente a che vedere con la bambina che Paul tiene sulle ginocchia, tutta curve, gioia e capelli crespi. Gli occhi, due virgole rovesciate in un viso di mela. La mia melina, la chiama lui. Lei già si è rimessa piumino e sciarpa. La cena è finita, sembra dire, via, andiamo andiamo, che non tengo le gambe. Ha fretta. Lei è tutta fretta, fretta e desideri. Tiene un braccio attorno al collo del suo papà. Dai, coraggio papà, andiamo.

Immagino che tra poco scivolerà dalle sue ginocchia e inizierà a tirarlo per la mano.

Lo sguardo di Paul. La stesso di mio padre nella foto segnaletica, quando approdò a Parigi, nel centro di rimpatrio.

In posa, lo sforzo per reggersi in piedi è evidente, le guance scavate di barba, scarnificate e molli. La stessa testa nuda, le orecchie spropositate. Una giubba lunga che non lo riscalda, pur nel sole di agosto. Si protegge nelle spalle curve. Quella foto è un debito che costantemente si rinnova.

Un giorno le bimbe sapranno che il loro papi porta il corpo di un uomo che camminava sempre dalla parte del muro, perché ad ogni buon conto, diceva, ci si può infilare dentro un portone. Camminava lento, (te lo ricordi Paul?), per avere il tempo di studiarsi intorno, ma se per qualche urgenza affrettava il passo, allora inarcava in avanti la schiena, come se temesse un colpo. Indossava cappotti di pelle nera, con la cintura in vita. Un uomo dal sorriso morbido, celato dalla tesa del cappello. Un uomo che parlava poco e amava il gioco delle carte, dove si accaniva a interrogare il destino. È stato lui a insegnarti il silenzio? Io parlo, parlo, proprio per non sentirlo, quel silenzio.

Ti ricordi quando si ostinava a parlarti in tedesco? Gli chiedevi di tradurre. Lui insisteva fino a farti piangere.

Alla fine, quando arrivasti a chiedere: was bedeutet das?, il nonno ti rispose.

Se vuoi sopravvivere, ti disse, devi imparare il tedesco e portare sempre con te un cucchiaio.

Mio padre si portava la morte in tasca, come un amuleto.

Ma non è vissuto abbastanza per insegnartelo, il tedesco, quella lingua che lo faceva trasalire anche solo quando un turista gli chiedeva un’indicazione.

Quella lingua che rimescola anche me, quando la sento, come per un atavico richiamo.

Non ho mai osato chiedertelo, lo porti anche tu il cucchiaio?

L’altro giorno, entrando in un museo, è scattato l’allarme e non ricordavo di averlo addosso, in qualche tasca. Un vecchio, ritorto cucchiaio, che ha assunto la piega del mio corpo.

La guardia s’è messa a ridere. L’ha rubato al ristorante?, ha chiesto.

Che ne sa lui di una marcia forzata nel caldo dell’estate, quando l’unica acqua è la rugiada mattutina, il fondo di una pozzanghera, le lacrime di un compagno morente, impossibile da raccogliere altrimenti.

Quante gocce d’acqua serviranno per saziare la sua sete?

Giurami, caro figlio, che alla mia morte, li seppellirai entrambi con me. E sia pace per sempre.

Io sono qui, cara Lucy, a dividere con te questa vita trionfante. Pur camminando lungo i muri, pur sussultando alla parola tedesca.

Lo capisci che non posso permettermi di perdere l’agendina? Svegliati, ti prego. Non lasciarmi solo.

 

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