Quella notte a Frontemare tutte le finestre restarono spalancate per catturare la brezza che scendeva dalle montagne. Attraversando il rione, Nunzia capì cos’era il cinematografo di cui tanto parlava suo marito; nelle stanze dalle luci accese le tende sembravano tele dove si consumavano le ombre degli abitanti con le loro noie, vizi o segreti.
Immaginò che qualcun altro fosse attratto da quello spettacolo e, forse, lei stessa era attrice per chi la spiava nell’oscurità della propria casa. Sapeva, come tutti del resto, che ancor prima che l’alba facesse capolino sui tetti di Frontemare ogni avvenimento della sera precedente era già in viaggio per le vie, tra le bocche più loquaci.
«Hai sentito? Stanotte, la moglie del ferroviere camminava per strada scalza e in sottoveste».
«A me hanno detto che era tutta nuda e andava verso il ponte».
«E nessuno l’ha fermata?»
«Per carità, in questo posto uno più si fa gli affari suoi e meglio campa».
Il mattino seguente la risvegliò il ticchettio dei tasti; nell’alzare il lenzuolo bianco lo strappò dalle ferite incrostate dei piedi, dove il sangue si era rappreso mescolato allo sporco. Avanzò frastornata in cucina. Ebbe solo un attimo di tregua prima che il peso delle sue azioni arrivasse per schiacciarla, il tempo di vedere Michele scrivere, seduto al tavolo che la madre le aveva regalato con l’augurio di sfamare tante bocche e invece c’erano solo loro due, sulla tavola la tovaglia sempre apparecchiata a metà. Fuori non era neppure l’alba.
«Buongiorno» disse Michele senza alzare lo sguardo dal foglio, «Oggi incontro l’editore, sto scrivendo il finale».
«E sarà un lieto fine?».
Il febbrile movimento delle dita si arrestò «Ci ho provato, ma non ci sono riuscito».
Riprese a scrivere e Nunzia indietreggiò fino al bagno chiedendosi se ci fosse del marcio anche in lui o fosse solo sua la colpa dell’inquietudine del marito, riversata nella scrittura e ora anche negli incubi; poche ore prima Michele aveva sognato di appiccare fuoco a un albero secco e nelle fiamme, sul ramo più alto, era comparso il corpo della moglie impiccato.
Inginocchiata nel confessionale Nunzia chiese perdono senza confidare il peccato peggiore: aver creduto che sopra dio potesse esserci un uomo capace di esaudire le sue preghiere. Dietro di lei le donne del rione erano chine sui banchi con le orecchie tese verso le sue colpe bisbigliate.
Il volto del parroco, oltre la grata di ottone, divenne sfocato. Nunzia risentì il sibilare del vento e l’odore del latte dentro il pentolino che le sbatteva contro il ventre a ogni passo. Ricordò di aver accennato un sorriso, appena si rese conto che stava portando del latte a Randagio, come una madre che sfama un figlio.
Ogni mattina Michele si svegliava alle quattro. Quello era l’unico momento in cui riusciva a sedersi davanti all’Olivetti Lettera 32, di seconda mano. Doveva preoccuparsi solo di scrivere e mangiare. Nunzia si prendeva cura di lui e gli preparava la zuppa di latte. Sebbene fosse ormai un uomo, per lei rimaneva il ragazzino che scriveva lettere d’amore ai suoi occhi analfabeti, che l’aveva sposata incurante del presagio della nonna e continuava ad amarla, nonostante il tempo sembrava confermarlo.
Accadde la prima volta che incontrò la sua famiglia. Nunzia si chinò sul letto dell’anziana per stringerle le mani. A spaventarla non furono gli occhi vitrei – non aveva mai incontrato un cieco – ma il fatto che l’afferrasse i polsi per avvicinarla a sé. Le poggiò una mano sulla pancia e la ritrasse come se avesse toccato qualcosa di disgustoso. Si voltò verso Michele come se sapesse dov’era nonostante la cecità.
«È arida Michè, non la sposare. Gli alberi che non fanno frutti se li mangia il fuoco».
Quando Nunzia andò in città, con tutti i suoi risparmi, per comprare la macchina da scrivere desiderata da Michele, ripensò a quegli occhi vitrei nel chiedere al commesso di scriverle un biglietto:
Per Michele,
se non posso darti un figlio crealo tu di inchiostro,
fai una bella storia per me.
Dopo la messa, le donne del rione si fermavano nel cortile dietro il campanile a osservare i figli giocare. Nunzia, anche se non ne aveva, rimaneva con loro. Volgeva sempre lo sguardo all’altalena di legno immaginando che un bambino, con la stessa chioma dorata di Michele, la chiamasse. Quella mattina diede le spalle all’altalena. Rimase incantata dal neonato che a bocca aperta cercava il seno, lasciando filamenti di bava sul vestito nero della madre. Le voci intorno divennero ovattate, con i polmoni in debito d’aria sentì le gambe cedere lentamente.
«Tu come stai Nunzia?».
Raddrizzò le ginocchia e riprese fiato. Tutte si aspettavano una giustificazione per le chiacchiere sulla scorsa notte. Ma nessuna andò oltre: «Sto bene grazie, fa solo molto caldo».
Le donne tra affanni e sospiri facevano a gara a chi fosse più infelice, ma delle vere sofferenze, quelle taciute che le portavano a dare la schiena ai mariti nel letto per soffocare i singhiozzi, non parlavano mai. E ciò rasserenava Nunzia, nessuna le avrebbe mai domandato il perché non avesse figli e lei fingeva di non vedere le chiazze violacee che macchiavano la pelle delle donne del rione.
Anche per loro Michele era un uomo violento; lo pensavano fin da quando era comparso un suo racconto perturbante su un modesto giornale redatto in città. Nessuno a Frontemare sapeva cosa fosse realmente uno scrittore. Gli uomini del rione rimanevano indifferenti al trastullo letterario di Michele Catano, come avrebbero potuto confessare alle mogli, sconcertate dalle sue parole mostruose, che tra loro era il più onesto perché non lo avevano mai trovato in certi posti. E quando rincasavano ubriachi e appagati a tarda notte, provavano invidia nell’intravedere – nelle inferriate della casa a piano terra, dove neppure una piantina cresceva per la poca luce che filtrava dalle zanzariere polverose – Michele seduto a scrivere e Nunzia in piedi col petto premuto contro la sua schiena.
Quella notte gli uomini credettero di aver visto il fantasma di una donna, vestita di un solo velo bianco che lasciava trasparire le forme dei loro appetiti, camminare in direzione del ponte quando il loro orologio al polso segnò le tre.
Un’ora prima Nunzia era stata svegliata da Michele che si contorceva nel letto, scosso da spasmi. Urlò il suo nome finché non aprì gli occhi.
«Ho fatto un sogno» disse.
Lui si riaddormentò, Nunzia no. Percepì il cappio scenderle dalla testa e serrarle la gola, come nel sogno. La strattonò in cucina, dove la stretta si allentò. Si ripeté che non era reale, ma solo agitazione.
Era domenica, Michele si sarebbe alzato lo stesso tra un’ora; diceva che scrivere al mattino presto aiutava la mente a ingranare, a mescolare i sogni alla creatività, prima che svanissero.
Mentre sminuzzava il pane per la colazione il cappio le arse la pelle. Socchiuse le palpebre e le premette con gli indici, tra gli sprazzi di luce rivide quegli occhi vitrei. Con un impulso che non credeva potesse appartenerle, uscì di casa scalza con la sottoveste e il pentolino con il latte riscaldato.
Ogni luogo ha un suo matto, e a Frontemare, tre anni prima, era comparso Randagio.
La prima volta che lo aveva visto stava tornando dal mare. Nessuno sapeva da dove venisse. Nunzia aveva sentito da Michele la leggenda su Randagio; si diceva che la sua anima si fosse reincarnata a Frontemare, assumendo le sembianze dell'ultimo desiderio che aveva esaudito prima di morire. Era condannato a vivere per realizzare il desiderio di una sola persona, per poi morire e rinascere altrove. Nunzia si chiese se non fosse egoista uccidere qualcuno per un proprio desiderio.
Randagio si avvicinava alle case del rione solo per racimolare qualcosa da mangiare. I bambini, impauriti, lo guardavano simile al lupo cattivo delle favole. Le donne, con le dita strozzate dai rosari lo indicavano e poi distoglievano lo sguardo quando passava. Gli uomini, invece, lo accecavano con i fari delle auto quando lo trovavano a vagare per strada.
L’unica cosa che Frontemare gli aveva dato era un nome.
Quando vide il sottopassaggio Nunzia chiese a dio di perdonarla non tanto per ciò che stava facendo, quanto per quello che avrebbe fatto se avesse avuto il coraggio: attraversarlo, arrivare al mare e lasciarsi morire nel riflesso delle stelle.
Nel guardarlo accasciato a terra, addormentato, Nunzia riuscì a pensare solamente che un tempo era un bambino e chissà quale era stato allora il suo nome. Poggiò il pentolino a terra e Randagio non si mosse. Nunzia si pentì, gli voltò le spalle, ma poco prima di varcare l'ombra del ponte che la separava dalla luce della luna, sentì un gorgoglio. Randagio stava bevendo il latte che nella foga gli cadeva sulla lunga barba. Si avvicinò di nuovo e ciò che la colpì fu che non le guardava i seni che sporgevano dalla vestaglia o i piedi scalzi ma la fissò negli occhi e capì che la stava ringraziando col silenzio.
La domanda le uscì rapida: «È vero che esaudisci desideri?»
Lui non rispose, continuava a leccare ogni goccia di latte rimasta sul fondo del pentolino. Nunzia gli porse un pezzo di pane che estrasse dalla tasca e lui, strappandoglielo dalle mani, lo fagocitò.
«L'ultima donna che me lo ha chiesto voleva un uomo da amare. E tu, cosa vuoi?»
Nunzia affrettò il passo lungo il vialetto che costeggiava la chiesa; da lì a poco Michele sarebbe rientrato dall’incontro con l’editore. La penombra dell’ingresso l’avvolse nella solitudine, si tolse lo scialle, quello usato appositamente per la messa, e si assopì sul divano.
Sulla soglia del dormiveglia vide in agguato quegli occhi vitrei, l’albero in fiamme e Randagio. Si svegliò di soprassalto, convinta di aver sentito un rumore; suppose che Michele fosse rientrato ma la casa era vuota. Dopo qualche secondo, il rumore si ripeté: uno scalpiccio di piccoli passi sulle mattonelle. Saltò sullo schienale del divano immaginando ci fosse un topo, corse nel ripostiglio per prendere la scopa; era pronta a scagliarla quando allungò il collo per guardare nello spazio angusto tra lo schienale e il muro. Lì dietro non trovò un topo ma un bambino che quando vide la saggina, puntata contro il suo naso, si coprì gli occhi. Indossava un pigiama di un bianco ingiallito con sopra degli orsacchiotti, l’aveva già visto in una foto di Michele da piccolo. Tremava e sotto lo sporco che gli ricopriva il volto si intravedeva il rossore delle guance.
«Non avere paura».
Il bambino tolse la testa dall’incavo del braccio doveva aveva cercato riparo.
«Da dove sei entrato? Ti ha portato qualcuno qui?» gli chiese Nunzia lanciando uno sguardo alla porta chiusa e alle finestre con le vecchie persiane di legno, Michele le aveva abbassate tutte, sbattendo con forza le imposte con la chiusura a bocca di lupo, perché s’incastrassero bene.
«Non mi ha portato nessuno. Ogni tanto vengo a trovarti! Ci sono da ieri sera ma non mi hai visto».
«Dove hai trovato questo pigiama?».
«Non lo so».
«Come non lo sai?».
«Me lo ha dato il signor Michele».
«Lui ti conosce?».
«Certo che mi conosce, è il mio papà e tu la mia mamma».
Un boato improvviso fece tremare la ringhiera della finestra. Il bambino sussultò e si ritrasse di scatto dietro la poltrona. Infilò la testa tra le ginocchia e il petto.
«Non spaventarti, non è successo niente. Sono solo i bambini che giocano a palla».
«Che giocano?» sussurrò lui.
«Sì, guarda» rispose Nunzia alzando la persiana e accorgendosi che la finestra era troppo alta aprì le braccia e lui si lasciò sollevare, aggrappandosi a lei, osservò i bambini rincorrersi nel cortile. Nunzia nel toccarlo capì che era reale.
«E posso andare anch’io?».
Nunzia balbettò qualcosa, la parola mamma scontornava ogni spigolo del suo cuore. Gli passò il pollice sul viso, la sua pelle era imbrattata di un liquido nero.
«Ti va di fare un bel bagno, prima? Così laviamo via questo sporco e troviamo qualcosa da metterti per giocare».
Il bambino annuì; iniziò a saltellare sul divano per riuscire a guardare fuori. Nunzia sollevò il coperchio della zuccheriera, in ceramica bianca, riposta al centro del tavolo per gli ospiti, all’interno brillavano alcuni cioccolatini avvolti in involucri colorati e lucenti.
«Se hai fame puoi mangiarne qualcuno mentre ti preparo un bel bagno caldo».
«Grazie mamma se anche il signor Michele vorrà, staremo insieme per sempre».
Nunzia sorrise e tra sé e sé disse «Certo che vorrà, non sai quanto ti abbiamo aspettato». L’avrebbero chiamato Matteo, dono di Dio.
«La vasca è piena» disse e il fresco del salotto assorbì la condensa sul vetro dei suoi occhiali. Il bambino era svanito. La preoccupazione che piegava le rughe della fronte lasciò spazio a un'ipotesi che la rasserenò. «Ti ho capito. Neanche a me piaceva fare il bagno da piccola» disse, avanzando a passi leggeri verso il punto dove prima si era nascosto. Si lanciò sulla poltrona per guardare dietro. «Trovato!» esclamò, ma i pugni non afferrarono nulla. Guardò in giro con crescente agitazione. La ringhiera vibrò ancora con forza, e Nunzia si sentì stupida per aver dimenticato che voleva andare a giocare.
In strada i bambini urlavano dietro il pallone. Nunzia rivide, finalmente, la chioma dorata. Correva dentro una nube di polvere che sfocava il suo viso. Nunzia lo afferrò da un braccio: «Non devi uscire senza il mio…» ma lasciò la presa quando capì che non era lui.
Tutti i ragazzi si fermarono a debita distanza da lei.
«Avete visto mio figlio?» chiese, sperando che tra quei corpi si facesse largo lui. «Voleva giocare con voi ma prima…verrà sicuramente dopo, quando l’avrò trovato e sono sicura vi piacerà. È un bravo bambino, il mio».
La guardavano confusi ma non provavano inquietudine, solo compassione.
«No, signora, non l’abbiamo visto» rispose uno di loro, e quando lei era già lontana urlò: «Se ritorna, può giocare con noi, domani».
Nunzia sentì lo stomaco stringersi davanti a quel Se ritorna. Continuò a cercarlo, vagando per le vie che si aggrovigliavano intorno a lei, dilatandosi e restringendosi, non lasciandole spazio neppure per gonfiare la cassa toracica e riprendere fiato. Le girò la testa e perse l’equilibrio, le ginocchia si sbucciarono contro la ghiaia. Pianse disperata: il suo bambino era svanito. Intorno a lei, gli uomini del rione, chi in piedi e chi seduto al bar, la guardavano in silenzio, paragonando quel corpo anoressico accasciato a terra al fantasma della notte precedente che avevano immaginato ai piedi del loro letto appena distesi accanto alle mogli. Poi, il tempo accelerò e Nunzia inciampò nella velocità di quei secondi che la riportarono a casa, tra le braccia di Michele.
Nunzia gli indicò il punto in cui aveva visto il bambino.
«Basta, smettila» disse Michele, con tono severo.
«Ma c’era un bambino! C’era! L’ho visto, era nostro figlio».
«Non era reale» rispose lui, poggiandole il palmo sulla fronte. «Scotti, hai la febbre».
«Devi credermi». Nunzia lo afferrò per il braccio e lo portò al tavolo. «Si è seduto qui, proprio qui, ha mangiato alcuni cioccolatini. Guarda gli involucri. Era qui, te lo giuro».
«Dov’eri stanotte? Quando mi sono svegliato non c’eri».
Nunzia urlò, la frustrazione l’aveva sopraffatta. «Lo sai dove sono stata. Là fuori tutti ne parlano. Sono andata da Randagio. Ho espresso un desiderio…» La vergogna le mordeva la lingua «L’ho fatto per noi».
«È solo una storia, una leggenda. Non è reale, lo capisci?»
Era così rigido che l’unico movimento percettibile era il pulsare della vena sul collo e il tremolio della sua voce. Cercò di calmarla, prendendole il viso tra le mani.
«Sai cosa mi ha detto l’editore oggi? Che la storia è buona, forse la pubblicheranno. Se tutto andrà bene, tu starai meglio, ce ne andremo da qui, da questo rione, da questa gente, e ti comprerò una casa grande, piena di balconi e finestre, una casa luminosa, come piace a te. Non vivremo mai più nel buio».
Michele ammutolì, aspettando una risposta. Ma i pensieri di Nunzia lo superarono, vagando per la stanza fino a fermarsi sulla zuccheriera, dove notò le piccole impronte di una mano. Non era sporco, ma inchiostro. Il biglietto con la calligrafia del commesso le tornò in mente.
«L’hai creato tu, per me».
Il silenzio di Michele la trafisse in ogni secondo d’attesa.
«Che fine ha fatto il mio bambino?»
«Non c’è nessun bambino. È solo una storia».
Nunzia afferrò la macchina da scrivere e la scaraventò a terra.
«Dov’è il mio bambino?».
Non gli diede il tempo di rispondere. Prese la sua cartelletta, la rovesciò, e i fogli battuti a macchina caddero, con lo stemma della piccola casa editrice ormai timbrato su di essi.
Lo sfogliò con furia fino all’ultima pagina.
«Leggimelo» gli ordinò.
Nunzia corse fino al ponte con le ginocchia insanguinate. La folla accalcata intorno al cadavere di Randagio. Una muraglia di sguardi inorriditi. L’aria era satura del suo odore marcio. I bambini venivano trascinati via, non per risparmiarli all’orrore della morte ma per la paura di pulci e zecche che ancora brulicavano nella sua carne. Urlò a tutti di allontanarsi. Si gettò su di lui. Le mani le tremavano nel cercare ancora un suo respiro. Lo strinse forte, affondando il viso nel suo collo freddo. Lo cullò tra le braccia. In quei tratti usurati dal tempo, nelle pieghe del volto incrostate di nero, rivide chi non aveva mai smesso di cercare. Michele si premette una mano sul petto, all’altezza del cuore, dove dentro il taschino c’era la copia carbone del finale. Il bambino con il pigiama e gli orsacchiotti era già altrove, pronto a morire e rinascere sotto un altro ponte, in un’altra città, per lo stesso identico eterno egoismo della disperazione.
