Come messaggi in bottiglia
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Come messaggi in bottiglia

 

Il vecchio morì prima dell'alba. Lo trovarono raggomitolato nella sua tenda, le mani ancora strette attorno al frammento che aveva dissotterrato il giorno prima. Un pezzo di metallo lucido come vetro, con incisioni che nessuno sapeva leggere. Ethel glielo tolse dalle dita rigide. Era tiepido. Come se avesse conservato il calore di un corpo vivo più a lungo del corpo stesso.

Seppellirono il vecchio accanto allo scavo. Nessuno disse preghiere perché nessuno ricordava più le parole giuste. La terra era grigia e secca. Le pale facevano rumore contro le pietre. Quando finirono, il sole era alto e bianco nel cielo senza nuvole.

Hai paura, disse Thomas.

Non è paura, replicò Ethel.

Come la chiami allora.

Lei non rispose. Guardava il tumulo di terreno fresco. Il vento lo spostava già, riportandolo a livello del deserto circostante. Come se la terra stessa rifiutasse di mantenere le cicatrici.



***



Prima che tutto crollasse Ethel era studentessa di archeologia. Si occupava di civiltà morte da millenni: cocci di ceramica, ossa polverose. Immaginava vite attraverso frammenti. Ricostruiva narrazioni da detriti. Suo padre le diceva che era un lusso studiare i morti quando i vivi avevano così tanto bisogno. Ma lei continuava. C'era una purezza nell'indagare vite concluse. Nessuna possibilità di ferire chi era già polvere.

Poi vennero le tempeste. Non quelle di sabbia ma quelle altre, quelle che facevano tremare i sensori e impazzire gli schermi. Lampi verdi nel cielo notturno. Radio che trasmettevano voci in lingue che non esistevano ancora. Il tempo stesso che sembrava piegarsi come carta bagnata.

Trovarono il primo artefatto in un campo di grano. Un agricoltore lo dissotterrò con l'aratro. Era una capsula di cristallo che conteneva qualcosa che sembrava una mappa stellare ma le stelle erano disposte in modi non concepibili. Costellazioni che non corrispondevano a nessuna mappa della storia umana conosciuta.

Gli scienziati arrivarono e prelevarono campioni. Fecero analisi. I risultati non avevano senso. Il materiale era più giovane del suolo che lo circondava. Molto più giovane. Come se fosse stato sepolto il giorno prima. Ma gli strati geologici dicevano che era stato lì per almeno tremila anni.

Una settimana dopo trovarono il secondo artefatto. Poi il terzo. Dopo ancora altre decine, centinaia, sparsi in tutto il mondo. Sempre in luoghi remoti. Sempre sepolti. Sempre privi di logica apparente.

Ethel ricordava la riunione all'università: professori che litigavano, teorie che si contraddicevano. Qualcuno disse che erano manufatti alieni. Qualcun altro sospettò fossero dei falsi, molto ben elaborati certo, ma dei falsi. Nessuno disse la cosa che a Ethel sembrava più ovvia. Quella che forse nessuno voleva pronunciare davvero.

Che venivano dal futuro.



***



Nello scavo trovarono una camera. Non una caverna naturale ma qualcosa di costruito. Le pareti erano lisce come specchi. Riflettevano la luce delle torce in modi strani, moltiplicandola, piegandola. Thomas toccò una parete e la sua mano affondò di un centimetro prima di incontrare resistenza. Come se la superficie fosse fatta di acqua solidificata.

Al centro della camera c'era un piedistallo. Sopra il piedistallo un oggetto sferico. Nero ma non completamente nero. Sembrava assorbire la luce intorno a sé. Creare un vuoto visivo. Ethel si avvicinò lentamente. Il suo respiro echeggiava nella camera vuota.

Non toccarla, disse Thomas.

Devo.

Perché?

Perché è per questo che siamo qui.

Lei allungò la mano. Le dita si avvicinarono alla superficie della sfera. Prima di toccarla sentì una vibrazione. Non nel corpo, ma nella mente, come se qualcuno avesse colpito una campana che solo il suo cervello poteva sentire.

Toccò la sfera.



***



Dopo i primi ritrovamenti vennero le teorie. La più accreditata parlava di loop temporali. Inversioni causali. Eventi che si causavano retroattivamente. La comunità scientifica si divise. Metà credeva. Metà rifiutava. Entrambe avevano paura.

Ethel venne reclutata in una task force internazionale. Archeologi del presente che indagavano il futuro. O forse archeologi del futuro che indagavano il presente. Le categorie temporali non funzionavano più. Il linguaggio stesso sembrava inadeguato a descrivere ciò che stavano trovando.

Gli artefatti continuavano ad apparire. O forse erano sempre stati lì e solo ora diventavano visibili. Impossibile dirlo. Ogni scavo rivelava tecnologie avanzate. Ma non aliene. Chiaramente umane. Inequivocabilmente umane. Nei design c'erano echi di forme contemporanee. Evoluzioni di oggetti familiari. Come se qualcuno nel futuro avesse preso un telefono e lo avesse fatto sviluppare per mille anni.

La domanda a cui nessuno sapeva rispondere era: perché? Ethel pensava di conoscere la risposta ma non la condivideva con nessuno. Era una risposta troppo definitiva. Troppo finale.

Sono messaggi. Avvertimenti. Mandati da chi? Da noi stessi. Dai nostri discendenti. Che ci dicono di non fare qualcosa che loro hanno già fatto. Che sanno che porterà alla fine. Ma se sono messaggi perché sono così criptici? Forse perché il futuro non può parlare chiaramente al passato senza distruggere entrambi.

Poi iniziarono le tempeste vere. Non quelle temporali ma quelle climatiche. Gli oceani che si alzavano. I raccolti che marcivano. Le città costiere sommerse. E tutti si dimenticarono degli artefatti perché la sopravvivenza immediata divenne l'unica priorità.

L'università chiuse. Il governo collassò. Le comunicazioni globali morirono lentamente come piante senz'acqua. Ethel si ritrovò in un campo profughi con migliaia di altri. Poi il campo si svuotò. La gente partì in cerca di posti migliori, ma non esistevano posti migliori. Rimase con Thomas che era stato suo collega e poi era diventato semplicemente qualcuno che era ancora vivo.

Decisero di tornare agli scavi. Non aveva senso, ma tanto niente aveva più senso. Almeno potevano morire facendo qualcosa che una volta per loro aveva significato qualcosa.



***



Quando toccò la sfera, Ethel vide, non con gli occhi ma con altro, una parte di lei che nemmeno sapeva di avere. Immagini che non erano immagini. Concetti che non erano pensieri. Un flusso di informazione che entrava diretta nella sua coscienza saltando i sensi.

Vide città. Non quelle del presente o del passato ma quelle che sarebbero venute dopo. Torri che toccavano le nuvole costruite con materiali che sembravano vivi. Crescevano e si adattavano. Respiravano. Le strade erano fiumi di luce. Le persone si muovevano attraverso dimensioni che lei non poteva nominare.

Poi vide il collasso. Non graduale. Istantaneo. Come se qualcuno avesse spento un interruttore cosmico. Le città che si disfacevano. Le persone che scomparivano. Non morte, semplicemente non più lì. Come se fossero state cancellate da un'equazione.

Vide gli ultimi. Pochi sopravvissuti in un mondo vuoto. Che capirono. Che compresero l'errore. Che decisero di mandare indietro i messaggi.

Ma mandare indietro cosa esattamente? Informazioni nude avrebbero creato paradossi. Avvertimenti diretti avrebbero causato inversioni causali. Quindi codificarono la verità in oggetti. Manufatti che non dicevano ma mostravano. Che non parlavano ma suggerivano.

E li seppellirono nel passato sperando che qualcuno li trovasse. Sperando che qualcuno capisse. Sapendo che probabilmente non sarebbe servito a nulla, ma tentando comunque.

Ethel ebbe l'impressione di vedere l'errore, per quel poco che riusciva ad afferrare di quel flusso montante di dati e percezione. La cosa specifica che non avrebbero dovuto fare ma che fecero. Sembrava semplice. Terribilmente semplice. Era nella manipolazione del tempo stesso. Nell'idea che potessero controllarlo. Piegarlo. Usarlo come strumento. Il tempo non voleva essere usato. Quando lo forzarono si spezzò. E tutto ciò che dipendeva dalla sua linearità crollò con esso.

La visione terminò. Ethel si ritrovò sul pavimento della camera. Thomas la sosteneva. Le chiedeva qualcosa ma le parole arrivavano ovattate come attraverso acqua.

L'hai visto?, chiese.

Sì.

Tutto?

Sì.

Possiamo fermarlo?

Ethel rise di una risata secca come foglie morte. No, disse. Non possiamo. È già successo. Succederà. Il tempo non funziona come pensiamo. Non è una linea.



Lasciarono la camera. La sfera rimase sul piedistallo. Pulsava debolmente nella penombra. Forse altri sarebbero venuti. Forse avrebbero toccato. Forse avrebbero visto. Forse no. Forse presto non ci sarebbe stato più nessuno. O forse qualcuno sarebbe esistito sempre e comunque, in qualche modo.

Risalirono attraverso gli strati di terra. Passarono le tende abbandonate. Il tumulo del vecchio era scomparso, livellato dal vento. La terra che rifiutava le cicatrici.

Si incamminarono verso ovest perché non c'era ragione di andare a est. Il sole tramontava davanti a loro, grande e rosso. Il cielo era striato di colori che non esistevano prima delle tempeste. Arancio metallico. Viola elettrico. Verde profondo come alghe sottomarine.

Hai paura ora, disse Thomas.

Sempre.

Ma continui.

Cosa altro c'è da fare?

Potremmo fermarci. Costruire qualcosa. Provare a sopravvivere.

Per cosa?

Thomas non rispose. Continuarono a camminare. La sabbia scricchiolava sotto gli stivali. Nel cielo una stella cadente tracciò un arco. O forse non era una stella ma uno dei satelliti morti che cadevano uno a uno. Difficile dire la differenza ormai.

Ethel pensò agli artefatti. A tutti quelli ancora sepolti in giro per il mondo che nessuno avrebbe mai più trovato. Messaggi non letti. Avvertimenti ignorati. Storia futura che diventava polvere insieme alla storia passata. Forse era giusto così.

Dietro di loro il sole toccò l'orizzonte. Le loro ombre si allungarono, nere sul grigio secco della terra. Camminavano verso le proprie ombre. Come se potessero raggiungerle. Come se le ombre fossero un posto sicuro dove andare.

La notte scese veloce come sempre dopo le tempeste. Le stelle apparvero ma erano disposte in maniera disordinata. Costellazioni che Ethel non riconosceva. Forse erano cambiate. Forse era sempre stata lei a vederle in maniera sbagliata. Forse nel futuro le stelle davvero si sarebbero disposte così e quello che vedeva era il cielo com'era stato sempre destinato a essere. Cercò di immaginare gli astronomi del futuro che guardavano lo stesso cielo. Cosa vedevano. Cosa sapevano. Se avevano paura o se la paura era un'emozione superata.

Si fermarono quando fu troppo buio per camminare con sicurezza. Accesero un piccolo fuoco con legni secchi e sterpaglie raccolte nel deserto. Sedettero in silenzio. Il fuoco scricchiolava. Scintille salivano verso le stelle sbagliate.

Cosa farai quando finirà?, chiese Thomas.

Quando finirà cosa.

Tutto.

Ethel guardò le fiamme. Pensò al vecchio morto con il frammento in mano. Pensò alla sfera nera nella camera sotterranea. Pensò alle città future che si dissolvevano. Pensò al tempo che si spezzava come vetro.

La stessa cosa che faccio ora, disse. Scavare. Cercare. Provare a capire.

Anche se non serve a niente.

Specialmente se non serve a niente.

Thomas rise. Era una risata triste. Sei sempre stata testarda.

 

 

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