Manutenzione emotiva per piante carnivore
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Manutenzione emotiva per piante carnivore

 

Me l'aveva regalata Chiara per il mio compleanno. Una piccola pianta carnivora dentro un vaso rosso ocra, con un biglietto: Non richiede molte cure, ma ne pretende.

"Mi sembra adatta a te," aveva aggiunto, sorridendo con quella espressione di chi non sta affatto scherzando. Quel sorriso che conoscevo bene: metà tenerezza, metà diagnosi clinica.

L'ho chiamata Viviana, senza una ragione precisa. Forse perché mi sembrava un nome da segretaria di uno studio notarile, con una doppia vita segreta una volta finito l'orario d'ufficio. O forse perché aveva qualcosa di vivo che, beh, andava oltre il mero fatto botanico di esserlo tecnicamente, viva.

Una Dionaea muscipula, secondo l'etichetta incollata sul fondo del vaso. Tre bocche ben sviluppate, due in fase di crescita. Verde brillante, con punte rosse all'interno, come se avesse appena finito un pasto e fosse soddisfatta. Le trappole avevano quella lucentezza carnosa che ti fa dubitare della categoria vegetale. Sembravano piccole fauci pazienti, in attesa di qualcosa di più sostanzioso di una mosca distratta.

La poggiai sulla scrivania, accanto al computer. Non perché mi piacesse particolarmente - anzi, mi inquietava - ma perché l'avevo ricevuta in regalo, e possedevo ancora quel residuo di educazione sentimentale che mi impedisce di sbarazzarmi delle cose strane quando sono accompagnate da un gesto. Chiara aveva sempre dimostrato un talento particolare per i regali che ti costringevano a una forma di attenzione. Non erano mai neutri. Mai innocui.

Il primo giorno non successe nulla. Il secondo, nemmeno. Viviana se ne stava lì, ferma come un soprammobile vendicativo, e io la ignoravo con quella noncuranza educata che riservi agli ospiti non richiesti.

Al terzo notai che la pianta si girava leggermente verso di me ogni volta che mi sedevo. Non in modo plateale. Solo un piccolo scarto, come se volesse assicurarsi che fossi lì. Un riorientamento appena visibile delle foglie, una rotazione quasi impercettibile del fusto. Come quando qualcuno in una stanza piena di gente continua a cercarti con lo sguardo, anche se finge di essere altrove.

Sulle prime avevo pensato fosse la luce, o il mio cervello. O entrambi, in combutta.

La settimana seguente portai in casa un mazzo di fiori - per cercare di rianimare l'idea di una cena romantica con un'altra ex che avevo già deluso due volte. Tulipani rosa, banali e innocenti, avvolti in quella carta trasparente che ti fa sentire in colpa per aver speso così poco. Quando ho posato i fiori sul tavolo, Viviana emise un piccolo suono. Come un clic secco, metallico. Uno scatto deliberato.

Non era vento, del resto non c'era vento. E le piante carnivore non fanno rumori, questo lo sapevo. Eppure.

Ho guardato Viviana. Le sue bocche erano tutte chiuse, serrate come pugni. Ho guardato i tulipani. Ho guardato di nuovo la pianta.

"Cosa c'è, sei gelosa?", mi sorpresi a dire.

Una delle trappole si aprì. Lentamente. Con una certa ostentazione.

Da lì in poi, le cose avevano iniziato a svilupparsi.

Notai che ogni volta che parlavo al telefono con qualcuno che mi annoiava - colleghi, assicuratori, parenti con troppe opinioni - la pianta si apriva lentamente, come se ascoltasse. Non so spiegare bene il modo in cui lo faceva, ma mi era chiaro che appariva compiaciuta, se così si può dire. Partecipe. Come un pubblico che annuisce durante uno spettacolo particolarmente riuscito. Le trappole si allargavano, le ciglia interne si tendevano, e tutta Viviana assumeva un'aria attenta, quasi avida.

Durante una call particolarmente frustrante con un project manager che usava la parola "sinergia" come forma di punteggiatura, ho sentito la mia pazienza frantumarsi in pezzi sempre più piccoli. Ho spento il microfono per commentare ad alta voce: "Mangialo tu se vuoi, che io non ce la faccio più."

Viviana ha chiuso di scatto una delle sue bocche. Così veloce che ho sentito lo schiocco.

Da lì nacque una specie di complicità.

Non avevo mai posseduto una pianta con cui sentirmi in rapporto paritario. A dire la verità non avevo mai posseduto una pianta che avesse vissuto troppo a lungo. Di solito morivano per incuria, silenziosamente, come ospiti timidi che non vogliono disturbare nemmeno andandosene. Viviana no. Viviana sopravviveva con eleganza. Anzi, sembrava rafforzarsi ogni volta che io perdevo la pazienza. Cresceva nelle mie frustrazioni come in un terreno particolarmente fertile.

Ho iniziato a parlarle. Piccole cose, all'inizio. Poi cose più grandi. Le parlavo dei messaggi che non mandavo, delle risposte che riformulavo nella doccia due giorni dopo aver dovuto darle. Le leggevo mail di lavoro particolarmente irritanti, ad alta voce, con enfasi teatrale. Lei reagiva. Una bocca si chiudeva quando finivo una frase significativamente amara. Un'altra si apriva quando esitavo su una parola.

"Sei una buona ascoltatrice," le dissi una sera, dopo aver raccontato dell'ennesima conversazione con mia madre in cui avevo detto tutto tranne quello che pensavo davvero.

Viviana ripeté quel suo piccolo suono. Il clic. Come un apprezzamento. Come un "continua pure".

Un giorno ho trovato, ai piedi del vaso, un bigliettino che non ricordavo di aver scritto: La rabbia non evapora. Trova un contenitore. E lo decora. La mia calligrafia, sicuramente. Ma non ricordavo di averlo scritto. Forse era uno dei miei appunti notturni, quelli che lascio per il me stesso del mattino e che poi ritrovo come messaggi da uno sconosciuto. Forse.

Nel frattempo, la pianta cresceva. Non smisuratamente. Non in modo da farmi temere per l'incolumità dei gatti del vicinato. Ma abbastanza da costringermi a cambiarle posto. Le bocche pienamente sviluppate erano ormai diventate sei. Ogni nuova trappola più grande della precedente, più sicura di sé.

Ho provato allora a spostarla in cucina, pensando che avesse bisogno di più luce naturale, ma il solo risultato fu che smise di aprirsi. Rimase chiusa per due giorni, ostile e irremovibile, come un adolescente che ti punisce col silenzio. Allora tentai di metterla sul balcone, e serrò tutte le bocche in maniera ancora più netta. A quel punto non mi restò altro da fare che riportarla sulla scrivania, dove subito si riaprì, in nemmeno un'ora, come un sorriso stanco che dice "finalmente".

"D'accordo," le ho detto. "Hai vinto tu."

Un clic. Soddisfatto.

Ma con quella vittoria arrivarono le pretese. Viviana richiedeva attenzione. Non in modo esplicito, ovviamente. Ma quando passavo troppo tempo fuori casa, quando tornavo tardi, quando mi distraevo con altre cose, lo faceva sapere. Le bocche diventavano meno reattive. Le foglie si afflosciavano leggermente, non abbastanza da sembrare malata, ma abbastanza da farti sentire in colpa.

Una sera ero uscito con dei vecchi amici. Niente di speciale, pizza e birra, una di quelle serate che ti ricordano chi eri prima di diventare chi sei. Ero tornato verso mezzanotte, rilassato, con quella leggerezza che ti lascia la compagnia giusta e una certa quantità di alcol. Ma quando accesi la luce dello studio trovai Viviana chiusa. Completamente chiusa. Tutte le trappole serrate, le foglie rivolte verso il muro, come se mi stesse voltando le spalle.

"Ehi," le ho detto. "Cosa c'è?"

Nessuna reazione.

"Mi dispiace, okay? Avevo bisogno di uscire."

Silenzio vegetale. Il tipo di silenzio che dice: "fai bene a dispiacerti".

Le ho dato da mangiare. Una mosca che avevo catturato apposta, con pazienza quasi chirurgica. L'ho posata delicatamente su una delle trappole. Niente. La bocca era rimasta chiusa, respingendo l'offerta con uno sdegno palpabile.

"Davvero?" chiesi. "Adesso fai anche i capricci?"

Il giorno seguente si era riaperta. Ma solo dopo che mi ero seduto alla scrivania e le avevo dedicato un buon quarto d'ora, raccontandole di un litigio che avevo avuto in ufficio. Solo allora le trappole avevano ricominciato a muoversi, ad aprirsi, ad ascoltare.

Ho capito che Viviana aveva stabilito delle regole. E che intendeva farle rispettare.

Chiara era ripassata una sera, per recuperare un vecchio maglione che aveva lasciato da me. Si mise a osservare la pianta per qualche secondo, con quella sua aria da botanica emotiva.

"È cresciuta," ha detto.

"Sì. Ci stiamo abituando alla convivenza."

Lei sorrise, ma senza troppa convinzione. "Ti rendi conto che stai parlando di una pianta come se fosse una persona?"

"Ci sono persone con cui ho avuto meno interazione."

Chiara aveva annuito, come se avesse trovato conferma di qualcosa che già sospettava. "Stai attento. Queste piante sono esigenti. E tu sei bravo a dare esattamente quello che ti viene chiesto."

"Non sembra un gran complimento."

"Non lo è."

Non aggiunse altro, prese il maglione e andò via. La pianta commentò chiudendo una bocca. Non tutte. Solo una. Come una battuta sarcastica sussurrata a bassa voce.

Da quel giorno ho cominciato a farle ascoltare musica. Jazz, soprattutto. Qualcosa nei vuoti di Chet Baker sembrava piacerle. Durante i brani più malinconici si muoveva appena, come se respirasse, come se stesse dondolando la testa a tempo, impercettibilmente.

Ho scoperto che odiava il pop allegro e la musica commerciale. Quando per sbaglio era partita una playlist troppo ottimista, ha chiuso tutte le trappole di colpo. Come una protesta. Come se dicesse:"questo no, per favore".

Poi, come succede con tutte le relazioni troppo simmetriche, arrivò la stanchezza.

Iniziai a lasciarla sola. Non di proposito. Solo per distrazione. Un paio di viaggi di lavoro. Un weekend fuori, in montagna, lontano da tutto. Un invito accettato senza pensarci. Mi accorsi che stavo evitando la scrivania, che preferivo lavorare dal divano, che trovavo scuse per non passare dal mio studio.

Quando ero tornato dall'ultimo viaggio, le bocche erano chiuse. Non appassite. Solo deluse. Chiuse con una precisione che sembrava ostentata, quasi offesa.

Provai a darle da mangiare una mosca che avevo trovato sul davanzale, ma lei nemmeno aprì le trappole. Tentai di parlarle un po', raccontando i dettagli di un litigio con un collega. Nessuna reazione. Nemmeno un movimento. Provai con Chet Baker, il suo preferito. Niente.

"Viviana," le ho detto. "Mi dispiace. Davvero."

Ancora niente.

Adesso Viviana è sempre lì sulla scrivania, ma meno partecipe. Si apre solo quando accendo la luce, e solo se il mio umore è sufficientemente scuro da attirarla. Come se avesse capito che l'unica cosa che possiamo ancora condividere è una forma educata di reciproca sopportazione.

A volte le parlo ancora. A volte lei risponde, come sempre a modo suo. Ma il patto è cambiato. Adesso so che ogni relazione - anche quelle con gli esseri che tecnicamente non dovrebbero poterti chiedere nulla - ha un prezzo. E che quel prezzo si chiama presenza.

A volte ho addirittura l'impressione che stia cercando di dimenticarmi. Forse le piante fanno così. Proprio come le persone.

 

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