Tutte le immagini sono di Francesco Santoro
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Skate a Colle Oppio

 

Il più delle volte mi schianto e porto il mio culo a strisciare in terra. Non è di certo la mia intenzione, sogno altro io, ma spesso i desideri non coincidono con le possibilità. No, non è il parere degli altri a procurarmi pena, è che fa male ed è frustrante. Però passa, passa non appena mi rimetto in piedi e mi dico che sono fatto di gomma e magia.

 

La mania per lo skate è cominciata quando Claudio “Secco” Mancini mi ha spinto in faccia il suo smartphone. Un gesto impaziente pagato con uno sforzo tale da fargli tremare le dita magre e le braccia pelle e ossa che spuntavano dal corpo scarno, sormontato da un faccione scavato. Il TikTok mostrava questo tizio, rannicchiato sopra uno skateboard, che controllava salti e rotazioni con disinvoltura. Avanzava veloce, planava, inchiodava e a me, tutto questo, abbioccato sul divano di casa, pareva facile. Con i video appresso l'algoritmo mi ha infognato tra immagini di skater che alternavano eroiche acrobazie e tremendi capitomboli finché una sola idea ossessiva ha iniziato a sbattere forte nella capoccia mia, e pure nel capoccione ossuto di Secco: saremmo diventati skater.

 

skate immagine 1

 

Secco mi aveva detto che il posto per noi era lo SkySkateShop di Centocelle, non troppo costoso, non troppo fighetto, non troppo lontano da casa, con una selezione di tavole da paura. I soldi per l'acquisto dovevano arrivare con le solite trattative e dalle solite tasche dei nostri genitori. A spergiurare una sufficienza in matematica manco ci pensavo. Perciò era meglio assillare, impuntarsi, imbronciarsi, pregare fino al cedimento dei nervi di quei poveri cristi, fino ad ottenere una resa incondizionata per sfinimento.

Che poi, a cosa mi serviva più la matematica? Lo studio di calcoli che mai avrei fatto nella vita? Anzi, a cosa serviva mai la scuola? Nella mia testa, prima ancora di mettere un solo piede sulla tavola, avevo deciso che mi sarei consacrato al dio skatebord, che sarei andato alle Olimpiadi e che avrei vissuto facendo soldi sui canali social pubblicando tutorial dei miei salti. Sarei stato il nuovo eroe di TikTok, con il legno sotto braccio e l'abbigliamento cool, bardato con protezioni a ginocchia e cranio come un novello gladiatore. Altro che scuola! Io e Claudio eravamo totalmente in fissa con sta roba, ormai.

La prima volta che ho toccato il mio skateboard, scelto tra decine e decine di modelli, un'onda d'urto ha incendiato il mio petto. Un pezzo di legno fissato sopra quattro minuscole rotelle bianche, lungo ottantadue centimetri e largo venti, antiscivolo nero sul top e il disegno di un gorilla emergente tra fulmini sul fondo. Ecco cosa aveva appiccato quello stesso fuoco che il tennis aveva alimentato fino a pochi mesi prima che lo mollassi di punto in bianco senza un vero perché.

 

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Recuperato l'attrezzo, non dovevo far altro che smettere di sognare ad occhi aperti e buttarmi nello scompiglio dello skatepark. M'è piaciuto 'na cifra andarci per provare qualche giro, dopo esserci stato da semplice spettatore.

Da lì è stato un continuo fuggire di casa all'urlo di «sì, ho fatto tutto, tranquilla ma'!» mentre Secco continuava a tempestarmi di messaggi per farmi scendere veloce-veloce di casa.

All'inizio andavamo nell'impianto di Colle Oppio trascinandoci dietro sensazioni in conflitto tra loro che, quasi sempre, assomigliavano ad insicurezza e spavalderia. Io fingevo di sapere quello che facevo, camminata da duro e sguardo intrepido; avanzavo con un passo sghembo dentro un pantalone oversize e una felpa malconcia per sembrare più ciancicato. Secco, di solito dotato di una spocchia a cui solo io sembravo vaccinato, restava indietro, quasi intimidito, masticando le labbra come un chewing gum. Aveva portato sulla nuca la visiera del berretto con la C dei Cubs di Chicago – che lui spacciava, invece, per un cappello personalizzato con la C di Claudio – e montava un paio di occhiali da sole grattati chissà dove. Pantaloni tagliati al ginocchio anche se il calendario diceva primavera, ma fuori c'era un freddo invernale, e una felpa con cappuccio. Ci mancavano solo un paio di Vans Kyle Walker ai piedi per fare un debutto coi fiocchi.

All'inizio, allo Skatepark, ci andavamo più che altro per guardare e comprendere i movimenti proposti dagli altri skater, anche se i tutorial del web restavano la nostra bibbia. Nel playground di Colle Oppio c'è una pista pianeggiante che si affaccia proprio sul Colosseo. E' una struttura per apprendisti ed è lì che si comincia a scalare la gigantesca montagna di smerdature. E' il campetto dove si allenano i novellini prima di sfidare le rampe, le mitiche half pipe. Sulla pista in piano qualcuno danzava sicuro sulla tavola come se fosse un veterano, qualcuno andava ad intermittenza, la stragrande maggioranza dei pischelli inciampava, ruzzolava al suolo, insomma falliva e ingoiava veleno. In alcune giornate mi sentivo carico e le cose mi venivano bene, ma mi bastava restare fermo qualche giorno in più per perdere confidenza con quello che, nelle mie fantasie, doveva essere un tappeto volante. Il primo vero scoglio è stato l'ollie. E' il movimento di base che tutti devono conoscere prima di tentare altro. Ti sbilanci sul tail, il retro della tavola, e atterri sul nose, la parte anteriore, mentre i piedi restano incollati al legno per tutto il tempo. Più che una contesa a chi faceva meglio, tra me e Secco, la vittoria andava a chi si ammaccava nei posti più impensabili del corpo. Secco dominava solo perché non aveva carne sottopelle. Ricordo ancora con grande vergogna il giorno in cui avevo quasi compiuto un perfetto ollie mentre il park registrava la massima capienza di skater. Qualcosa era andato storto nell'atterraggio e, proprio davanti a tutti, ero precipitato sul culo per poi finire gambe all'aria con la faccia accartocciata in una smorfia dolente e un gemito soffocato in gola. Di male in peggio, uno stronzo con la GoPro sul casco aveva registrato e postato il reel su Instagram. Tempo dopo mi sono rivisto, per caso, seguendo l'hashtag #colleoppio che però era accompagnato da altre parole chiave tutt'altro che raffinate. Di sicuro ricordo di aver letto #badtrick, #loser, #bellazio e #frescone, ma a tormentarmi è stata la caption che riportava una sola parola: cringe. Avevo preso un sacco di like e decine di commenti.

 

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Quando Claudio ha mollato mi sono ritrovato a dover gestire la sua assenza. Claudio “Secco” Mancini, ha avuto il merito di farmi conoscere lo skateboard e mi ha sempre incoraggiato a resistere, anche quando ho pensato di tornare al circolo tennis ad affannarmi sulla terra rossa per niente convinto dei miei discreti progressi sulla tavola. Non ha mai nascosto di sentirsi meno capace di me, anche se sono certo di avergli confidato più volte che tutt'e due nun eravamo boni, dato che passavamo più tempo al tappeto anziché realizzare trick accettabili. Il fatto è che Claudio non riesce a stare dietro ai compiti e alle jam, e poi la madre – una madre vedova che gli fa anche da padre – gli sta sempre col fiato sul collo. Dopo la sfilza di impreparazioni rimediate a scuola ha dovuto lasciare lo skate per non trovarsi la guerra in casa. A me è dispiaciuto un sacco ma non posso farci niente. E poi Claudio è capace di inventarsi di tutto pur di non sgobbare. Da qualche settimana non ho più sue notizie e la nostra chat è freezata. L'ultima volta che l'ho visto mi ha detto che presto mi avrebbe fatto leggere le barre che ha composto, una celebrazione dello skateboarding fatto da ragazzi che però sono pure sbandati e spacciano a scuola. E' un po' contorto come argomento, se n'è reso conto pure lui, ma questa sua nuova attività gli consente di stare più tempo in stanza, a fingere di studiare, così da rendere la madre meno ansiosa.

 

skate immagine 4

 

Di conseguenza frequento Colle Oppio generalmente da solo. Ogni tanto condivido jam e opinioni con Lorenzo “Phantom” e “Mighty” Samir, ma spesso mi sembra d'intralciare la loro amicizia così autentica che tende ad escludere più che a coinvolgere. Mi sento come un animale solitario che cerca di compiacere il branco per aggregarsi. Mi degnano di un minimo di considerazione solo perché ho accettato quella proposta qualche settimana fa. Dovevo fargli da palo mentre usavano stencil e vernice spray per riprodurre in serie “Stop bombing Gaza” sui muri del quartiere. Se c'era tempo, Samir scriveva pure ACAB, ma a mano libera. Gli veniva bene. Mighty dice sempre di avere un conto in sospeso con le guardie, allude alle origini del padre ma non specifica mai quel che è successo e in giro, chi ne sa qualcosa, si guarda bene dal parlarne.

Phantom e Mighty sono davvero bravi, hanno stile. Lorenzo è così veloce a skatare che sembra invisibile. Un secondo è lì davanti ai tuoi occhi e subito dopo è scomparso come un fantasma. Samir arriva a stento al metro e sessantacinque, anche se lui ci tiene a precisare che è «centosessantacinque centimetri senza scarpe», ma riesce a fare certi esercizi a corpo libero che lo fanno sembrare padrone di una forza in prestito. Sono trainer a tempo perso nel Colosseum Park dove danno una dritta a tutti i pivelli – non senza un minimo di superiorità tipo «Aho', sto trick alla cazzomannaggia o' vuoi aggiustà? 'Namo!» – e si fanno belli con tutte le ragazze.

 

Ragazze, che altro casino! La prima volta che l'ho vista era al parco con un'amica. Immobile al centro della pista per pischelli, aveva un bucket hat calato sugli occhi che su una qualsiasi altra capoccia avrebbe fatto ridere. Senza volerlo, stendeva il suo incantesimo su tutti i presenti con il suo sguardo magnetico e un'eleganza semplice. Scrutava la pista come per voler ricalcolare tempi e movimenti e poi cercava di partire con sicurezza. Alta, capelli lunghi, portamento atletico e tavola costosa sotto due fette così. Sembrava uscita da un film. Ovviamente Phantom e Mighty cercavano sempre di ronzarle intorno, eppure non sembravano riscuotere successo. Era più che un dettaglio perché lasciava speranza al resto della platea.

La prima volta che lei si è accorta di me ero a terra, ovviamente, caduto dopo la centesima volta a causa di uno stupidissimo revert in velocità. Stavo abbacchiato di brutto e sono scomparso mimetizzandomi tra quelli del campetto di basket, lì a fianco alla pista. Ovviamente mi sentivo fuori da ogni competizione perché non ero capace, non ero come Phantom e nemmeno come Mighty. Anzi non ero nessuno e non potevo ammassare aspettative. E poi magari lei era già impegnata. Mi ero quasi sottomesso a questa convinzione quando l'ho rivista allo skatepark per l'ultima volta. Era pomeriggio e il sole stava scomparendo dentro al Colosseo come un tuorlo in caduta dentro una tazza.

 

skate immagine 5

 

I raggi solari scivolavano bassi e producevano lunghe ombre sulla pista. Avevo una visuale ostile e con quella luce abbagliante le figure non erano perfettamente distinguibili anche se, ero abbastanza certo di riconoscere i lineamenti della ragazza dal cappello di pescatore, statuaria, manco a dirlo. L'altro individuo pareva esile e no, proprio no, proprio non potevo crederci. No, mortacci! Era la sagoma di Claudio!

Volevo essere sicuro della scena proiettata da quella realtà irragionevole e mi sono avvicinato ancora un po', giusto per dare una certezza matematica a ciò che vedevo. E l'ho avuta quando ho potuto esaminarli alla distanza che mi consentiva di giudicare sguardi al miele e moine idiote che li proiettava in una bolla riservata, sigillata e proibita al resto del mondo. Secco era lì, sullo skate, incredibilmente sostenuto da gambe come chiodi, che ridacchiava alla sua maniera mentre tutte le ossette ballonzolavano instabili. Lei lo sovrastava guardandolo dall'alto in basso e si compiaceva di quell'interesse fino a quando l'ho sentita distintamente annunciare, «Dai “C”, perché non mi leggi qualche altra rima?». Proprio così, lei chiamava Secco “Si”, con l'iniziale di Claudio in inglese – stavo vivendo un incubo! – e gli chiedeva pure di leggere la sua monnezza rap o quel che cavolo era. In quel momento mi sono sentito vuoto come un giubbotto appeso ad una gruccia, privo di ogni materia palpabile. Privo di gambe con cui scalciare, pugni in cui stringere l'aria, lingua per bestemmiare, occhi per piangere e uno stomaco da cui vomitare. Ne avevo abbastanza. Ho preso il mio pezzo di legno fissato sopra quattro minuscole rotelle bianche, lungo ottantadue centimetri e largo venti, antiscivolo nero sul top e il disegno di un gorilla emergente tra fulmini sul fondo e sono sgattaiolato via dal paradiso dello skate, brutalmente scacciato dal dio della sfiga.

 

Ecco, il più delle volte mi schianto e porto anche il mio cuore a strisciare in terra. Non è di certo la mia intenzione, sogno altro io, ma spesso i desideri non coincidono con le possibilità. No, non è il parere degli altri a procurarmi pena, è che fa male ed è frustrante. Però passa, passa non appena mi rimetto in sesto e mi dico che sono fatto di gomma e magia.

 

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