La mela d'argento
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La mela d'argento

 

 

La statua della Madonna nera galleggiava in lontananza sopra gli ottoni dorati dei suonatori, in mezzo alla gente di San Severo che le faceva ressa intorno.

Tilde dalla coda del corteo riusciva appena a scorgerne la corona, i boccoli biondi dei capelli e l’oro ricamato della veste di seta. Avrebbe voluto esserle vicino, aspettarne il passaggio e baciarle la veste, come faceva ogni anno. Per colpa della professoressa Giuliani si era invece ritrovata al fondo della processione.

Altro che Festa del Soccorso. Il calendario prevedeva lezioni di pianoforte il pomeriggio del lunedì e del mercoledì, dalle quattro alle cinque, e anche quel lunedì lei avrebbe tenuto la sua lezione, dalle quattro alle cinque.

Non aveva voluto sentire ragioni. E che diamine! Quanti giorni di festa volevano i suoi concittadini? Quelle bestie non avevano mai basta di tripudi e fanfare e ogni scusa era buona per fare cagnara e dare cibo al proprio piacere. E il dovere? A quello nessuno ci pensava. Se era sacro il dovere che ci detta la Chiesa non era altrettanto sacro quello che ci impone la nostra coscienza di uomini? Ogni cittadino ha degli obblighi morali verso se stesso e verso la comunità nella quale vive. E li assolve in un solo modo; lavorando, prendendo sulle spalle ogni giorno il proprio basto.

La professoressa Elvira Giuliani aveva pensieri non accomodanti e praticava una religione tutta sua, la religione del lavoro, come la definiva lei.

Quei pensieri e quei personali precetti morali li aveva maturati in tempi lontani, durante la sua gioventù,vissuta nella bagarre del sessantotto, quando tutto, perfino la felicità, sembrava a portata di mano.

In piedi sulle barricate erette contro ogni potere, Stato o Chiesa che fosse, lei e i suoi compagni, avevano atteso l’alba del nuovo mondo, un mondo libero finalmente dal bisogno che umilia e dal piede che calpesta.

Siate realisti: chiedete l’impossibile, si diceva in quegli anni. Ma il sole di quell’alba non sorse all’orizzonte, offuscato dai gas venefici dei candelotti sparati ad altezza d’uomo dalla repressione dei servi di stato in divisa e il sogno dell’impossibile non si trasformò mai in realtà. Di quei tempi lontani la professoressa Giuliani conservava nel cuore i ricordi e nel naso l’odore acre dei lacrimogeni. Era quella la sua personale madeleine.

Al potere la professoressa Giuliani opponeva il libero pensiero, non asservito al bastone del padrone, e la libertà individuale, non piegata ai voleri della massa. Il che non significava l’anarchia senza regole ma il percorso esistenziale dell’uomo razionale, pervaso da un profondo senso della giustizia e guidato in ogni azione dai principi della morale.

Concetti astrusi, che forse nessuno sarebbe stato in grado di capire fino in fondo. Per questo motivo quasi tutto il paese si era fatto l’idea che la professoressa Giuliani fosse semplicemente troppo vecchia per pensare ai piaceri e poiché le rimanevano solo i doveri, su quelli si impuntava.

“E poi, Tilde, la vera Festa del Soccorso è quella della domenica. Solo la domenica sfilano tutte le statue: quelle dei quattro angeli, della Madonna, di San Severo e di San Severino. Solo la domenica arrivano in pompa magna tutte le autorità, civili e religiose: vescovo, sindaco, prefetto e l’intera compagnia incensiera e turiferaria. È quella la vera processione, con i lenzuoli al vento, stendardi, gonfaloni, baldacchino, mozzette e doppia banda musicale… come se non ne bastasse una! Il lunedì gli angeli spariscono, ritornano in cielo, e spariscono pure le autorità; pupi e pupari con i loro pennacchi d’occasione tornano a sedersi sui loro scranni di cartapesta. Alla città rimane solo la statua della Madonna e quelle dei due Severi, il grande e il piccolo. Loro non hanno le ali come gli angeli e non hanno le gambe come le nostre umane eccellenze, così dobbiamo riportarli a casa noi: la Madonna al Santuario, San Severo in chiesa e San Severino nella cattedrale. Insomma, il lunedì è come mettere la macchina in garage dopo la gita fuori porta della domenica. La festa è finita e sono tutti un po’ tristi. Non ci sarebbe alcun motivo di festeggiare ma siccome i nostri bifolchi sanseveresi non hanno nessuna voglia di tornare a faticare, anche il rientro in garage diventa un pretesto buono per tenersi lontani dal dovere e continuare la cagnara. Ma noi non siamo come i bifolchi nostri concittadini, vero Tilde? e perciò ti aspetto lunedì alle quattro, come al solito. E finiremo alle cinque, più o meno, come al solito”.

Alle cinque però non avevano ancora finito. Quel giorno, forse per il desiderio di terminare in fretta la lezione e correre in strada, forse per la stizza di essere costretta a studiare mentre tutti gli altri facevano festa, forse per la distrazione che le provocava lo scorrere rumoroso del fiume umano sotto il balcone sta di fatto che la scala di do in moto parallelo proprio non c’era verso che le riuscisse. L’ultima nota che le usciva dal pianoforte era debole e asfittica, come il respiro rauco di un malato; e così doveva ricominciare da capo.

La professoressa Giuliani non era tipo da lasciare le cose a metà. Ecco perché ripeteva sempre che la lezione sarebbe terminata, più o meno, alle cinque. L’inizio, quello sì, era certo ma la fine era puramente indicativa e quel “più o meno” poteva allungarsi di un’ora e anche più, cioè di tutto il tempo necessario a terminare bene il lavoro iniziato.

“L’impazienza ti brucia le dita. Sintonizza le tue emozioni sulla tastiera Tilde. Ascolta la musica, non pensare alla marmaglia qui sotto. Tanto lo sai che non ti faccio andare via finché non abbiamo finito”.

Era riuscita a sfilarsi dalla presa della Giuliani che erano le cinque e mezza, troppo tardi per intercettare il passaggio della Madonna. La corsa con ancora in testa la scala di do e quella maledettissima ultima nota che, come supremo sberleffo, continuava a risuonarle nella mente ancora rotta e sfiatata le avevano fatto raggiungere solo la coda della processione; la Madonna era di spalle, ormai lontana.

Invece della Madonna,Tilde quel pomeriggio si trovò vicino Gaspare Nardella.

Se si fosse potuto rendere carne e sangue quello che intendeva la professoressa Giuliani quando parlava di marmaglia crapulona, quello che sarebbe venuto fuori sarebbe stato proprio lui.

Gaspare Nardella era un bullo di strada, un perdigiorno senza arte né parte. Passava le sue giornate sdraiato sul flipper del bar Zucca e aspettava l’arrivo di qualche disgraziato come lui per sedersi al tavolo delle carte, davanti a bottiglie di birra che si svuotavano in fretta.

Campava da parassita con la pensione da mezzadri dei genitori e di lavorare non voleva nemmeno sentir parlare.

“Non è colpa mia se di lavoro a San Severo non ce n’è”, rispondeva quando i suoi poveri vecchi, sempre più raramente e sempre più debolmente, gli chiedevano conto del suo ciondolare.

Nei momenti vuoti tra il flipper e le carte si dava alla lettura della Gazzetta dello Sport e, tastandone la consistenza, alla verifica del suo apparato muscolare, reso lustro dal passaggio trisettimanale alla palestra Body Line.

Per ogni volere o disvolere, per esaudire i suoi desideri o negare quelli altrui riteneva più che sufficiente la sua forza fisica, non serviva altro.

Nessuno avrebbe avuto il coraggio di dirgli di no, maschio o femmina che fosse: e comunque un no non l’avrebbe fermato perché se una cosa gli piaceva se la sarebbe presa comunque, anche con le cattive.

E adesso gli piaceva Tilde Lombardi.

Lei passava davanti alla vetrina del bar Zucca alle quattro meno un quarto di ogni lunedì e mercoledì per andare dalla professoressa Giuliani.

Gaspare Nardella, seduto al tavolo, la faccia rivolta verso la strada, ogni lunedì e mercoledì alle quattro meno un quarto sollevava gli occhi dalle carte; sapeva che l’avrebbe trovata lì, ad attraversare la vetrina del bar.

Come davanti a uno schermo cinematografico Gaspare Nardella si gustava lo spettacolo. Un paio di metri di elastico incedere, l’altera elevazione del busto quasi necessario bilanciamento al pesante turgore del seno, il purissimo profilo di dea greca e già i lunghi capelli neri di Tilde sparivano alla sua vista. Così finiva il film, ogni volta pochi ma intensi fotogrammi.

Alle quattro meno venti di un mercoledì qualunque Nardella decise di posare le carte sul tavolo, alzarsi, uscire dal bar Zucca e,non più spettatore, diventare protagonista del film andando ad aspettarla all’angolo della strada. Balbettò qualcosa, si balbetta sempre in questi casi, anche se sei un bullo di strada e hai i muscoli tirati a lucido dalla Body Line.

Tilde non lo degnò nemmeno di uno sguardo.

Gaspare Nardella rimuginò parecchie notti su quel no così plateale e perfino umiliante. Ci provò di nuovo, la seguì fino a scuola, l’attese sotto il portone di casa, le parlò, le chiese un appuntamento; non ottenne mai nulla, se non qualche parola di educata accondiscendenza e i saluti, che non si negano a nessuno.

Ormai nemmeno la Gazzetta dello Sport, le carte e gli esercizi in palestra riuscivano a distoglierlo dal pensiero di Tilde, un pensiero che era già ossessione. Perché più lo respingeva più lui si avvicinava, più lo rifiutava e più il rovello premeva nella testa. Quella ragazza doveva essere sua, e lo sarebbe stata, a qualunque costo.

Così quando la vide arrivare trafelata al fondo della processione pensò a qualcosa di soprannaturale e si convinse che quello era il giorno deciso dal destino.

E all’ultima curva prima di arrivare al piazzale del Santuario, Gaspare Nardella spinse Tilde dentro il portone aperto di una casa e lasciò che le ultime file della processione girassero l’angolo e si allontanassero.

Poi con tutto il peso del corpo la schiacciò contro il muro mentre le sue mani iniziarono a brancicare furiosamente i seni e le gambe sotto la gonna.

La bocca alitava di birra. Tilde ne sentì distintamente l’orrido fetore quando tentò di baciarla.

In quel momento scoppiarono i fuochi d’artificio e fu una ritmica squassante successione di botti accompagnati dagli strappi di bengala e mortaretti.

Tilde sotto la gonna sentì gli artigli strappare il tessuto. Le esplosioni, sempre più veloci e sempre più forti, sovrastarono il suo belare impaurito di agnello sgozzato.

Sul suo viso strisciarono disgustose leccate di bava mentre nelle orecchie sentì crescere l’ansimare strozzato della bestia.

Nessuno udì il suo grido di aiuto, nessuno udì il suo grido di dolore.

Si ritrovò distesa ai piedi del muro, come uno straccio buttato per terra e lì abbandonato, storta e piegata, con un rivolo di sangue che correva lungo la coscia e un male che si allargava in ogni parte del corpo.

In quel momento salì al cielo l’ultima grande detonazione. Era finita la Festa del Soccorso.

Adesso qualcuno l’avrebbe sentita, se avesse urlato; ma non aveva più forza né fiato, nemmeno per respirare.

Tilde non disse nulla. Non ai genitori, non alla professoressa Giuliani, nemmeno a Mariastella, la sua amica di sempre, a lei che aveva confidato ogni trepidazione.

Tantomeno ai carabinieri. Avrebbe dovuto raccontare il fatto prima al brigadiere della caserma poi al comandante poi al pubblico ministero poi al giudice e agli avvocati e ai giornalisti; allora lei cosa ha fatto, lei cosa ha detto e lui allora a quel punto e poi da capo; le indagini, il processo, l’appello e poi ancora, ancora, ancora in una interminabile sequenza circolare che non avrebbe mai avuto fine.

Quante volte avrebbe dovuto rivivere il suo strazio. Con l’aggiunta di illazioni, mezze voci, sospetti e infamie... chissà come sono andate veramente le cose… l’acqua cheta rompe i ponti… secondo me se l’è cercata… forse era consenziente… magari le è pure piaciuto.

Nessuno aveva sentito, nessuno aveva visto, nemmeno la Vergine, che era di spalle, lontana e se ne stava andando per i fatti suoi.

Non andò nemmeno in ospedale. Non voleva mostrare a nessuno il suo corpo violato, non voleva farsi vedere nella sua fragile, esposta, frantumata nudità. Non voleva visite e perizie.

E tutto perché poi. Per permettere alla giustizia umana, quella in tocco e toga, di avventarsi su Gaspare Nardella, carne già avariata? Arriverà prima di quella istituzionale un’altra giustizia, diversa ma sempre umana, a chiedergli il conto delle sue azioni e Gaspare Nardella sconterà i suoi peccati davanti alla canna di una pistola o sotto le bastonate di un altro malacarne come lui.

E comunque il suo destino, dietro i muri ammuffiti di una prigione o sotto la pietra di una tomba, poco importava a Tilde Lombardi.

Per lei nulla sarebbe cambiato. Nulla sarebbe più stato come prima. Nessuno le avrebbe restituito la purezza della sua anima, il ruscello trasparente dei suoi pensieri, il suo domani, le attese, i sogni, le sue speranze.

La sua stessa vita aveva perso ogni valore. Da quel giorno era diventata una piaga sanguinante.

Si tenne tutto dentro. Riprese i suoi impegni, anche le lezioni di pianoforte della professoressa Giuliani. E non cambiò strada.

Alle quattro meno un quarto di ogni lunedì e mercoledì il suo profilo continuava ad attraversare la vetrina del bar Zucca ma Gaspare Nardella non alzava più gli occhi dalle carte.

Non che si vergognasse, o avesse paura, semplicemente si era tolto lo sfizio; aveva assaggiato il dolce e se ne era tolto il gusto. Quella carne già brancicata non lo ingolosiva più.

Per Tilde ricominciare dalle proprie abitudini non era un tentativo di riprendersi la vita. Non era per sé che lo faceva, chi è sceso all’inferno non può più tornare sulla terra; lo faceva per gli altri, perché a nessuno potesse venire qualche sospetto.

Di nuovo c’era che cominciò a tirare con l’arco. La decisione aveva suscitato qualche commento stupito per l’originalità della scelta ma in fondo non più di tanto. Di Tilde si conoscevano l’intelligenza e la profondità del sentire, si sapeva che era una ragazza speciale e quindi a ben riflettere anche nello sport non poteva che orientarsi verso una disciplina non convenzionale.

Del resto anche la scelta di studiare il pianoforte non poteva dirsi del tutto normale. Non è che a tutti i ragazzi viene voglia di alzarsi a quel livello. Se proprio ti piace la musica al massimo vai a comprarti una chitarra, ecco, non ti viene in mente Chopin.

Ma Tilde era la prima, lei era sempre stata la migliore. Le cose difficili non la spaventavano anzi le lanciavano una sfida che ogni volta era felice di raccogliere. Era così che voleva vivere, al di sopra della mediocrità, misurandosi con avversari degni della sua forza. In fondo il tiro con l’arco era proprio la disciplina giusta per lei, la scelta che più la qualificava.

Così, insieme alle lezioni di musica, Tilde aggiunse l’impegno al campo di tiro.

I negozi di articoli sportivi di San Severo non avevano l’attrezzatura necessaria. Tilde aspettò che arrivasse da Foggia e poi la comprò in blocco: la protezione per il braccio, quella per le dita, l’arco, le frecce, la faretra.

Passarono dei mesi prima di imbracciare l’arco: bisognava prima mettersi in forma.

Pochi lo direbbero ma a un arciere occorre una intensa preparazione atletica per essere in grado di tenere a lungo una postura immobile, sostenere l’arco e assorbire il colpo della freccia.

Tilde fece tutto quello che le disse il maestro Venturi, senza fiatare, precisa, ostinata. Doveva imparare in fretta, non aveva molto tempo.

Era marzo quando si presentò sulla linea di tiro per scoccare la prima freccia. C’era il sole e una leggera brezza le alzava i capelli.

Dopo aver incoccato la freccia portò le braccia all’altezza delle spalle, il braccio teso in avanti, l’altro flesso per tirare la corda all’indietro secondo la meccanica imparata in quei mesi.

La freccia partì lasciandole nelle orecchie il ronzio della vibrazione.

Il paglione era posto ad appena quindici metri: non riuscì nemmeno a colpirlo.

Mariastella, come al solito, la volle seguire anche al campo di tiro.

Tilde per lei era un modello, un esempio da seguire; per questo voleva fare tutto quello che faceva lei. Tentava di imitarla, ma senza alcuna invidia, semmai con un’affettuosa e sconfinata ammirazione. Sapeva di non avere il talento di Tilde ma voleva starle accanto per diventare una persona migliore; era convinta che qualche raggio della sua luce avrebbe illuminato anche lei.

Erano compagne di banco, lo erano state fin dalla prima elementare. Come se si fossero date un appuntamento segreto quella lontana mattina si ritrovarono sedute spalla a spalla.

Non si parlarono per tutta la lezione ma era solo l’emozione e la paura di trovarsi per la prima volta in un luogo che non era la loro casa e davanti ad un adulto che non era la mamma; all’epoca non si usava mandare i figli all’asilo.

Fu solo al campanello delle dodici, in piedi, mentre infilavano il quaderno nella cartella che si scambiarono le prime parole.

“Come ti chiami?”

“Tilde”.

“Vuoi dire Matilde?”

“No, Tilde e basta. E tu?”

“Mariastella, ma è troppo lungo. Puoi chiamarmi Ma”.

e si strinsero le mani in un nodo che non si era mai più allentato anzi si era fatto più stretto con il passare degli anni.

Per quella prima volta fu tutto. Scapparono in fretta dall’aula tanto era il desiderio di riabbracciare la propria mamma in attesa fuori dal cancello della scuola dopo l’eternità di quelle poche ore.

Da quella mattina divennero inseparabili. Dove c’era l’una c’era l’altra, come un corpo e la sua ombra, come il pane e la mollica.

Ci scherzavano un po’ su.

“Solo con me sei completa Tilde”.

“Non sapevo che mi mancasse un pezzo”.

“Ti manca, ti manca. Lo sai che ti manca”.

“E cosa mi mancherebbe di grazia?”

“Ti manca un pezzo di nome. Ti manca il Ma per fare Matilde. Tilde non esiste sul calendario. Tu senza di me non esisti. Io sono Ma, sono ciò che ti manca. Però lo puoi ritrovare solo quando siamo insieme. Quindi se non vuoi scomparire nel nulla mi dovrai sempre essere amica”.

Forse erano davvero diventate una persona sola. Quando per caso gli amici incontravano l’una senza l’altra rimanevano un po’ interdetti, tanto abituale era diventato il vederle assieme. Tutti ormai le consideravano una sola entità e quando qualcuno chiedeva “Dov’è finita Matilde? Andate a chiamare Matilde”, bisognava andare a cercare Tilde e Mariastella, tanto le avrebbero trovate insieme.

Naturalmente si frequentavano anche dopo la scuola. Da bambine adoravano le favole; se le leggevano a voce alta. La loro preferita era quella di Biancaneve ma non sospiravano per il principe; tanto, dicevano, un principe non passa per San Severo, vive nelle città, quelle importanti.

Era la presenza dei sette nani che ai loro occhi rendeva bella quella favola. Come si divertivano a leggere quei nomi strambi e poi, di nascosto, l’indomani a scuola, sussurrarsi all’orecchio, ridendo, il nome di chi, tra i compagni, poteva essere Mammolo, Eolo, Gongolo e così via.

“Guarda Ma, guarda le orecchie di Mastrone. Non sono orecchie, sono due padelle. A lui facciamo fare Cucciolo”.

“Guarda Villani, il secchione; primo banco e occhiali. Lui è sicuramente Dotto, eh, che ne dici Tilde”.

Anche l’insegnante le aiutava nella loro ricerca. “Princigallo non dormire sul banco. La lezione è cominciata da un bel po’”.

E loro, insieme, ridendo: “Ecco, abbiamo trovato Pisolo!”

Erano andate avanti così, gomito a gomito, elementari, scuole medie. E anche ora che si trovavano all’istituto industriale Alessandro Minuziano, sebbene avessero smesso da un pezzo di leggere le favole, erano rimaste legate a quella loro abitudine di individuare i sette nani tra i nuovi compagni così da poter continuare ad usare il loro frasario segreto.

Anche la scelta di quella scuola era stata di Tilde, che si era invaghita della chimica; come al solito Mariastella l’aveva seguita.

L’idea di penetrare il mistero della materia l’aveva affascinata. Nel modo in cui le sostanze si attraggono o si respingono ritrovava lo stesso enigma per il quale gli esseri umani si cercano e si allontanano, si ritrovano e si perdono.

Nel separare molecole o introdurne di nuove per dare la vita o toglierla provava l’ebbrezza incantata del creatore.

Così almeno quando la passione, il futuro, la vita erano parole che per lei avevano ancora un senso.

Tilde poteva ingannare tutti, perfino i suoi genitori, ma non Mariastella.

Lei riconosceva anche i suoi respiri e aveva intuito che qualcosa di grave e irreparabile doveva essere accaduto alla sua amica.

Tilde cercava di apparire la stessa di sempre ma la luce, quella che la rendeva unica, quella che aveva sempre visto nei suoi occhi e illuminava le sue parole e ogni gesto, quella non la ritrovava più in lei. Tilde si era spenta.

E anche quell’ultima idea, il tiro con l’arco, era cenere fredda; non era accompagnata dal calore di una vera passione. Dai movimenti di Tilde sul campo di tiro, meccanici come le sequenze di un automa, era evidente come non ci fosse in lei alcun entusiasmo. Non era funzionale alla vita

quello che stava facendo. Non era vita quello scrupoloso tecnicismo, quell’affaccendarsi senza sorrisi. Ma perché Tilde lo stesse facendo non riusciva ad immaginarlo nessuno, nemmeno Mariastella.

La prima freccia che centrò il paglione si conficcò nel cerchio bianco, quello da uno/due punti ma fu solo una questione di fortuna. Il fatto è che non riusciva a rilassarsi completamente; se rilassava le braccia sentiva irrigidirsi le gambe e viceversa.

Era una questione di respirazione, tutto dipendeva da quello. Doveva imparare a respirare: riempirsi d’aria e poi svuotarsi.

Imparato quello, tendere la corda, adesso così dura e refrattaria ad ogni sollecitazione, sarebbe diventato facile e leggero come sollevare un bicchiere.

La freccia di Tilde partiva solo per stanchezza. Non al momento giusto ma semplicemente quando i suoi muscoli non erano più in grado di sostenere lo sforzo della posizione.

Invece la freccia deve staccarsi da sola; come il petalo dal fiore, come il frutto maturo dall’albero, come la neve che cade da una foglia, delicatamente, senza sforzo, ed esattamente in quel momento, né prima né dopo.

E non occorre la volontà di tirare perché tutto avviene senza intenzione, nel momento stesso in cui la tensione ha naturalmente toccato il suo limite.

L’io a quel punto si è annullato per diventare puro spirito, energia primigenia concentrata su quella corda tesa.

Solo quando si è raggiunto quello stato si scocca la freccia perfetta, quella che consente allo spirito dell’arciere di volare per l’eternità.

Tilde cercava quello stato per staccarsi anche lei dalla vita come un petalo, come neve, come frutto maturo, dolcemente e senza sforzo.

Ecco a cosa serviva il tiro con l’arco: le serviva per prepararsi al suo viaggio. Non era funzionale alla vita: era funzionale alla morte.

Se Mariastella avesse saputo… ma nessuno poteva immaginare una simile vertigine buia, tantomeno lei che dell’amica aveva conosciuto solo la luce e il calore.

Ma Tilde non ce la faceva più; voleva scoccare la sua freccia perfetta e annullarsi nell’eternità perché il tempo era diventato per lei solo dolore, attaccato per sempre al respiro e ai pensieri.

Lei si sentiva frantumata, incapace di tenere attaccati i suoi pezzi.

Quell’alito mefitico di birra le era rimasto incollato alla faccia, si sentiva ancora sulla pelle quei miasmi putridi, si sentiva ancora sulle gambe quelle mani brancicanti. Si sentiva addosso qualcosa di viscido che non riusciva a mandare via, un unto incancellabile che sporcava tutto ciò che toccava, tutto ciò che faceva.

La vita di Tilde era diventata un torrente insanguinato.

Quando il dolore si attacca alla vita allora si placa solo con la morte. C’è un dolore che l’uomo non riesce ad uccidere, un dolore che si può cancellare solo dandosi la morte, che pure atterrisce.

Il tiro con l’arco l’avrebbe aiutata a superare quella paura; c’era solo da attraversare quella terra di nessuno e poi sarebbe arrivata nella luce sulla punta di una freccia.

A gennaio Tilde colpì il cerchio nero, quello dei tre/quattro punti. La sua tecnica migliorava. Sicuramente la presenza di Mariastella accanto a lei aveva contribuito al raggiungimento di quei progressi.

Se lei era al suo fianco tutto le appariva più familiare e la terra di nessuno nella quale si stava aggirando non le sembrava più un orrido deserto di ghiaccio.

La freccia perfetta Tilde Lombardi la scagliò a maggio.

Era passato un anno ed erano di nuovo i giorni della Festa del Soccorso.

Quell’anno l’assessore Pisano aveva inserito tra i programmi dei festeggiamenti una gara di tiro con l’arco a cui i giornali locali avevano dato grande risalto.

La gara si sarebbe articolata in due volée di prova, non valide ai fini del punteggio, e cinque di gara. Il regolamento era preciso. Al primo fischio del direttore di gara gli arcieri si sarebbero posizionati sulla linea di tiro e al secondo avrebbero cominciato a tirare. Ogni volee prevedeva tre frecce da lanciare nel tempo massimo di tre minuti.

Al termine dei tiri l’arciere avrebbe deposto l’arco e si sarebbe portato sul bersaglio per rilevare i propri punteggi dichiarandoli a voce alta, partendo dal più alto, ad un marcatore designato dall’organizzazione.

L’ultima volée vide Tilde e Mariastella appaiate in testa. Ancora una volta insieme, ancora una volta vicine e sorridenti.

Tilde scoccò la prima delle sue tre frecce, che si conficco nel cerchio azzurro, quello dei sei punti; poi scoccò la seconda, che finì nel cerchio rosso: otto punti.

Infine lasciò partire l’ultima, la freccia perfetta, quella attesa per un lungo doloroso anno.

Si staccò da sé dolcemente, senza nessuno sforzo; come petalo, come neve, come frutto maturo. Tilde non aveva nemmeno mirato il bersaglio, aveva gli occhi chiusi, era assorta ma rilassata; la corda ad un certo punto, da sola, senza l’imposizione di alcuna volontà, aveva liberato la sua energia.

Tilde, sollevata da ogni peso umano, viaggiò con la freccia fino al cerchio giallo dei dieci punti. Da lì la sua anima si espanse nel cosmo infinito, nell’eternità del tempo e dello spazio. I cerchi concentrici del bersaglio erano diventati la rotta circolare delle costellazioni.

L’ultima freccia aveva decretato la vittoria di Tilde. Mariastella si era fermata a ventitré punti.

Ma di fronte al paglione, alla conta delle frecce, Tilde dichiarò a voce alta: “Punti ventidue”. Di punti invece ne aveva fatti ventiquattro.

Quando abbracciò Mariastella stringendola forte a sé e si congratulò con lei per la bella vittoria pensò che quello fosse il modo più bello per salutarla e dirle grazie per l’amore che le aveva donato.

Poi ritornò a casa, proprio mentre la Madonna del Soccorso, addobbata per la festa, usciva dal Santuario per dare inizio alla processione.

Aveva preparato tutto.

La pasta per argentare l’aveva comprata in una ferramenta del centro, una confezione di Silverstar Magico Argento. Basta strofinare gli oggetti di metallo, vasi, vassoi, monili con un panno impregnato di quella sostanza per ricoprirli di un velo di argento puro.

Ma in tutti i processi di argentatura per strofinamento, la pasta che si usa contiene cianuro.

Tilde lo sapeva. Lo sapeva dal tempo in cui a scuola, nel laboratorio di chimica, aveva fatto un piccolo esperimento di argentatura galvanica.

Tirò fuori la mela dal frigo e cominciò a lucidarla con un tovagliolo reso umido da quella pasta.

Anche la strega cattiva aveva lucidato bene la sua mela prima di bussare alla porta di Biancaneve.

Chissà che bel teatrino avrebbero potuto combinare lei e Mariastella con la mela che cominciava ad argentarsi nelle sue mani. Avrebbero potuto richiamare i sette nani: Mastrone, Villani, Princigallo e tutti gli altri. A chi avrebbero affidato la parte della strega? Ma sì, alla professoressa Giuliani, tanto era solo un gioco, sai le risate.

Aveva finito. Lo strato d’argento si era depositato su tutta la superficie del frutto.

Adesso era lì, sul tavolo della cucina, la sua bella mela d’argento.

La prese, se la mise in tasca e corse in strada ad attendere il passaggio della Madonna. Quando le passò vicino le baciò un lembo della veste.

Poi prese la mela e la accostò alla bocca. La morse appena, sicura che questa volta la Madonna non le avrebbe più voltato le spalle ma avrebbe aperto le braccia per accoglierla nel suo grembo di gioia e di luce.

 

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