La fontana
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La fontana

La stava aspettando, seduto sul bordo della fontana di cemento incastrata nella curva della via, nei suoi bermuda verdi e una maglietta chiazzata di malta.

«Da quando in qua porti gli occhiali?» gli chiese a bruciapelo.

«Da quando ho cominciato a stagionare».

«Intendi per caso invecchiare?».

«No. Ho deciso di vedermi come un formaggio che migliora col tempo».

«E perché non il vino, scusa? Puzzi?».

«Sempre una buona parola. Te gli occhiali ti hanno salvata perché non ti ho mai potuto dare una botta in testa di quelle serie».

«Sì, grazie tante, in compenso mi tiravi i calci. Senti invece, andiamo al torrente?».

«Sì dai, magari dopo facciamo un salto al bar, oggi ci si trova con i coscritti».

Sabrina non rispose. Andare al bar, sempre al bar, ogni volta sempre lo stesso posto, pure il tavolino, quello verde nell’angolo a sinistra sotto il quadro fatto dalla maestra Pia. D’altronde in paese c’era solo quello. Era tutto lì, intorno alla piazzetta come bambini intenti a far girare la trottola, il necessario per la sopravvivenza della popolazione autoctona: il bar, la farmacia, il macellaio con tendenze usuraie e il supermercato. Sul lato destro, lungo la strada che portava in valle, si vedeva il parco giochi, adesso, dopo la ristrutturazione, era diventato pure carino con le altalene verdi e lo scivolo rosso nuovi. Sabrina aveva ancora la cicatrice sul ginocchio di quando, all’asilo, era caduta di schianto sul ceppo del pino appena tagliato dalla cima della struttura di ferro. Da qualche mese poi era spuntata anche una pizzeria al taglio, fonte di grande sorpresa per tutti, di sospetto negli anziani e di sollievo per gli under sessanta.

«Ma poi da quando c’è quella fontana in cemento? È orrenda! Quella vecchia di pietra che fine ha fatto?».

Sabrina adorava quella fontana antica con il lato destro allungato e sbilenco, fatto per lavare i panni, le loro nonne invece ci pulivano i paioli di rame, era come un cimelio delle vite passate delle loro famiglie.

«Ah, non te l’hanno detto i tuoi? Il Severino, ubriaco marcio, tanto per cambiare, l’ha centrata in pieno con la Panda. Lui è finito all’ospedale con una gamba rotta e mezzo coma etilico, la macchina era da buttare, non che prima era nuova eh, e la fontana, pace all’anima sua, si era crepata in mezzo».

«Là dentro sei quasi annegato».

«Avevo deciso di impararci a nuotare».

«Con ottimi risultati. Sei stato fortunato che c’ero io a ripescarti».

Intanto con passo spedito passavano per le stradine dei masi. Metà dei muri, alcuni ancora a secco, pendevano in avanti. Il torrente con le sue cascate era ancora lì, come sempre. Il ponte, quello invece era nuovo, e anche le panchine ai lati. L’anno prima la forza dell’acqua, a causa della neve sciolta e delle continue piogge torrenziali, si era portata via quasi tutto. C’era voluta una piccola inondazione per far sì che si risanassero gli argini fino a quel momento lasciati a sé stessi.

Sabrina guardò Daniele seduto sul “suo sasso” a piedi scalzi nell’acqua gelida. Era come tornare indietro di vent’anni quando, scappando dalla corte e dalle nonne, correvano lì e tolti i grembiuli e rimasti in mutande giocavano ai pirati o costruivano dighe.

«Mi devi ancora una barca gialla».

«E che palle, di nuovo con questa storia?».

«Io non dimentico».

«Ma è stato un incidente, la corrente ha fatto un giro strano. Cosa volevi poi? Che saltavo giù dalla cascata come le trote?».

«Era il minimo».

Sabrina aveva smesso alle medie di correggere gli errori grammaticali dell’amico, suo padre le aveva fatto notare che non era gentile.

Nati a pochi mesi di differenza, erano stati l’uno l’ombra dell’altro. Da lui aveva imparato a fare a botte, a stanare i ghiri e a mettere i sassi nelle palle di neve. Avevano tredici anni quando, tornando da catechesi, Daniele aveva deciso che Sabrina avrebbe dovuto assolutamente sapere cosa fosse un pompino; cosa che le mostrò graficamente grazie alle pagine bisunte e stazzonate di un giornalino porno. Se li scambiavano nascosti dallo sgabuzzino di legno dietro al campo da calcio della chiesta, circospetti e sospettosi come i cacciatori di contrabbando che erano stati i loro bisnonni, quando da mangiare c’era solo la polenta.

Da parte sua aveva provato ad aiutarlo a scuola con i compiti, ma lui non aveva mai capito la sua sete di sapere, la sua fame di libri e di storie che non bastavano mai, come i grostoli che friggeva nonna per carnevale; lui preferiva le corse in bicicletta lanciato dal maso fino al bar in piazza, il trucco era di non frenare mai.

Da ragazzini, seduti sulla staccionata sbeccata e sbilenca vicino a casa, guardavano la luce dorata riflettersi sulle foglie dei meli e delle vigne del signor Aldo. Daniele era a casa, legato a quel luogo come le piante davanti a loro, in casa sua c’era nato il bisnonno. Sabrina invece si sentiva in gabbia. Lì, in fondo alla valle, passava il treno e il suo sferragliare lo sentivano persino da lassù, il rumore portato dal vento.

«Allora che mi racconti, studiata?» le chiese guardandola attraverso gli occhiali nuovi.

«Come saprai non ho ancora vinto il Nobel, a quanto pare non sono così intelligente. Comunque tutto a posto, di nuovo c’è che adesso sono andata a convivere col moroso».

«Il tedesco?».

«Svizzero».

«Sì, vabbè, uguale».

«Cosa dici? Sarebbe come dire che gli italiani sono come gli spagnoli. Te invece, hai finalmente una morosa? O ancora più di una?».

«Amiche».

Sabrina rise, muovendo i piedi tra i sassi viscidi e freschi del torrente.

«Sei sempre stato un Don Giovanni».

«Chi è questo?».

«Uno con tante donne. Cento in Francia, in Turchia novantuna, ma in Ispagna son già mille e tre. Dovresti ricordatelo, l’abbiamo ascoltato tutte le settimane per l’intera terza media, la professoressa era ossessionata da Mozart».

«Per fortuna ho dimenticato tutto. Tanto sono bello».

«E modesto soprattutto».

A tratti rimanevano a guardarsi, zitti, come a riprendersi le misure.

Era strana quella loro amicizia annacquata negli anni. Da piccoli così uniti, l’adolescenza invece li aveva separati. Da un giorno all’altro, nel giro di un’estate, Daniele aveva smesso di invitarla a fare un giro la sera in paese o nel cassone dell’Ape che aveva truccato. Se ne andava con gli altri compagni di scuola, lasciandola sola, messa da parte come una maglietta di una vecchia band di cui si vergognava.

Non era più Sabrina, “Sabri”, era diventata “quella studiata”.

Solo perché aveva scelto di non fare quello che facevano tutti: andare al liceo nel paese accanto e tornare a casa tutti insieme sulla corriera. Lei aveva deciso di svegliarsi all’alba, in inverno era ancora notte e le strade erano ghiacciate - più che arrivare ci scivolava alla fermata del bus - per andarsene fuori da quella valle, in città.

E poi… e poi se ne era andata definitivamente. Cambiare stato, cambiare lingua. Tagliare i fili e separarsi dal passato. O almeno ci aveva provato.

«Come mai sei tornata?».

«Solo per un fine settimana. Di più non reggo. Compleanno di mamma, adempio ai miei doveri di figlia».

«Non mi sembri tanto contenta».

«Dovresti saperlo meglio degli altri che non torno volentieri in questo postaccio. Lo faccio solo perché devo».

«Tanto sei via, chissenefrega. Mica sei obbligata».

«Da quando esistono i telefoni e whatsapp i doveri, le parole e soprattutto le recriminazioni genitoriali non conoscono confini».

«Bah, come vuoi. Sinceramente non ho mai capito cosa ti ha fatto di male il paese».

«Io invece non ho mai capito come fate te e tuo fratello a starci. O la Giulia o la Valentina».

«Gira e rigira sempre qua stiamo. A noi qua va bene e a te no. Dai che ho voglia di bermi una birra alla spina, andiamo al bar».

Era bello camminare lungo gli argini nell’erba alta. Il sentiero, sconosciuto quasi a tutti, lo avevano scoperto in seconda elementare durante quelle giornate estive che sembravano non finire mai. Portava in paese passando per i castagni secolari piantati per volere di Maria Teresa d’Austria per salvare i sudditi dalla fame; ogni famiglia aveva ricevuto un albero e le castagne li avevano salvati. Era una storia, questa, che conoscevano tutti; la sentivano raccontare dalle nonne quando si andava a cercare funghi per la polenta o il muschio per il presepe della Chiesa.

A un certo punto sulla destra, circondata dai faggi e i sassi di una vecchia mulattiera, c’era l’antica fonte termale ormai in rovina. Un noce era riuscito non si sa come a nascere al suo interno e ora i suoi rami spuntavano dal tetto sfondato. In teoria l’acqua doveva essere stata miracolosa, poi dopo un terremoto la fonte era scomparsa sottoterra e nessuno ne aveva saputo più niente. Per Sabrina un segno divino che nulla di buono poteva crescere e rimanere in quel paese.

Arrivati a quello che era il centro, una via di sanpietrini lunga trecento metri, passarono davanti alla biblioteca comunale. Chiusa. Era aperta solo la mattina perché le scuole ci portavano i bambini a prendere dei libriccini e a leggere delle fiabe. Di pomeriggio invece, apriva il martedì e il giovedì, dalle quindici alle diciassette. Leggere, da loro, non era mai stato una grande priorità. Era visto quasi come un lusso, qualcosa che potevano permettersi solo in pochi, quelli che avevano tempo da perdere, una roba da “studiati”. A sentire nonna, però, le cose stavano cambiando grazie agli sforzi di una giovane bibliotecaria.

Seduti ai tavolini di plastica verde bosco c’erano loro, i coscritti. Quelli che l’avevano fatta sentire sbagliata, strana, la sapientona, l’occhialuta.

Erano invecchiati, ormai adulti. Alcune delle compagne delle elementari erano con le carrozzine e tenevano piccoli mostriciattoli urlanti in braccio. Erano cambiati, come era cambiata lei. Ma le ferite erano ancora profonde.

Seduta su quella sedia sdrucita che le avrebbe sicuramente lasciato il segno sulle gambe, Sabrina li osservava distaccata come se fossero una delle sue cellule al microscopio.

Avevano scelto quella vita, quel luogo che sentivano come loro, a cui appartenevano. Lei no, aveva sempre voluto qualcosa di più, e finalmente dopo anni di ricerca lo aveva trovato, il suo posto. Era un appartamento di due stanze e un bagno, con una libreria, incurvata leggermente in alcuni punti, che straripava di romanzi e libri scientifici in italiano e tedesco. Era una piccola cucina con un tavolo dell’Ikea e delle calamite di musei e attrattive turistiche attaccate sul forno. Erano due braccia che la stringevano in un abbraccio, per la prima volta senza stritolarla.

Aveva trovato la sua casa.

Lontana da quel bar e da quelle montagne. E andava bene così.

Guardando Daniele negli occhi, marroni come la corteccia dei loro amati castagni, gli stessi che la guardavano dall’altro lato di una sabbiera e si rincorrevano con il triciclo, sorrise con in mano il suo bicchiere di cedrata: «Prost!».

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