Auto-cannibalismo cordiale (Teinei Jibungui)

Auto-cannibalismo cordiale (Teinei Jibungui)

Parlare oggi di 'Teinei Jibungui' significa innanzitutto parlare di una delle tendenze gastronomiche più rivoluzionarie (estreme?) degli ultimi anni (decenni?); di una deriva culinaria destinata a rifondare completamente e il nostro rapporto con l’alimentazione e quello con i nostri simili; non ultimo, di un'espressione gergale che, volta dal giapponese, ci significa 'cannibalismo di sé medesimi, ma cordiale'.

E pensare che non si conosce il nome di colui che per primo usò il flambage!
Lo stesso, pfiuf!, non vale per l'Argomentum Ingens di Queste Mie, che se no eran già bell'e terminate (e ricordo, in primis a me stesso, che vengo prezzolato a cartelle).
La storia delle Cucine Tradizionali, ne converremo tutti, è, in ultima analisi, la storia di “Cucine povere solo successivamente assurte ad Alto”, del manducàr pitocco che vien processato dall'estro (per caso?) di uno Chef, la Necessità, come mai se ne videro di più ristretti e austeri.
Ben diverso il discorso se materia della nostra indagine diventa il binomio Cibo/Opulenza. Ecco l'Istoria farsi più leccornievole, sfiziosa, ghiotta; ecco per esempio la creazione di ricette ad hoc, di piatti sgravati scientificamente dal genio di questo o quel gastronomo al solo scopo di omaggiare – un monarca? Una generica testa coronata, foss'anche l'ultimo dei valvassini? Più in generale, Chiunque Lo meritasse? Tra i tanti esempi che si potrebbero fare, a Noi piace ricordare il pargolo saccaroide di Auguste Escoffier: quella, cioè, Pesca Melba nata a cavallo dei secoli XIX e XX, così ribattezzata causa ammirazione che l’Imperatore dei Cuochi (Guglielmo II dixit) profondeva per la cantante d’opera Nellie Melba. (Errata corrige: (…) dal genio di questo o quel gastronomo al solo scopo di ARRUFFIANARSI UN PIACENTE SOPRANINO).
La nostra Cordialità autocannibalica va intesa come una perfetta sintesi tra la Necessità e Limitatezza-di-mezzi d’una cucina de’ poracci, e la sofisticheria pappatorio-devotionale di una high class culinaria.

Ultima precisazione: parlando dello 'Jibungui' il lettore non deve aspettarsi 'un piatto' in sé, una codificata ricettuola, come nemmanco una tecnica che fosse per la cottura o la conservazione: nein! È una filosofia circa il nutricarsi, un vero e proprio rito. Non a caso è stato concepito, spregnato e poppato in quel Giappone cerimonioso.

Teinei Jibungui:
L’anno è il 1987, il mese dicembre, il giorno il 7, l’ore 21. E 15'. La Signora Utakagwabe sta contemplando con non poca soddisfazione la tavola che ha appena finito di apparecchiare. Ogni dettaglio e/o utensile lascia trasparire la pazienza, classificata: certosina, con cui Ella ha provveduto all'imbandigione non della sola tavola, ma della casa tutta, con quel suo tinello, stanze, terrazzino, corridoio, cucina abitabile e angolo cottura. Per tacer della nettezza dei sanitari.

Sì, dovette convenire tra sé, tutto era pronto per accogliere a dovere l’Alto Funzionario & Gentile Signora invitati a cena dal sig. Utakagwabe allo scopo d’approfondire un’importante, e non meno delicatissima, questione d’affari. La Signora U. è perfettamente conscia che il consorte si sta giocando la carriera con questo simposio e ricorda altrettanto perfettamente d’avergli promesso che «(...) della cena me ne occuperò io, i tuoi ospiti rimarranno incantati, caro. Ora continua pure a falciare il prato...» (l'Utakagwabe stava in effetti facendo del giardinaggio).
Dunque “Bello”, quantomeno non in modo ortodosso, non dev’esserlo stato il momento in cui la Donna ha realizzato “di non aver preparato nulla” (sic.) per cena. Peggio ancora, di aver bellamente dimenticato (il motivo non ci compete) che era chiamata ad allestirne una.
Ce la immaginiamo correre in cucina, aprire il frigo e constatarlo spieno, il più spieno della storia dei frigidaire spieni (storia che prima o poi qualcuno dovrà pur scrivere, se non altro per tramandare l’aneddoto delle ghiacciaie allagate di Filippo IV il Bello e del Cortigiano sguerzo). Le dispense idem, cassetti, credenze – sarà forse superfluo – pure. Niente. “Fare spesa” e “Preparare cena”, rispettivamente al secondo e terzo posto delle “Cose cui ovviare pro Serata Funz. (Alto)”, si vedevano incompiute dalle fatiche della donna, che s’era annullata tutto il giorno per onorare il solo primiero, “Rendere casa impeccabile”.
Guarda l’orologio appeso al muro: le lancette stanno sforbiciando sempre più il già poco tempo a sua disposizione. È in questo preciso momento che ha quella che negli anni continuerà a ritenere – e la Storia oh se sta per darle ragione! – LA Grande Intuizione: preso un coltello atto alla sfilettatura, senza pensarci oltre, la signora Utakagwabe si taglia le cosce. Le affetta, le scarnifica, al punto da ricavarne quattro (una per) fettine di carne, alte abbastanza da saziare il languore medio d’un uomo adulto (NB: la Utakagwabe era quella che, senza tema di smentita, si può definire una donna proprio pingue).
Insensato (o simil.) è l’aggettivo che chiunque di noi riserverebbe a commento del gesto, ma questo sol perché non ci beò la provvida ideòla che mosse invece la Nostra nippóna: servire la sua stessa carne medesima. Come piatto di portata. Cioè, in mancanza d’altro, servirsi. Cosa non si fa, talvolta, per evitare le brutte figure.
Lungi dall’etichettarla (pazza? sanguinaria?) noi si parlerà della Utakagwabe come di una donna Risoluta e non meno Generosa.

Circa condimento e preparazione delle carni, l’aver dissotterrato da un remoto stipetto non più che un’abbondante presa di pepe di Cayenna e una bocciotta di maraschino in via d’estinzione non lasciava troppe alternative: scottati in padella rovente i tagli e sfumàtili col liquorino – quel q.b. per indorarne e incroccantire la cute – li adagiò sul piatto, epilogando il tutto con un delicato piovasco speziato (più vezzo che necessità).
Ma torniamo alle contingenze della Sanguinolenta. Se a cena fosse stato un membro al di sotto, se pur di poco, dell’Alta Funzionatura, la portata poteva dirsi più che sufficiente ma, considerando le aspettative del marito, come minimo un dessert doveva far capolino sul tramontare della libagione, a mo’ di chiusa, di raffinato fanalìn caudale.
Sentire le chiavi di casa del Marito trafficare alla porta d’ingresso, e le voci degli invitati saturare l’ambiente, era ormai questione di attimi. Ecco allora la Nostra afferrare nuovamente il marrancio ed asportarsi di netto gli absidali e capezzoluti seni. Delicati e bianchi, a prima vista si potevan facilmente scambiare per gustosi prodotti di pasticceria, soprattutto perché, così isolati, non trovando quindi senso nel Resto della Persona, erano orfani del cascame erotico o sfamìgero (se dispensa lattoidi) che la tetta (a seconda dell’età del fruente) generalmente porta seco.
L'immediata reclusione dentro al freezer, previa spolverata di zucchero a velo (nel mentre risorto dallo stesso provvidenziale stipetto), avrebbe provveduto a rendere il tutto degno d’un menù stellato.
Per chi se lo stesse domandando, sì: i seni della signora Utakagwabe non eran che due, ovviamente, a fronte dei quattro coperti di cui era provvista la tavola. Poco male. Lei, al momento della servita, avrebbe giurato d’esser bell'e sazia, addirittura prossima all’indigestione; d’accordo col marito avrebbero invece millantato “quel certo fastidioso diabete” che gli s’era intronato e poco (per non dire punto) tollerava gli inzuccherati. Se solo la matrigna natura l’avesse generata deforme, quadripopputa!, avrebbe potuto deliziare anche sé medesima e il consorte dei cariatali manicaretti (anche se, per contro, con poker di Mammella non avrebbe avuto vita facile tra i coetanei ai tempi dell’adolescenza: avrebbe conosciuto Ingiurie ed Esclusioni, il vedersi associata a difformità naturali... tutte cose che invece non ha mai, buon per lei, esperito in quanto comunissima bitettata, e protagonista d’una vita neanche malaccio).

Queste mie ultime righe han coinciso con l’arrivo e l’accoglienza degli ospiti, qualche convenevole pure. In questo momento, dopo un rapido tour decantante gli arredi e più in generale la casa tutta, li troviamo accomodati all’impeccabile desco: i piatti, bella mostra di sé, stanno per essere serviti... quando! la mente di colei che, occupando contemporaneamente un punto dello spazio con il grosso della sua persona e altri plurimi con tranci della medesima, avrebbe potuto scrivere pagine importanti circa la “Storia dell’Ubiquità d'aujourd’hui”, fu attraversata da un esemplare di pensiero del genere: catastroficus: Che n’è dell’entrée? Perdio se non si sarebbe fatta guardare dietro per uno sciacquadenti! Afferrare per la terza volta quel coltello e, senza pensarci oltre, sfilettarsi orecchie, naso, labbra, passarle volanti sulla padella ancora scotta, dunque guarnire tutto singolarmente con una canutiglia di capelli appoggiati a bella posta e un presa del Cayenna, fu l’affare d’un solo istante. Certo, le porzioni eran scarne, a dir ridotte, ma non per questo si scorò: è d'altronde noto che nelle mense palatine d’oggi i piatti saran pure sofisticati ed trescìcche, ma in quanto a satollarsi, si mangia poco od una cippa.
La signora Utakagwabe guardava quei piatti, ed era soddisfatta. Di più, felice. Era una cena onorevole, all’altezza di rango, ospiti e concioni da farsi.

Non metteremo in imbarazzo i quattro rimanendo a guardarli mentre mangiano, o peggio costringendoli a parlare a volume brillante durante la trangugianza pur d'udire! Ricordiamo, dei tutti, solo questi momenti sul saliente andante:
- La Moglie dell’Alto Funzionario giurò di non aver mai principiato meglio un pasto, deliziata oltremodo da quell’orecchia con dettaglio tricofilico. La Nostra Utakagwabe rispose con un sibillino “Il segreto è tutto nell'uso di uno certo shampoo all’essenza di ortiche che ho usato nel primo pomeriggio per frizionarmi capelli e cute...”.
- Al momento del congedo, in cui tanto il signor Utakagwabe mostravasi euforico dai successi ottenuti, quanto la Moglie iniziava a mostrare i primi segni di cedimento – vuoi per lo stress, vuoi per tutto quel sangue che continuava a perdere – il Funzionario, che più d’ogni altra cosa, la mammella 'nzuccarata aveva gradito, disse che: “La Signora è una cuoca sopraffina”. E per il fatto d’aver servito tagli, anche di pregio, del suo stesso carniccio era stata oltremodo... CORDIALE.
Ta-daaan!
Concetto che, tanto il ricordo della cena non accennava a svanire, l’Ospite ribadirà ancora sette anni più tardi dedicandogli un intero capitolo del suo libro di memorie, l’oltremodo celebre “Viste godute da Altitudini Funzionariali”, già caso editoriale in patria e nei 17 paesi del primo mondo in cui è stato tradotto: cavallo di Troia tramite cui la pratica che dà il titolo a Queste Mie venne rivelata alla ribalta internazionale.

A quasi cinque secoli dal “Galateo” di Quel monsignore, il mondo che suolsi considerare civilizzato ritrova il conforto 'de’ costumi', in questo caso a braccetto con certa antropofagia.
Oggi scuole di avviamento professionale per aspiranti chef, desiderosi di offrire la loro arte in unione alle loro polpe, si trovano in tutte le maggiori città. Negli ultimi anni il 'Tei.Jib.' ha visto inoltre l’eruzione, su tutte, di due principali correnti di pensiero, che improntano il loro lavoro verso mete tanto precise quanto opposte.
Abbiamo infatti la scuola “Centellineuse”, i cui membri appunto si centellinano, reputandosi cibo a tal punto prezioso e prelibato da economizzare le loro carni, così da saziare nel tempo quanti più clienti (maître à penser di riferimento lo Chef Felisberto Klapka, attualmente privo degli arti tutti, delle natiche e delle carni scapolari (ce n'ha sfamati 46 a tutt'oggi): ha fidati sottoposti cui continuerà ad impartire i tagli da praticare e le ricette da seguirsi). E la corrente antipoda, i “Ballestrerî”, che al contrario stima i propri adepti al punto unici ed esclusivi da doversi esaurire nell’arco di un solo pasto (convitati in numero corrivo alla stazza del cuoco). Ispiratore della corrente Collado Ballestrero jr., che si ricorda slurpato durante una cena Presidenziale (privata, dodici coperti), in cui riuscì a servire un menù comprendente di: antipasto, bis di primi, di secondi, contorno (un carpaccio di palmi di mano in pinzimonio d'agrumi di cui ancora si favoleggia) e dolce.

La caducità delle carriere di questi cuochi fa sì che il mercato ne richieda, esigente, sempre di più. Certo, i vivandieri grassi hanno più possibilità di perdurare nella loro personale ricerca culinaria, ma sbaglia chi la pensasse attività per i soli tripputi.

In conclusione, giova ricordare, che fulcro d’ogni menù deve essere la Cordialità: a dire, amputarsi e fare deliziosi intingoli di sé medesimi, sì, ma per compiacere e sfamare terzi. Urge specificarlo perché purtroppo negli ultimi, infausti, mesi assistiamo sempre di più alla nascita di storture, aberrazioni, gnagnerate gastronomiche, come la sciagurata “autofagìa”, ovvero l'automanducarsi, se vuoi self-trangugìo. Una società che invita al sé-ingerire, dimenticando i precetti di condivisione e filantropia, è una società di costumi rozzi ed individualista.
Le televisioni di almeno tre paesi europei (tra cui una repubblica baltica) sono già invase da spot promozionali circa il primo immancabile talent show per aspiranti cuochi cannibal-cordiali. Ricettari se ne trovano in ogni idioma, sia nel formato cartaceo che digitale.

Di seguito, pel lettore che volesse introdursi nel prelibato mondo del 'Teinei Jibungui', soprattutto se nell’impellenza di ospiti a cena e scarsezza di materie prime, si consigliano nr. 3 ricette in grado di difficoltà variabile.

Lombi alla Normanna: *
Scarnificarsi de’ lombi e mettere i tranciati di carne, tamponati del sangue sorgivo, in forno per minuti 20 su un letto di patate a rondelle, timo, sale grosso. Tolti dal calore, aggiungervi un’irrorata di riduzione di aceto balsamico. Servire accompagnato da un bricco di burro fuso.
NB: Carni indicate quelle di odontoiatri e campioni regionali di scacchi.

Natiche alla Cacciapuoti: **
Privarsi delle natiche e disporle in casseruola, la cui culatta sia stata precedentemente guarnita copiosamente di lardo a tocchetti, carote tagliate a guisa di zolfanelli, pomodori freschi e cipollotte novelle. Foglie di alloro se di gradimento. A metà cottura aggiungere 250 gr di champignons salati, lasciati una notte a riposare sepolti da more e altri frutti silvani, per quel ricercato retrogusto salvatico. Servire il tutto con una cremosa purea di sedanorapa.
Il nome da Mirra Cacciapuoti, che così scelse di servirsi alla cena atta al presentarsi ai suoi futuri suoceri.

Petto à la Mar dei Sargassi: ***
Amputarsi di tutta la carne, zona pettorica, di cui si dispone, avendo cura che il coltello arrivi a lambire proprio i costicci. Successivamente la carne andrà tagliata a sfilacci molto fini. Prima, lasciare spurgare per qualche minuto in acqua fredda miscelata a succo d’ananasso e lime. In disparte, mettere sul fuoco una padella, fuoco vivo, e lasciarvi sbollentare un mezzo litro di latte di cocco. Dunque abbassare la fiamma, aggiungere i tranci e lasciare che il tutto cuocia a fuoco lento. Rappreso che si sia il latte, togliere le carni dal fuoco e servire su un piatto di portata precedentemente riscaldato, cospargere con abbondanza di noce di cocco grattugiata e rondelle di platano.
NB: Per un godimento caraibico tout court, si consiglia maciullarsi a negri autoctoni.

Bon appétit!

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