Adelinda
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Adelinda

 

Senza di te, la casa non sembra tanto diversa. Il silenzio regna sovrano, esattamente come prima. Ma io lo sento, me ne accorgo: non ci sei più.

Da anni, ormai, te ne stavi sul tuo letto a fissare il vuoto. Il suono della tua voce è un lontano ricordo, come un tuo sorriso, come una tua risata. Anzi, quelle credo di non averle mai sentite. Non riesco a immaginarti mentre ti muovi nello spazio. Tu, la mia mamma, eri sempre e solo seduta su quel materasso scadente, che non doveva essere neanche troppo comodo. Tenevi lo sguardo perso nell’aria e le mani sulle ginocchia. Le spostavi solo quando entravo nella tua stanza: mi sfioravi la guancia, poi scendevi, verso il mio labbro. Lo toccavi con dolcezza: i tuoi polpastrelli lo percorrevano con amore, ma anche con timore; infine, ti fermavi sulla sua spezzatura.

Era l’unico contatto che avevamo. Non mi bastava. Te l’ho urlato molte volte: ti pregavo di essere una mamma normale, come tutte quelle che vedo in paese; te lo urlavo e ti scuotevo, prendendoti per le spalle: volevo una risposta. Me la dovevi. Ma ricambiavi con il silenzio e con una lacrima. Era sempre e solo una lacrima. Ti scendeva dall’occhio destro e cadeva dritta sulla tua gonna marrone sgualcita, bagnandola per qualche minuto.

È da quando ho memoria che in questa casa mi prendo cura di ogni cosa. Se non ci fossi stata io, tu saresti morta e non per una tua decisione, ma per la fame, per la sete, per il freddo. Sono stata costretta ad andare in città tutti i giorni, per procurarmi il cibo, l’acqua, la legna per il camino. Ma andare in paese non è piacevole: nessuno mi guarda in faccia. Osservano le mie scarpe, le mie mani, l’orlo della mia gonna. Mai il mio volto. Sai che nessuno conosce il mio nome? Non me l’hanno mai chiesto. Per loro sono solo “Labbro leporino”. Ma non li biasimo. Anche io, ogni volta che passo davanti a uno specchio, mi volto dall’altra parte. Non riesco a vedere il mio riflesso. Quando vedo il mio labbro mi viene da vomitare.

Stringo tra le mani la lettera che mi hai lasciato sul letto, l’ho trovata accanto al tuo corpo che penzolava senza vita. Non avevo mai pensato che potessi avere la forza di compiere un gesto del genere.

Come ogni mattina ero andata a sbrigare le mie solite commissioni: un po’ di elemosina fuori dalla chiesa; un po’ di razzia delle uova che avevano covato le galline della vicina; un po’ di saccheggio all’erba destinata agli animali della fattoria. Mischiato a quel latte che rubavo dalla mucca, costituiva uno dei pasti più nutrienti che riuscivo a procurarci. Tu, però, non lo apprezzavi molto. L’ultima tappa era sempre a casa del curato. Non mi piaceva andarci. Anzi, credo proprio che lo odiassi. Però se lo ascoltavo e facevo tutto ciò che chiedeva, mi dava una manciata di soldi. La quantità variava ogni giorno, dipendeva dalla mia bravura, mi diceva. Mi diceva anche che il mio viso non gli piaceva. E così me lo copriva con una delle sue vecchie tuniche.

Ero particolarmente felice quella mattina tornando a casa. Di solito dal mio lavoro di mendicante guadagnavo giusto cinque o sei monete. Roba di poco valore. Ma quel giorno, arrivai a dodici. Non riuscivo a crederci. Sommate a quelle che mi aveva dato il curato – ben dieci! dovevo essere stata proprio brava – erano una somma che da tempo non riuscivo a guadagnare.

La mia felicità durò un attimo. Vidi i tuoi piedi scalzi dondolare, sotto di loro, il vuoto.

Il mio cuore si spezzò in due, come il mio labbro. Lasciai cadere tutto ciò che tenevo in mano. Le uova si ruppero. Il mangime si sparse sul pavimento. Venni verso di te camminando piano. Avevo paura. Il tuo volto non si vedeva, era coperto dai capelli. Fortunatamente questi nascondevano anche il laccio che ti eri stretta introno al collo e che avevi legato a una trave del soffitto. Anche quando le guardie, che ero corsa a chiamare in città, tirarono giù il tuo corpo, non volli vedere il tuo viso.

Questi sono gli ultimi minuti che passo in questa casa. Il curato mi aspetta sulla soglia della porta. Si è offerto di prendersi cura di me fino a quando non sarò in grado di farlo da sola… in realtà lo faccio da quando sono nata, anche se lui, forse, non lo sa. Ho provato ad oppormi. Ma è il più autorevole in paese. Chi potrebbe mai dare retta a una bambina con la faccia deturpata di cui non si conosce neanche il vero nome? Non so se riuscirò a vivere con lui. Con la sua voglia del mio corpo e il suo disgusto per il mio viso. Mi costringerà a coprirlo in continuazione. Forse proverò a scappare, devo solo decidere in quale modo.

Con i polpastrelli percorro tutti i bordi del foglio che mi hai lasciato. È piegato a metà. Un po’ rovinato. Fuori hai scritto il mio nome. Adelinda. Lo leggo a voce alta: Adelinda. Lo ripeto, Adelinda. È davvero il mio nome? Non lo sentivo da così tanto tempo, che pensavo di averlo dimenticato.

È da un po’ che non leggo, non so se mi ricordo come si fa. I nipoti della vecchia megera, quella a cui rubo le uova, mi hanno dato lezioni private di lettura. Sono stati insegnanti eccezionali, e anche le uniche persone gentili con me. Non hanno voluto nulla in cambio. Riescono persino a guardarmi in faccia.

Il curato mi urla dalla porta che mi concede ancora cinque minuti, dopo i quali dovrò lasciare questa casa. Sono pronta a leggere le tue parole, quelle che per tutti questi anni mi hai negato.

 

Adelinda. Bambina mia.

Mi dispiace. Tu avevi bisogno di una madre. Me l’hai detto, me l’hai urlato. E io non ho saputo far niente. Non ho potuto far niente. Sentivo il tuo dolore, lo capivo, avrei voluto prendermelo tutto io. Ma dopo il tuo parto è nato in me un malessere, enorme, incontrollabile. Avrei voluto prendermi cura di te, ma questo mostro che ho dentro non me l’hai mai permesso. Non mi lascia parlare, non mi lascia ridere, non mi lascia muovere, non mi lascia essere la tua mamma.

Ogni giorno mi sveglio e spero che sia scomparso. Spero che mi abbia finalmente lasciata andare. E invece, è sempre qui, con me. Anzi, mi accorgo che mi ha legato più stretta a sé. Voglio ucciderlo. Devo ucciderlo. Ma se muore lui, muoio anche io.

Sono sicura che te la caverai benissimo senza di me, ancora meglio di quello che già fai. So che ne sei in grado.

Prima o poi, in un modo o nell’altro, ci riuniremo; le nostre vite si incroceranno di nuovo e quando succederà, te lo prometto, sarò la mamma che non hai mai avuto.

Mamma

 

Leggo e rileggo. Non riesco a smettere. Le mie lacrime bagnano così tanto la pagina che l’inchiostro inizia a cancellarsi. Se ho letto correttamente la tua lettera, se ho unito bene le sillabe e capito le tue parole, non eri tu a non volerti dedicare a me, ma il mostro che ti portavi dentro. Avrei voluto capirlo. Ora vorrei che tu fossi qui, accanto a me. Vorrei abbracciarti. Vorrei che le tue mani sfiorassero di nuovo la mia bocca. Il mio dolore. Da sola non riesco a conviverci. Non più.

Forse ho deciso come scappare. Dal curato e dal dolore. Hai ragione: ci riuniremo, ma prima di quanto ti immaginavi. Finalmente potrò essere tua figlia. E tu mia madre. Senza più nessun mostro a dividerci.

Aspettami. Ti raggiungerò, mamma.

 

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