Zeus, Augusto e la morte
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Zeus, Augusto e la morte

 

 

Fu Zeus a trovare il corpo: era riverso tra i sassi, sul greto del fiume in secca, portava un piccolo zaino e stringeva nella mano sinistra la tessera di un sindacato autonomo e un fazzoletto di carta stropicciato su cui sembrava ci fossero scritte delle operazioni di aritmetica.

Augusto guardò il corpo e poi guardò il cane: un pinscher marroncino che ti poteva far venire in mente qualsiasi cosa fuorché Giove pluvio... quel maledetto cane che non si faceva mai i fatti suoi! E sì che erano usciti apposta per fare una passeggiata rilassante… e infatti ecco il risultato!

Prese la rincorsa per assestargli una pedata nel sedere, ma il cane, che era sempre avanti tre mosse, saltò via come una molla. Per poco Augusto non cadde tra i sassi.

«Vieni qui, Zeus!», disse, «Vieni che non ti faccio niente...»

Il cane lo guardava tutto vispo, con la lingua a penzoloni.

«Il padrone vuole giocare, sì?», sembrava pensare, «Vuole giocare!... Dai, che vuole giocare!», e intanto saltellava intorno al cadavere, si acquattava tra un sasso e l’altro, poi si tirava su e scattava di nuovo.

«Bau!», abbaiò, «Bau! Bau!»

«No, Zeus», disse Augusto, «Non ho affatto voglia di giocare... non vedi che qui c’è un morto?»

Il cane guardò il corpo raddrizzando le orecchie e piegando un po’ la testa.

«Bau!», fece, «Bau! Bau! Bau!»

«Sì, Zeus», disse Augusto, «lo so anch’io che devo chiamare il 112... che credi, che sia scemo?... Lasciami almeno il tempo di prendere il telefono...»

Tirò fuori il cellulare dalla tasca e compose il numero.

Rispose subito un operatore: «Sono Matteo. Mi dica come posso aiutarla»

«Carabinieri?», chiese Augusto perplesso.

«No, questo è il numero unico per le emergenze», disse gentilmente l’operatore Matteo, «mi dica come si chiama, dove si trova, e mi descriva con calma cosa sta succedendo... se del caso, poi le passo io i carabinieri».

Era bravo, Matteo: sapeva trasmettere empatia, vigore e sicurezza e, soprattutto, era tollerante allo stress. Doveva esserlo. I chiamanti erano agitati già di loro. Non bisognava farsi prendere. Mantenere la lucidità! Questo l’imperativo. E la serenità d’animo! Fondamentale per essere rassicuranti nel momento dell’estremo bisogno che viveva chi era all’altro capo del telefono. Eppure, non era cosa da poco star lì a smistare tragedie. Bisognava essere veloci e precisi allo stesso tempo: l’incendio ai vigili del fuoco, il ferito grave all’ambulanza. Si sentiva, a volte, come un mazziere di blackjack, al casinò. Ma capitavano giornate nere, dense di catastrofi da far tremare i polsi, e non era facile distribuirle come se fossero un tre di quadri o una donna di fiori. Non era una passeggiata, no. Proprio per nulla. E quel giorno era davvero uno dei più neri.

«Ma non era il 118 il numero delle emergenze?», chiese Augusto con una punta polemica, «Il 112 è sempre stato il numero dei carabinieri... se continuate a cambiare non si capisce più niente!»

«Effettivamente una volta era così», disse il paziente operatore Matteo, «Adesso invece il 112 è il numero unico per tutte le emergenze...»

Era bravo, Matteo. Bravissimo e calmissimo! Sempre! Anche se era la millesima volta che ripeteva la stessa cosa! Non era facile, perché oltretutto c’erano anche i petulanti, oltre che gli ansiosi, o più semplicemente i tardi di comprendonio a cui dover spiegare le stesse cose dieci, cento volte, sempre in modo chiaro e rassicurante. C’erano momenti in cui risultava obbiettivamente difficile tenersi. Molto, molto difficile.

«Comunque non si preoccupi, signore...», continuò, «lei mi descriva con calma la situazione, poi se mai glieli passo io, i carabinieri... mi dice intanto il suo cognome e nome?»

«Ottaviani Augusto», fu la risposta.

E Matteo, che era bravo e paziente e tutto quel che si vuole, d’accordo, ma fino a un certo punto; l’imperturbabile Matteo, a cui gli studi classici avevano forgiato i padiglioni auricolari in modo da captare certi suoni e non altri, scambiata la vocale finale del cognome per “o”, anziché “i”, ebbene, a quel punto non si tenne più:

«Sì, vabbè... e io sono Giulio Cesare!», sbottò, perché va bene tutto, ma non i buontemponi che si divertono a fare gli scherzi al numero unico per le emergenze: dopo aver parlato con Napoleone il giorno avanti e con Garibaldi la settimana prima, oggi toccava al fondatore dell’Impero romano, figuriamoci!...

«Guardi che qui non abbiamo tempo di scherzare, ha capito?», alzò la voce, «in questo momento sta tenendo occupata una linea che può salvare la vita a qualcuno!...»

«Le assicuro che non sto scherzando affatto!», disse Augusto seccato, «Mi chiamo proprio così!... Lo so cos’ha capito, ma guardi che il mio cognome è Ottaviani, con la “i” finale, e ho trovato un cadavere, qui sul fiume... volevo segnalarlo ai carabinieri...»

«D’accordo, mi scusi», disse Matteo, il mortificato Matteo che si era sentito per una volta in diritto di uscire dai gangheri e proprio quella volta lo aveva fatto a sproposito, «Mi dice dove si trova?»

«Mi trovo a Greppia, e precisamente sul greto del fiume Verniolo, sotto il viadotto della superstrada», disse Augusto.

«È sicuro che il soggetto sia deceduto?», chiese Matteo, il povero Matteo a cui, in definitiva, non restava che questo per non farsi trascinare nelle disgrazie altrui: utilizzare termini neutri ed emotivamente poco coinvolgenti, se pur chiari e comprensibili a tutti.

«Il soggetto, dice?... deceduto?...», chiese Augusto con certo sarcasmo, «Ma sì!... Cosa vuol mai, siamo qui da qualche minuto e non si è ancora mosso, non respira... e poi ha gli occhi sbarrati, per la miseria!...»

«D’accordo, stia calmo, non si agiti... le passo subito i carabinieri», disse il bravo, il povero, l’esausto Matteo, il quale poté finalmente sbolognare la patata all’Arma.

Ad Augusto però toccò la seccatura di dover ripetere tutto da capo: cognome e nome, posizione... fattaccio!

«Se ho capito bene lei si trova nelle immediate vicinanze di questo corpo esanime, giusto?», gli chiese infine l’appuntato. Il milite non lo disse né per difendersi emotivamente, né per altro. La sua era solo abitudine: era l’obnubilante linguaggio comunemente in uso alla Benemerita.

«Corpo esanime, dice?... Ma sì! Sono proprio qui vicino!»

«Ecco, signor Ottaviano... si astenga da ogni forma di contatto!», si raccomandò l’appuntato, «E non permetta ad altri passanti di accostarvisi, ha capito?... Noi la raggiungeremo sul posto il prima possibile!»

Augusto si rimise in tasca il telefono.

«Signor Ottaviano, mi fa... andiamo bene!», disse al cane, «E non lasci avvicinare i passanti!... Ma quali?... A parte noi due, non c’è anima viva!»

Si sedette su un sasso più grosso degli altri ad aspettare. Il letto del fiume era asciutto, ma l’acqua si udiva comunque, lontana. Forse scorreva sotto, chissà. Per il resto, silenzio. Il viadotto era talmente alto che il rumore delle auto non si sentiva per nulla.

Guardò di nuovo il morto: era un uomo sui cinquant’anni, bianco, coi capelli brizzolati, sicuramente italiano. Non aveva tracce di ferite in nessuna parte del corpo. Indossava una felpa giallo ocra, un paio di pantaloni di una tuta e delle scarpe da ginnastica di una marca sconosciuta. Sulle spalle portava un piccolo zaino.

«Secondo te si è suicidato?», chiese Augusto al cane.

Il cane annusò l’aria in direzione del cadavere. «Bau!», fece, «Bau! Bau!»

«Hai ragione», disse Augusto, «se si fosse buttato dal viadotto si sarebbe sfracellato, invece guarda: neanche un graffio... Magari stava facendo una passeggiata come noi e si è sentito male… che so, un infarto…»

Augusto guardò ancora il corpo dell’uomo. Si alzò e cominciò a girargli intorno. Poi si chinò a guardare meglio cosa stringesse nella mano sinistra.

«Bau! Bau!», abbaiò Zeus con le orecchie dritte e gli occhi attenti, «Bau! Bau! Bau!»

«Lo so benissimo che non devo toccarlo, me l’hanno appena detto!», gli disse Augusto, «Ma qui non arriva nessuno e io mi rompo... fammi almeno cercare di capire!»

Si inginocchiò cercando di leggere meglio la tessera del sindacato e i numeri scritti sul fazzoletto che teneva nella mano.

«Sindacato autonomo... si legge solo questo», disse, «Non si riesce a capire sindacato di che cosa... non parliamo nemmeno di ciò che c’è scritto sul fazzolettino... sembra una somma, ma non si capisce... i numeri sono tutti sbavati...»

Ci pensò un po’ su, poi disse:

«Magari sono i conteggi per la pensione... è andato al sindacato a farseli fare... Se tanto mi dà tanto si è sentito male proprio per quello... Che schifo!... Ti fanno versare un sacco di soldi per una vita e poi nemmeno te la danno, la pensione... e se te la danno è una miseria!...»

«Bau! Bau!», fece il cane.

«Che vuol dire che io prendo già la pensione ed è pure buona?», disse Augusto, «Mi preoccupo per le generazioni future! che c’entra?... Ma che ne vuoi sapere tu!... Sai dire solo bau-bau... si fa presto a dire bau-bau...»

Poi si avvicinò al cane, che portava attaccato al collare un barattolino con i sacchetti per raccogliere gli escrementi: ne sfilò due e se li mise sulle mani a mo’ di guanti.

«Capita l’antifona?», disse rivolto a Zeus, «Non rompere!»

Si chinò sul corpo e aprì delicatamente una delle due cerniere che c’erano sullo zaino.

Il cane prese a saltellargli intorno: «Bau! Bau! Bau! Bau!»

«Non rompere, ti ho detto... ho messo anche i guanti... smettila!... Tanto lo faccio lo stesso...»

Sbirciò nella tasca dello zaino che aveva aperto. Riconobbe un cappellino con visiera, una bottiglietta d’acqua, un pacchetto di biscotti: niente di interessante. Allora richiuse delicatamente la cerniera e aprì con attenzione quella dell’altra tasca: lì c’era un libro. Lo estrasse con la massima cautela. Era “Colloqui con sé stesso” di Marco Aurelio. Vide che c’era un segnalibro e lo aprì in quel punto: un brano era sottolineato. Cominciò a leggerlo ad alta voce:

«Pensa continuamente a quanti medici...»

Si interruppe subito scuotendo la testa.

«Lo so, lo so», disse al cane, «Augusto che legge Marco Aurelio a Zeus... sembra una barzelletta!... ad ogni modo vediamo che c’è scritto, d’accordo?»

Il cane scodinzolava attento con la lingua fuori: sembrava davvero che non vedesse l’ora.

Augusto ricominciò a leggere da capo:

«Pensa continuamente a quanti medici sono morti, che spesso aggrottarono le ciglia sugli ammalati; quanti astrologi, che predissero agli altri la morte, come fosse gran cosa; quanti filosofi, che discettarono innumerevoli volte di morte o di immortalità; quanti prodi, che uccisero molti uomini; quanti tiranni, che con terribile arroganza esercitarono il proprio potere di vita o di morte, come se fossero immortali; quante città sono morte, per così dire, tutte intere: Elice, Pompei, Ercolano e innumerevoli altre. Va’ col pensiero a quanti hai conosciuto, uno dopo l’altro: questo, dopo aver dato sepoltura a quello, si è ritrovato steso a terra, quest’altro ha dato sepoltura a lui, e tutto in breve tempo. Insomma, bisogna considerare sempre le cose umane effimere e vili: ieri, un po’ di moccio; domani, mummia o cenere. Questo breve istante del tempo a tua disposizione trascorrilo secondo natura e terminalo sereno, come cadrebbe al suolo, matura, un’oliva, benedicendo la terra che l’ha prodotta e ringraziando l’albero che l’ha generata.»

Augusto chiuse il libro e lo rimise nella tasca dello zaino. La richiuse con attenzione, si sfilò i sacchetti dalle mani e, dopo averli appallottolati, se li mise in tasca. Poi si sedette nuovamente sul sasso di prima.

«Sembra una cosa che uno legge per prepararsi», disse al cane, «Credo che fosse malato, sai, e che sapesse di dover morire da un momento all’altro...»

Quindi abbassò pensieroso lo sguardo tra i sassi. Ne spostò uno con la punta del piede.

«Di’ un po’, Zeus», gli chiese, «cosa faresti tu se io crepassi domani?»

«Bau! Bau!», fece il cane scodinzolando.

«È inutile che fai lo spiritoso», disse Augusto, «tanto ti conosco... tu sei il classico cane che si lascerebbe morire sulla tomba del padrone... È meglio se crepi prima tu, credimi... non te lo sto augurando, sia chiaro... ma è proprio che ti conviene!...»

Quindi si fermò a pensare a ciò che aveva appena detto.

«Già! Ma poi io che farei senza di te?...», disse, «In un modo o nell’altro siamo fregati, caro mio... mi sa che è meglio se ci vogliamo un po’ di bene intanto che siamo ancora vivi...»

Si batté le mani sulle cosce.

«Qui, Zeus! Vieni!», disse.

Il cane si precipitò da lui saltellando e scodinzolando a più non posso.

Augusto lo accarezzò con affetto mentre quello gli leccava le mani.

Poi il cane si bloccò di colpo.

«Bauuuuuuu!», ululò alzando il muso verso l’alto, «Bauuuuuuu!»

Augusto sapeva benissimo cosa volesse dire e si mise in attesa.

Poco dopo si sentirono le sirene dei carabinieri.

 

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