Scatole
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Scatole

 

Io sono un mostro, e lo so. Carne marcia, in cancrena, rivestita di pelle pulita, di pelle traslucida.

Non ho le dita delle mani, per esempio. Ho dei monconi che terminano in grumi di sangue rappreso, disgustosi. Ma fuori, sinuose e lunghe falangi con cui suono il piano. Faccio Nuvole, di Ludovico Einaudi, e così mi sento bella e pop. Ma solo fuori. Perché quello che ho dentro io lo so, lo conosco. Dentro c’è un mostro, uno scherzo della natura già dalla nascita, ridotto peggio dall’adolescenza in poi. Perché ai miei amici venivano i brufoli, a me voragini piene di un liquido verde e nauseante.

Operatela, diceva mio padre. Strappatemi le unghie, dicevo io. Quelle orribili, spesse lame taglienti, gialle e ricurve, malate di un fungo inguaribile. Poi sono cadute da sole, intorno ai sedici anni, insieme al resto che era loro prossimo. Operatela, diceva mio padre. Nata marcia, invece di crescere e svilupparmi, io con gli anni diventavo carne putrida e disgregata, come fossi stata da sempre morta.

Sei un miracolo, diceva mia madre. Sei unica, diceva il prete. Ma i preti – si sa – non hanno mai capito niente.

Poi a vent'anni l’operazione, e la pelle sintetica ha ricoperto tutto. Ora ho unghie perfette, sempre laccate di un rosa chiaro, tenero, innocente. Fuori ho capelli morbidi e lucenti che scuoto in cascate di boccoli neri. Ma dentro lo so, che cosa sono. Conosco il mio cranio deforme, le pupille opache, le labbra avvizzite. So cosa sono.

Ho degli amanti, quattro amanti. Loro non sanno l’uno dell’altro, vengono in giorni diversi. Sanno che lavoro a Zurigo e sto pochi giorni a casa. Sei una brava ragazza, mi dicono. Maurizio, l’amante numero 3, mi vuole sposare. Per loro preparo torte, che invece compro dalla Signora Matilde e poi le metto nella teglia rosa di silicone che tengo nel forno. La mia casa è tutta rosa, come la teglia, come le unghie, come le labbra, come le guance morbide e chiare. Ma solo in apparenza.

Ho cassetti, nella stanza in fondo al corridoio, quella chiusa a chiave, dove tengo pezzi di pelle e capelli, coaguli marroni, ossa divelte e poi sostituite, frammenti di unghie, cartilagini. La mia carcassa ha bisogno di molta manutenzione. Per questo vado davvero a Zurigo, nella clinica dei marci. E non sono unica, come credeva il prete, siamo almeno un centinaio. Io però sono in effetti un po’ speciale. Sono allo stadio più avanzato di putrefazione, quella che dà più da fare con le sostituzioni, la clonazione e gli organi sintetici.

Sei una piccola Frankenstein, dice il dottor Gustav. Scherza, ma io lo vedo, che ha ribrezzo. Anche io ho ribrezzo, però mi sono abituata, e quando mi toglie la pelle ora mi guardo, non chiudo più gli occhi, così so sempre e bene chi sono.

So che sono viva, ma in un corpo morto. Meglio del contrario, mi dico. Se io fossi morta, dentro un corpo vivo, allora sarei davvero condannata.

E così vivo, giorno dopo giorno, cercando di avere piacere. I miei sensi non funzionano molto. Posso mangiare, ma quando deglutisco i sapori si mischiano sempre agli acidi che ho dentro, mangio e rigurgito, però io ci provo, aggiungo tanto zucchero. Fare la doccia è la cosa che più mi piace. La pelle sintetica è molto ben fatta, impermeabile, ignifuga, posso usare l’acqua bollente, e un tepore dolce mi avvolge. Ci sto per ore, chiudo gli occhi e sogno il mare che brilla e una barca sopra che naviga piano, di legno verde, con me dentro cullata nel sole, fatta di carne viva.

Il sesso, invece, non mi dà molto piacere. Non sento quasi niente, anzi a volte ho la fastidiosa percezione che dentro, quella pressione ritmica, sconvolga le mie viscere fragili, disperdendole. Però mi piace, ogni tanto, vedere il piacere negli occhi dell’altro, soprattutto in quelli di Paolo, l’amante numero 2. Lui gode molto, e dopo sembra felice. Mi coccola per ore, disegna i suoi mondi sul mio corpo, sfiorando la pelle con dita leggere. Se solo sapesse cosa c’è sotto, a meno di mezzo centimetro, non credo vorrebbe ancora toccarmi, e nemmeno guardarmi. Lo inganno e mi dispiace, gli voglio bene davvero.

Anche a Maurizio voglio bene, a mio modo. Ha già scelto la chiesa, le bomboniere, le scarpe e insiste perché fissiamo una data.

Per gli altri due invece non so cosa provo, forse niente. Non li chiamo mai per nome. Ma sono arrivati e io li ho lasciati venire, perché lascio accadere tutto quello che accade. Perché – nonostante tutto – ho sempre fame di vita, di amore, di gioia.

Gioia. Che bella parola. L’ho cercata ieri sul vocabolario. C’era scritto “stato o motivo di viva, completa, incontenibile soddisfazione”. E a me ieri, mentre leggevo, è sembrato per un attimo di sentirmi proprio così, incontenibile e completa, dentro la gabbia della mia pelle.

Io non so che senso abbia questa scatola che mi avvolge, che mi contiene. Potrei vivere senza?

Mostrare al mondo il mio abisso raccapricciante. Magari domani lo faccio.

Magari prima che arrivi Paolo mi tolgo la pelle, la tiro dietro alla schiena, come fa il dottore quando vado a farmi revisionare.

 ***

Domani Paolo si alza, di buon'ora. Sa che è mercoledì, il giorno in cui finalmente potrà vedersi con Sabina, la sua fidanzata. È una donna molto bella, con la pelle morbida e chiara, i boccoli neri. A volte è malinconica e la sente lontana, ma a lui piace anche per questo, perché racchiude un mistero che non gli riesce di afferrare.

Arriva da lei che sono quasi le nove, suona, Sabina non risponde. Suona ancora, per tre volte, Sabina non apre.

Paolo aspetta, suona ancora, altre due volte, inizia ad essere teso. Aspetta, e aspetta.

Dentro le luci sono accese, Paolo aspetta ancora. Poi d’improvviso prende un legno dal giardino, spacca il vetro della cucina, entra di forza strappandosi il giubbotto sulla manica destra. Chiama Sabina.

In casa c’è silenzio e un odore strano, un misto di profumo di torta alle mele, mischiato con qualcosa di marcio, di vagamente ripugnante.

Sabina! Chiama ancora, e tra le mani tiene il legno del giardino.

Si sente un rantolo dalla camera da letto. Paolo si precipita, spalanca la porta e poi gli occhi di fronte all’orrore. Impallidisce, una puzza di carne morta gli invade le narici. Sul letto brandelli di organi e ossa, legamenti avvolti nel sangue, si muovono verso di lui. Gli sembra di intravedere due occhi, in mezzo a quell’ammasso disgustoso di viscere e vene, e lì colpisce, con il legno del giardino, colpisce forte due volte. Del sangue zampilla fuori, e gli sporca la faccia, ma la “cosa” sembra muoversi ancora, come volesse cingerlo ai lati. Allora Paolo chiude gli occhi e colpisce di nuovo, forte sempre più forte, ovunque, colpisce, fa uno strazio, uno scempio di quello scempio.

Infine, senza più forze, si sdraia a terra muto, inorridito, privato per sempre di sé.

Dramma della gelosia, diranno le televisioni. Follia omicida, scriveranno i giornali. E poi ergastolo, in cassazione, con l’aggravante dell’efferatezza.

 

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