Tesi luterane d’estetica integrale

Tesi luterane d’estetica integrale

§1 – L’umano integrale

La normalità è fatta di limitazioni. Il pudore e il decoro ad esempio. Uno steccato entro cui il normale è circoscritto e costretto. Nel mio percorso letterario a un certo punto mi sono detto: proviamo a sfondare questi due limiti per accedere a un umano più ampio, per quanto a prima vista solo sul versante estetico. Poi ho capito che era la normalità stessa a dover essere sovvertita per accedere alla integralità estetica e questo può procedere per almeno tre vie che ci vengono in parte indicate proprio dallo sfondamento del decoro e del pudore: il mistico, il popolare, lo psichedelico. Sovvertita la normalità l’umano esperibile aumenta vertiginosamente, e così anche la dicibilità – ciò che può essere espresso – dell’umano. Un umano integrale. Ma questa figura dell’umano integrale, siete sicuri che non abbia un potere che travalica l’estetica, un potere politico? Se si perseguisse l’integralità dell’umano nella nostra vita, questo non sarebbe un gesto politico?

 

§2 – Lo strano

La normalità è la morte del senso, la morte del senso è la disperazione, la normalità è disperata. C’è bellezza anche nella normalità, ma bellezza disperata – Volodine: «lo strano è la forma che assume il bello quando il bello è disperato». Da qui tutto questo gusto del weird, che va bene assecondare, sperimentare, mappare, anche allo scopo di compararlo con altri deliri estetici non disperati come quello psichedelico, quello onirico o anche quello proprio della cultura popolare: il carnevalesco. Anche lo strano fa parte dell’integralità umana, per quanto rimanga sempre correlato alla nozione di normalità: c’è strano solo dove c’è normale, senza la normalità non ci sarebbe la stranezza.

 

§3 – Il tempo

Anche il tempo si dispera, per questo lo ammazziamo. Solo nella normalità il tempo si dispera, nell’umano integrale è invece risvegliato alla vita, come nel carnevale.

 

§4 – Il carnevale e il popolare

L’autore che ha penetrato più di ogni altro la portata stilistica ed eversiva della cultura e della letteratura popolare è Bachtin. La parola popolare è la parola che scuote il decoro per eccellenza: motteggiante, sordida, oscena, volgare, colorita, diretta. Il popolare si esprime compiutamente nel carnevale – che è uno stato mentale – dove troviamo l’ebbrezza che divelle tutti gli steccati costruiti dallo status quo, la fine della recitazione dei ruoli sociali e l’immersione totale nell’atmosfera del mondo sottosopra, la perdita di vigore delle leggi e dell’ordine, l’abolizione della distanza tra le genti e il manifestarsi del libero contatto familiare tra le persone, la distorsione del comportamento, del gesto e della parola prima impastoiati dalla posizione gerarchica (ceto, censo, età) che li determinava nella vita normale e ora divenuti eccentrici e inopportuni, la distruzione e il rinnovamento del mondo, l’esclusione del pensiero astratto in favore di forme concreto-sensibili, l’infiltrarsi del linguaggio familiare-plebeo, la libertà sfrenata, il sacrilegio, la profanazione, l’oscenità, la degradazione, lo scoronamento.

 

§5 – Naturalismo sordido

Il realismo brutale che Martin aveva inaugurato nel fantasy con Le cronache del ghiaccio e del fuoco – non disdegnando la grammatica e il repertorio del naturalismo sordido e contrapponendo il corpo integrale (con le proprie foie, deiezioni, abiezioni, deformità, ustioni, mutilazioni) al corpo epico e pudico di Tolkien – in Abercrombie viene approfondito e portato fino al parossismo nella Trilogia della Prima legge. La successiva Trilogia dell’Età della Follia è poi un tripudio di carnevale popolaresco.

 

§6 – La menippea

Il genere che consente al popolare e al carnevalizzato d’irrompere nel discorso letterario è la satira menippea (Luciano, Apuleio, Varrone, Seneca, Petronio). Fiorì nell’antichità classica e poi ellenistica inserendosi nella tradizione del serio-comico (letteralmente σπουδογέλοιον: σπουδαῖος, serio, e γέλοιος, comico) e più specificamente prendendo le mosse dal disgregarsi del dialogo socratico ingravidato dallo spirito del folklore popolare carnevalesco, con queste caratteristiche: l’alternarsi di prosa e versi, di serio e faceto, di patetico e comico, la parodia del sublime, le ambientazioni basse e sordide, il largo utilizzo di materiali eterogenei, la più audace e sfrenata fantasia che crea situazioni eccezionali (che vanno a sperimentare e provocare le “posizioni ultime” sulla realtà), la raffigurazione di stati psichici anormali nell’uomo (la follia, lo sdoppiamento della personalità, i sogni strani, l’ideazione suicidaria, l’estasi).

 

§7 – Dostoevskij

La parola di Dostoevskij secondo Bachtin va interpretata partendo dal suo inserimento nel solco del popolare, del carnevale e della menippea. Nabokov lo disprezzava – consapevolmente o meno – proprio per questo. La provocazione delle «posizioni ultime» sulla realtà e il gusto per gli stati mentali abnormi in Dostoevskij mettono in luce l’altro pilastro dell’abbattimento del recinto del decoro e del pudore: il mistico.

 

§8 – La cosa mistica

La normalità è uno stato mentale, la mistica è produrre in sé lo stato mentale desiderato – quale? L’incontro con l’altamente significativo. L’estasi. Non un’estasi qualsiasi, l’estasi trasformativa.

 

§9 – L’estasi mistica

L’estasi è l’essere pervasi dal senso, è un’esplosione di senso che abolisce il filtro della normalità e ha questa fenomenologia:

I) Liberazione dalla normale condizione miope fatta di pigre abitudini mentali e prospettiche, spesso più o meno vagamente possessivistiche.

II) Estinzione degli attaccamenti ottundenti e dei pregiudizi fossilizzati in base ai quali agiamo e pensiamo.

III) Percezione strabordante consistente nell’essere pervasi dall’altamente significativo, dall’illuminazione, dal risveglio di tutto il nostro potenziale semantico e umano, accompagnato dalla certezza autoevidente dell’autenticità realizzante del tutto.

IV) Dilatarsi dell’individualità. Progressivo sgretolarsi dell’individuazione egoistica ed egocentrica. Sfumare delle formazioni mentali egotistiche e sentimento dell’unione non solo inclusiva ma anche partecipativa con ciò che-normalmente-non-è-me.

V) Proliferare inarrestabile della comprensione di cose che prima c’erano oscure, o celate, o che avevamo rimosso o date per scontate.

VI) Senso di beatitudine e elemento soteriologico, cioè senso di salvezza, usando una terminologia metaforica di stampo teologico, diciamo, cancellazione della condizione irrisolta, inquietante, tragica dell’essere umano individuato e perso nell’angoscia dei labirinti dell’assurdo desertificato che lo circonda, cioè (in metafora) cancellazione del peccato originale: quindi comunione con il sé non sdoppiato, comunione con la realtà, comunione con l’altro; significato in sé, significato negli altri, significato nella realtà tutta.

 

§10 – Soma

«Abbiamo bevuto il soma, siamo divenuti immortali, abbiamo visto la Luce, abbiamo trovato gli Dei», recita il Rgveda. Non lasciarono tracce i vedici che non fossero linguistiche, parole e formule che scandivano rituali «al centro dei quali – scrive Calasso – appariva una pianta inebriante, il soma […] Uno stato di coscienza diventava il perno intorno a cui ruotavano, in una meticolosa codificazione, migliaia e migliaia di atti rituali. La mitologia, e così anche le speculazioni più temerarie, si presentavano come una conseguenza dell’incontro fatale e dirompente fra una liturgia e l’ebbrezza». Dalla macerazione di quale pianta s’estraesse il soma non lo sappiamo, da lungo tempo l’umanità l’ha dimenticato, già tre millenni fa gli inni vedici ne parlavano come qualcosa di appartenente al passato, che non si riusciva più a reperire (forse anche a seguito di migrazioni): la sostanza psicotropa («La bevanda mi trascina come un vento di tempesta. Ho dunque bevuto soma?») ed enteogena («Una sola metà di me è più grande dei due mondi. […] Ho superato in grandezza il cielo e la terra. […] Io immenso, mi innalzo fino alle nubi. Ho dunque bevuto soma?») arcaica per antonomasia è anche la pianta mitica per eccellenza.

 

§10 bis – La psichedelia in Leonzio

Ricettacolo dello scibile intorno alle droghe, collezione strabiliante di fonti e testimonianze le più disparate ed eterogenee sulle medesime, Il volo magico di Ugo Leonzio, pubblicato per la prima volta nel 1969, fa di ogni sostanza – dall’oppio all’LSD passando per la mandragola e lo stramonio – l’occasione per un’investigazione erudita (con un certo gusto per l’ameno) che investe chimica, farmacologia, archeologia, documentazione minuziosa degli effetti, storiografia, filologia, antropologia, tecniche di raccolta e preparazione, iconografia, medicina, mitologia, usi cerimoniali, dossografia, tossicologia, botanica. Ma gli intenti dell’autore non sono solo enciclopedici (se così fosse il libro sarebbe senza fallo invecchiato male), gli preme far emergere una sua visione profonda del fenomeno psicotropo che parte dalla distinzione tra «droghe sterili e droghe produttive». Alla seconda categoria appartengono gli psichedelici («uniche droghe atte a produrre teofanie di tipo mistico»), alla prima sostanzialmente tutto il resto. Solo con gli psichedelici si attraversano le porte della percezione, si ha accesso alla morte e alla rinascita, «fiorisce la realtà». Psichedelico significa letteralmente «che rivela la mente» ed proprio la mente l’oggetto ultimo di studio di Leonzio, non a caso autore della magnifica introduzione all’edizione Einaudi de Il libro dei morti tibetano. Bardo Thödol.

 

§11 – La comunione degli psiconauti*

Ne La scommessa psichedelica a cura di Federico Di Vita c’è un testo molto penetrante e curioso, Il trip report come sottogenere della letteratura di viaggio, in cui Beppe Fiore parte dalle sue esperienze personali con l’LSD («La dissoluzione dell’ego, l’estasi, la percezione di squarci di bellezza assoluta e senza scampo, la sensazione di unità col creato. […] L’LSD è stata una delle cose più vicine al sacro che io abbia potuto sperimentare») e le vede come accesso (rectius: come «ritorno», perché «il cosmo lisergico è sempre lì, sempre uguale a se stesso») a uno spazio peculiare, un «luogo eterno» – che come tale non è prodotto ex novo ed ex nihilo solipsisticamente dal singolo viaggio del singolo psiconauta, ma ha una sua consistenza oggettiva preesistente e addirittura immutabile – «popolato da una folla di altri – tutti gli uomini e le donne che prima di me hanno varcato la stessa soglia». Del resto se lo psichedelico rivela e mostra la mente e non si risolve in un delirio allucinatorio individualistico allora diventa possibile e pensabile un incontro con l’altro nei territori mentali rivelati, la comunione degli psiconauti («l’idea che i fenomeni, spaventosi e bizzarrissimi che accadono a me siano già successi, più o meno simili, anche agli altri mi è sempre risultata di conforto durante i trip. […] L’LSD mi ha permesso di stringere un legame con persone a me care così profondo che è paragonabile solo al sesso e, forse, all’essere scampati insieme a un pericolo mortale, o aver combattuto insieme, sullo stesso fronte, la stessa guerra») come partecipazione solidale immersiva alla medesima realtà che si manifesta.

*Rielaborazione di materiale pubblicato su Nazione Indiana

 

§12 – La società letteraria italiana e l’ombelicalità

Le genti delle italiche lettere dicono ombelicale una certa scrittura – d’interiorità e peripezie paccottigliose esistenziali prossime al vissuto del narratore (che è anche protagonista della vicenda) – la quale è molto più pregnante dire condominiale, è scrittura autoreferenziale introversa provinciale con tratti narcisistici, molto nazionale, e i discorsi patri che la parlano sono discorsi di buono o malo vicinato – la società letteraria come riunione condominiale affollata che ribolle in una stanza piccina fino allo sgomitamento e al pestaggio dei piedi.

 

§13 – Il mio genere

Io scrivo un «esotismo postcondominiale infrarealista» tutta voce e digressioni.

 

§14 – La voce

A: «Che poi tutti a parlare di sta voce, ma che è la voce? Una categoria al contempo metafisica in senso deteriore e soggetta al gusto più arbitrario e alle idiosincrasie personali. La voce non esiste. Se anche esistesse non sarebbe afferrabile.»

B: «Guarda, mezzo-Gorgia, che la voce è una cosa specifica e molto precisa: una concatenazione strategica stilisticamente caratterizzata di dispositivi linguistici (costrutti, lessico e varchi) radicata in un immaginario. Se non hai la sensibilità testuale necessaria per sentirla son fatti tuoi.»

 

§15 – Sciamanismo e bella pagina

Cercano la bella pagina, impersonale e generica la fanno, standard, retoricamente abile e infiocchettata. Bisogna passare dal paradigma della retorica forbita a quello della peculiarità personale, serve un superamento. Bisogna in sostanza accedere ai paradigmi personalistici – come si evocano? Individuando il tuo problema esistenziale centrale, l’enigma che sei; alla luce di questa individuazione quale è il tuo sguardo sul mondo (che in parte dai materiali del tuo vissuto viene costruito)? Scrivi a partire da lì, radica in quel tuo enigma la sensibilità testuale dell’opera tua. Come lo so? Ma perché l’ho vissuto: come lo sciamano anche l’ausiliatore deve essere stato malato e deve essere guarito – altrimenti come potrebbe fare a curare?

 

§16 – La trasformatività

La scrittura o è trasformativa o non è significativa ed è quindi (in questo secondo caso) scrittura del prodotto e non dell’opera. La prima metamorfosi che occorre esperire è quella che ci porta a produrre in noi la mente desiderata come fondamento del testo – un testo riesce a germogliare solo se ha le radici che lo nutrono e lo sostengono sprofondanti nella mente prescelta che è il substrato che permette al testo di accadere. Trasforma quindi la tua mente abituale nella mente peculiare del testo specifico che srotolandosi lo sbobina anche mentre fai la lavastoviglie.

 

§17 – Jurodivye

Mi sono deciso ad aprire una rubrica che andasse a sondare l’umanità integrale, ho scelto Verde – l’ ὀμφαλός del mondo delle riviste della lit-web – come terreno in cui piantarla. Jurodivye si occupa d’almanaccare sulla radicalità eteroclita e di smarginamento: testi mistici, pornografici, aberranti, equivoci, deformi. Indulgendo alla psichedelia, all'irregolarità, al degrado erotico e mentale, alla pneumatologia, all'anfibologia, alla psiconautica, alla teratomorfia. Si tratta di un carotaggio ispirato e svergognato negli antipodi e negli anfratti della realtà umana, nei suoi gorghi e nei suoi contorcimenti, nella sua ancestralità bestiale e divina e nel suo fulgore beato e orrorifico. La cerca di una parola nemica delle convenzioni tralatizie mummificanti e che intende attentare al buon senso comune che tutto pialla e pacifica desertificando il reale, una parola quindi tormentata e ubertosa che frughi con dita ispirate – posseduta da sortilegi libidici – nelle viscere recondite del panorama interiore umano straziato e collassato in cerca del sacro e dell’arcano. La via sghemba da percorrere nutrendosi di cibi strani e velenosi: abomini, mostruosità, vicende immonde, contenuti eccessivi, rapimenti sublimi, ierogamie ancestrali – abbiamo bisogno d’essere ingravidati della pazzia e della santità, dell’estasi e del degrado. E forse lì troveremo la bellezza. E forse l’incontro non sarà solo estetico, ma avrà anche un vettore politico: l’umano che incontra la bellezza della realtà integrale sua è un umano trasformato.

 

§18 – La bellezza

«La bellezza salverà il mondo» dice Dostoevskij, e intende: il mondo sarà salvo quando i tuoi occhi ne sapranno vedere la bellezza a seguito della tua trasformazione mistica che ha appunto trasfigurato la realtà. È nostro compito cercare la bellezza oltre i confini del luogo comune, uscendo dai sentieri già battuti, è nostro compito crearla combattendo il kitsch e copulando con l’altamente significativo in preda alla sacra follia senza aver paura di partorire mostri e abominazioni, senza aver paura di partorire lo splendore.

 

 

 

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