David Lynch - L'immagine come evento psichico
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David Lynch - L'immagine come evento psichico

 

1. La rottura con il cinema rappresentativo

C'è un momento, guardando i film di David Lynch, in cui smetti di chiederti "cosa significa?". Non per resa, ma per una comprensione più profonda, quando cioè arrivi a capire che ti stai ponendo la domanda sbagliata. Come chiedersi cosa significhi esattamente un incubo, o cosa rappresenta il colore rosso quando lo vedi a occhi chiusi premendo le palpebre. L'immagine lynchiana non significa, accade. È un evento che ti attraversa, non un messaggio da decodificare.

Questo è il primo, fondamentale fraintendimento generale sul regista di Missoula. Lo trattiamo come un autore simbolista, uno che nasconde significati sotto strati di oscurità da penetrare con l'interpretazione giusta, ma Lynch non nasconde nulla perché non c'è nulla da nascondere. L'immagine è già tutto. La tenda rossa non sta per qualcos'altro, ma è il luogo dove il linguaggio collassa e inizia un altro tipo di comunicazione.

Vedere e accettare questa distinzione finisce per regalarci una prospettiva differente. Il cinema, dalla sua nascita, è stato arte della rappresentazione: si filma un albero sia per mostrare un albero che per farlo diventare simbolo di qualcos'altro (la natura, la vita, la crescita). Anche il cinema più sperimentale, quello che smonta la narrazione e decostruisce il linguaggio, mantiene questo patto, dove l'immagine rimanda a qualcosa fuori da sé, ma Lynch rompe il patto alla radice. Le sue immagini non rimandano, esistono.

 

2. La texture come pensiero

Per questo ha senso guardare come il regista tratta la superficie stessa dell'immagine. La grana, il disturbo, la sfocatura non sono effetti estetici, sono la materia di cui è fatto il pensiero quando lo si cerca di filmare in maniera diretta. Il cervello non produce immagini nitide in alta definizione, ma texture, aloni, zone di chiarezza circondate da nebbia. Lynch filma esattamente questo.

C'è una qualità tattile nelle sue immagini che altri registi non hanno. Senti che potresti toccarle, che hanno peso e temperatura, le tende di velluto paiono assorbire la luce, i corridoi hanno l'umidità di un incubo recente, i volti emergono dall'oscurità come se stessero attraversando una membrana. Questa materialità è fondamentale, ed è qui che l'autore sta letteralmente dando corpo al pensiero, sta rendendo visibile l'invisibile senza tradurlo, senza addomesticarlo in narrazione.

Il digitale degli ultimi lavori ha estremizzato questa ricerca. La grana del pixel, il rumore elettronico, la definizione variabile creano un'immagine instabile, che sembra sul punto di dissolversi o di cristallizzarsi in qualcosa di completamente diverso. È cinema che registra la propria precarietà, la propria natura di fantasma elettronico, e questa precarietà dell'immagine riflette perfettamente la precarietà della coscienza che cerca di afferrarsi mentre si sta formando oppure, e certe volte contemporaneamente, mentre sta svanendo.

 

3. Il rifiuto dell'interpretazione come gesto etico

Lynch ha ripetuto per decenni che non spiegava i suoi film, e non per civetteria d'autore, ma per necessità ontologica. Spiegare significherebbe tradire, significherebbe ammettere che l'immagine era solo un veicolo, che il vero contenuto stava altrove, in un significato parafrasabile in parole. Ma se l'immagine potesse essere tradotta in parole, perché sprecare tempo a costruirla?

C'è qualcosa di profondamente rispettoso in questo rifiuto. Il regista sta dicendo che la tua esperienza del film è valida esattamente com'è, l'inquietudine che senti, lo smarrimento, l'eccitazione, la paura - quello è il film. Non c'è un livello superiore di comprensione dove tutto si risolve in un messaggio ordinato. Il messaggio è lo smarrimento stesso.

Questo rovescia completamente il rapporto tra autore e spettatore, quando nel cinema tradizionale, anche in quello d'autore più complesso, esiste un'asimmetria: il regista sa, lo spettatore deve capire. Qui invece si ristabilisce la simmetria: lui ha avuto un'esperienza, un'idea, una sensazione, un'immagine che lo ossessiona, e cerca di trasmetterla nella maniera più diretta possibile. Lo spettatore riceve quell'esperienza e la fa sua. Non c'è gerarchia interpretativa, non c'è una lettura corretta da trovare per sentirsi autorizzati a dire "ho capito".

 

4. L'eredità surrealista rinnovata

David Lynch viene da sempre accostato al surrealismo, e per molti versi a ragione, l'influenza è palese. Ma è un'eredità tradita, volutamente tradita, nel senso più produttivo del termine. I surrealisti cercavano l'automatismo psichico, la registrazione diretta dell'inconscio scavalcando il controllo razionale, e il risultato erano immagini liberate, caotiche, oniriche, ma sempre riconoscibili come rappresentazioni del caos interiore.

Lynch fa invece l'opposto: esercita un controllo maniacale su ogni fotogramma, ogni suono, ogni movimento di macchina. Non c'è nulla di automatico, eppure raggiunge lo stesso obiettivo, anzi, lo supera, creando immagini che funzionano esattamente come funziona l'inconscio. Non lo rappresentano dall'esterno, lo replicano dall'interno. È surrealismo di precisione, automatismo costruito fotogramma per fotogramma.

La differenza è cruciale. I surrealisti volevano liberare l'inconscio dal controllo della ragione, Lynch ha capito che l'inconscio ha già una sua logica, ferrea e coerente, solo che non è la logica della veglia. Infatti il suo cinema non è caotico, ma ordinatissimo secondo principi che non sono quelli della narrazione aristotelica o della causalità razionale. È il sogno come architettura, non come esplosione.

Questa precisione rende il regista più inquietante di qualsiasi surrealista classico, che ti spiazza con l'assurdo, ti mostra l'impossibile e te ne fa accettare la presenza. Lynch ti mostra qualcosa che sembra reale (una stanza, una persona, una conversazione) e poi, lentamente, impercettibilmente, la realtà si piega finché non riconosci più dove ti trovi. L'incubo è che non sai quando tutto è iniziato, quando si è compiuto il passaggio, e quando te ne accorgi ci sei già dentro da un pezzo.

 

5. L'immagine-pulsione

Gilles Deleuze ha inventato categorie filosofiche per descrivere come il cinema pensa. Immagine-movimento, immagine-tempo, e a David Lynch possiamo accostare la categoria dell'immagine-pulsione, un'immagine che non sviluppa né tempo né movimento ma intensità, che non progredisce narrativamente ma pulsa, insiste, ritorna.

Pensiamo alle ripetizioni ossessive che attraversano tutta la sua opera: non sono flashback, non sono variazioni sul tema, ma ricorrenze, ritorni del rimosso, loop. L'immagine che torna non è mai identica eppure è sempre la stessa, come un trauma che si ripresenta ogni volta leggermente diverso ma identico nella sua essenza. Questo è esattamente il funzionamento della memoria traumatica, della coazione a ripetere che Freud aveva individuato come segno della pulsione di morte.

Dunque Lynch filma pulsioni, letteralmente. Non persone che hanno desideri, ma desideri che assumono forma umana. I suoi personaggi sono spesso assemblati attorno a un nucleo pulsionale unico, che può essere la gelosia piuttosto che il desiderio sessuale, la violenza, l'innocenza corrotta, incarnati e messi in movimento. Per questo risultano così archetipici pur essendo così specifici, perché non si tratta di psicologie complesse, ma di forze primarie con un volto.

Questo spiega anche perché i dialoghi lynchiani suonano a volte apparentemente oscuri. Non si tratta di conversazioni realistiche, le battute non veicolano informazioni o sviluppano personaggi, creano tensione, stabiliscono intensità. Sono più vicine alle formule rituali che alla comunicazione quotidiana. Quando due personaggi parlano, spesso non stanno veramente parlando tra loro, ma stanno definendo il campo magnetico che li tiene insieme o li respinge.

 

6. Il pre-verbale come territorio vergine

Il cinema classico, anche quello più visualmente sofisticato, traduce in immagini qualcosa che potrebbe essere detto a parole, mentre Lynch invece fa il contrario, e usa le immagini per esprimere ciò che le parole non hanno mai raggiunto, non raggiungeranno mai. Lavora nel territorio del pre-verbale, quella zona dell'esperienza che esiste prima del linguaggio, sotto il linguaggio.

I bambini ci vivono, in quello spazio, prima che il significato compiuto delle parole colonizzi completamente la coscienza. Poi, crescendo, dimentichiamo che quello spazio esiste, o meglio, ci convinciamo che tutto ciò che è reale deve poter essere detto. Ma quel territorio rimane presente, pur se sepolto. È il luogo della sensazione pura, dell'emozione senza nome, della percezione che non si è ancora organizzata in concetto.

Lynch ha trovato il modo di riportarci lì, e non attraverso la regressione o la nostalgia, ma costruendo un linguaggio cinematografico che opera secondo le regole di quel territorio. Le sue immagini non hanno bisogno di essere tradotte in parole perché parlano già la lingua madre della coscienza, quella che precede la scissione tra soggetto e oggetto, tra dentro e fuori, tra io e mondo.

Per questo guardare i suoi film può risultare così destabilizzante, perché riattiva una modalità percettiva che credevamo superata, che avevamo dimenticato, che ci rimette in contatto con il modo in cui vedevamo il mondo a tre anni, quando un corridoio buio era veramente infinito e il volto di un estraneo poteva essere davvero mostruoso. Non perché fossimo ingenui, ma perché percepivamo direttamente l'intensità delle cose senza il filtro rassicurante del linguaggio che spiega, categorizza, normalizza.

 

7. La destabilizzazione produttiva

Il risultato di tutto questo non è confusione, ma una forma diversa di chiarezza. Il regista destabilizza i codici interpretativi tradizionali non per il gusto del mistero fine a se stesso, ma per aprire un altro tipo di comprensione, una comprensione che passa attraverso il corpo, attraverso la sensazione, attraverso l'esperienza diretta dell'immagine.

Quando si finisce la visione di un suo film e rimane quell'impressione di non capire cosa si è appena visto, ecco, non è perché il film è oscuro, ma perché si è visto qualcosa per cui non possiediamo ancora parole. E questa è esattamente l'esperienza dell'arte al suo livello più alto, l'arte che non conferma ciò che già sappiamo, ma ci vuole mostrare qualcosa che non sapevamo di poter vedere, e a volte nemmeno di voler vedere.

Questo tipo di arte ci espande, ci trasforma, mettendoci di fronte a un cinema generativo e non rappresentativo. Una forma d'arte che produce esperienza, non la riproduce, creando mondi che non esistevano prima, con leggi proprie, e per la durata della visione quei mondi sono reali tanto quanto il nostro. Persino più reali forse, perché più vicini al funzionamento effettivo della coscienza di quanto lo sia la realtà ordinata della veglia.

Ecco allora il primo passo per entrare nell'universo lynchiano, accettare che l'immagine non sia un mezzo ma un fine, che vedere sia già comprendere, senza bisogno di traduzione, che l'inquietudine, lo smarrimento, il senso di riconoscere qualcosa che non abbiamo mai visto - tutto questo non è di ostacolo alla comprensione, ma anzi è la comprensione stessa, finalmente liberata dall'obbligo di tradursi in altro da sé.

 

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