Nell'inverno del 1983, Giancarlo Mobrini era un giovane squattrinato con la passione per la poesia. Aveva ventiquattro anni, una barbetta rada e un'insana dipendenza dalla sambuca. Trascorreva le giornate sui banchi di piazza Campo de' Fiori, cercando di rifilare le sue raccolte ciclostilate ai pochi passanti che si fermavano ad ascoltarlo.
“Pregate il signore, che aggrazi i miei versi!” gracchiava con voce imponente, sventolando un quadernetto di poesie dal titolo Smoghi Capitolini. I rari acquirenti erano perlopiù anziane signore annoiate o turisti stranieri attirati dalla sua aria trasandata e dall'accento caratteristico.
La sera Giancarlo si rifugiava in quello che chiamavano “la balera dei poeti maledetti”, anche se si trattava in realtà di un sottoscala in via dei Cappellari dove si riunivano altri disagiati come lui. Quel ritrovo puzzolente di vino e malinconia li vedeva declamare poemi visionari sull'alienazione metropolitana, fino a quando non venivano sbattuti fuori dai vigili per ozio molesto.
Un giorno però, lo sconsolato Giancarlo incontrò Guido Giallo, un vecchio beat della Magliana che firmava le sue opere come guidogiallo e che in breve divenne il suo mentore.
“Gianca', che ce famo co' 'ste liriche da fattone depresso?” gli disse l'uomo dopo averlo sentito recitare i suoi versi tristi. “Il pubblico da sfamare è quello delle borgate, non i radical-chic di Trastevere!”
Sotto la guida zingaresca di guidogiallo, Mobrini iniziò un proletario restyling dei suoi testi, aggiungendo metafore piccanti e creative bestemmie sui temi cari ai nuovi rioni oltre il raccordo. Le vendite non migliorarono, ma una discreta fama locale gli permise di avere in concessione uno scalcagnato basso in via Baccina dove tenere vere e proprie serate di poetry slam, anche se all'epoca nessuno ancora le chiamava così.
Lì, davanti a un pubblico di butteri vestiti con l'abito della domenica e vecchie carampane romane agghindate, Giancarlo celebrava il duro eros del Grande Raccordo Anulare, il languore dell'Appia Antica, le ribellioni scoppiate ai campetti di San Basilio.
Ma torniamo indietro per un attimo. Giancarlo Mobrini era nato in casa il 3 maggio 1959, in un piccolo appartamento sulla Circonvallazione Gianicolense, ai margini della Roma dell'epoca. Suo padre Vittorio era un operaio edile originario di Trastevere, mentre la madre Evelina una casalinga di Monteverde, ed entrambi avevano sofferto dalla vita contraccolpi tali da costringerli alla periferia.
Fin da piccolo il giovane Giancarlo diede segni di grande irrequietezza e inquietudine interiore, non si applicava mai negli studi e i suoi quaderni delle elementari erano tempestati di scarabocchi e versi sconclusionati.
“Sto regazzino è 'na testa bacata!” sbuffava il padre dopo l'ennesima nota dei professori. L'unica cosa che sembrava calmarlo erano le lunghe passeggiate nei parchi dell'Aurelio e del Gianicolo, dove fissava rapito gli stormi di uccelli e i cirri delle nuvole.
Il proverbiale disordine del quartiere lo avvolse e lo traviò nella tarda adolescenza. Mobrini abbandonò gli studi e si diede alla vita di strada: piccoli furti, risse, alcol a buon mercato. La sua unica valvola di sfogo divennero le prime poesie scempie ma dal respiro cosmico che scarabocchiava sui muri con i pennarelli colorati razziati dalle cartolerie di Testaccio.
Pe' i regazzini co' li rinculi fracichi,
nasce 'na stella nova ar Gianicolense:
scrivo sui muri versi boni e ciachi,
so' er poeta schifato e ribollente!
I versi di Mobrini produssero un certo clamore nel rione, tanto che in segno di sfida a ogni senso della misura venne presto soprannominato “il Leopardi della Gianicolense”. Qualcuno infatti ipotizzò potesse essere la reincarnazione del sommo, più che per lo stile, per la sua aria malata e tisica.
Nel 1978, all'età di diciannove anni, Mobrini partecipò alla sua prima e unica occupazione di un palazzo abbandonato in via Antonio Baldissera, nella zona di Casal Bertone. Qui conobbe alcuni creativi irriducibili come lui, il pittore Bruto Vutrico e il fotografo Alexio De Gasperi, con i quali diede vita al collettivo artistico “Bertone Petrone”.
Ispirandosi allo stile licenzioso e osceno di Petronio Arbitro, Mobrini e i suoi compari iniziarono a comporre poesie e prosa sperimentali che affrontavano in maniera spudorata e cruda i temi del sesso, della violenza e delle disfunzioni metropolitane. Si autoproclamarono “li sacerdoti der Vangelo Sporco”, rivendicando una poesia “rapida e fetente, senza tante cialtronerie”.
I loro reading divennero uno degli appuntamenti clou della controcultura romana, veri e propri capannelli nel ventre di Trastevere, dove accorrevano ribelli sregolati da ogni angolo di Roma per ascoltare le esplicite “scorregge petroniane” di quei giovani irriverenti.
Molti consideravano quello stile crudo e sboccato una provocazione gratuita e nichilista, ma per Mobrini era la sola via per scuotere la città dal suo torpore e immobilismo, infrangendo ogni pudore e ipocrisia borghese con il furore rivoluzionario delle parole.
Giancarlo visse il suo momento di massima notorietà all'inizio degli anni ottanta, quando con l'aiuto di guidogiallo entrò nelle grazie del critico letterario Antonello Venditti (non il cantautore eh, solo un curioso caso di omonimia), che lo presentò a livello nazionale come Er Mobriño, senza alcun senso apparente. Vendittti lo definì “un delirio di strada in endecasillabi”, e lo paragonò ai migliori esponenti del surrealismo e della beat generation. Quel pur solitario apprezzamento della critica ufficiale contribuì a far emergere Mobrini dalla sottocultura romana, proiettandolo nel jet-set degli intellettuali progressisti.
Grazie a questo, nel 1985 il poeta pubblicò la sua prima e più acclamata raccolta, La Solfa der Corvetto, per una piccola casa editrice della Garbatella. Lo smilzo volume, un concentrato di visioni crude e pasoliniane sul degrado dei “quartieri rottami”, vendette in tutto una manciata di copie ma gli permise un tour di presentazioni nei circoli ARCI di mezza Italia.
Furono gli anni ruggenti di Mobrini. Lui che fino a poco prima era poco più di un barbone seminudo che si ubriacava al laghetto dell'Eur, ora veniva osannato come un guru da una manciata di borderline di buona famiglia che erano orgogliosi di potergli offrire da bere.
Ma per Giancarlo fu un'ebbrezza passeggera, che culminò con la partecipazione al primo poetry slam di Velletri nel 1986, un evento trasmesso persino dal Tg3 regionale, dove il poeta sconvolse il pubblico presente declamando, per un'ora intera, un poema che a molti parve infinito, dal titolo Appuntamento grottesco co' 'na zoccola all'incroccio Acilia-Dragoncello.
Dopo quello sconcertante quanto rivoluzionario esercizio di stile, Mobrini venne definitivamente acclamato come il “Virgilio dei quartieri rottami”, un cantore delle borgate più estreme a cui persino il Partito Comunista portava rispetto.
Se da un lato la momentanea fama arricchì di occasioni la sua vena artistica, dall'altro Mobrini non seppe gestire quell'inattesa popolarità. La testa calda e ribelle del giovane si montò inevitabilmente, finendo per allontanarlo dagli amici e compagni storici.
In un tour promozionale per il suo nuovo libro, La Morte a Tor Fiscale, nel 1986, il poeta si rese protagonista di una serie di scioccanti intemperanze. Salì sbronzo sul palco del Teatro dell'Opera e vomitò addosso ad alcuni spettatori di platea, attaccò una rissa in un circolo culturale di Leonessa, finì in una cella di sicurezza dopo aver orinato su un'aiuola di viale Liegi.
Quei comportamenti sregolati e irrispettosi gli costarono caro: venne sbattuto fuori dalla sua piccola casa editrice, gli vennero revocati i premi e le smunte borse di studio, i suoi reading furono cancellati ovunque, e insomma in pochi mesi si ritrovò senza una lira, emarginato da un ambiente che di solito amava gli emarginati, ma evidentemente solo quelli che non facevano troppa caciara.
In ogni caso l'artista, consapevole del suo genio delirante, tornò a vivere di stenti e nell'oblio più totale, riprendendo la sua vecchia vita di strada, i giri senza senso in tram tra un quartiere sgangherato e l'altro, l'alcol nel suo calice come perpetuo e unico amico.
Eppure la sua vena ispirata e dissacratrice non si esaurì mai. Anzi, di fronte alle avversità e al disamore generale, la poesia di Mobrini si fece se possibile ancora più amara, livida, depressa, contundente. In una parola, viva.
Negli anni novanta la sua parabola toccò il punto più basso e, come un espiantato reduce dalla guerra del Golfo, vagava solo e senza meta per le borgate di Roma, declamando sconcezze per pochi spicci. Ormai dimenticato da tutti, viveva fra gli scheletri dei palazzi non portati a termine attorno al raccordo.
Verso la fine del decennio, quarantenne con gli occhi arrossati dal vino dei discount, Giancarlo era diventato una sorta di mendicante post-moderno che elemosinava i resti della poetica sui marciapiedi dell'estrema periferia. I vigili lo sbattevano sempre fuori dai giardinetti, dove tentava di dare voce alle sue litanie da accattone visionario.
Me danno er ben servito solo le palline d'uccellini,
io spadrono er Divino poi co' la merda me ce schizzo,
me petano le vocali e pure l'avemarie stitiche,
so' l'ammannito genio, er poeta cor cervello grizzo!
La sua figura logora e malconcia era diventata familiare fra i clochard dell'Alessandrino, Tor Sapienza, Borghesiana, Lunghezza. Con la bella stagione dormiva sulle panchine o nei giardini pubblici, spesso in compagnia di un vecchio cane randagio e di un cartone di Tavernello annacquato.
Eppure, malgrado quella misera condizione, Mobrini non rinunciò mai a poetare. Scriveva versi e filastrocche sgangherate sui pezzi di cartone con cui si copriva nelle notti d'inverno. Frammenti di un'epica urbana dissennata che riversava poi nelle sue rare e malconce apparizioni pubbliche.
Le uniche persone che ancora lo ascoltavano erano gli sbandati della rivista Narcomani Anonimi, certi balordi dei campi rom, e un paio di giovani reclute delle parrocchie di frontiera. Soltanto loro sembravano capire che quell'ometto scalcagnato custodiva ancora una sapienza altra, scaturita dai liquami del quarto mondo in cui era precipitato.
Er poeta se ne va a ricogliere 'na lode
'n mezzo ar viale de le fetenzie de cartone,
è l'oracolo scervellato, er delirante Mobrini,
ch' ha sputato 'nfaccia ar monno e nun je crede più.
Nella primavera del 2001, squallido e solo come un Majakovskij dei rifiuti urbani, Giancarlo Mobrini spirò nell'ennesima baraccopoli di lamiera appena fuori il raccordo. Aveva quarantadue anni ma ne dimostrava venti di più.
La sua dipartita non ebbe alcuna eco, neppure nei ristretti circuiti delle avanguardie romane che un tempo lo avevano osannato. Il suo corpo scarno e rinsecchito venne trovato ai margini di uno spelacchiato campo di periferia, con una bottiglietta di plastica ancora stretta in pugno.
Un piccolo gruppo di emarginati e outsider fu l'unico a rendere omaggio al barbone-vate durante un umile funerale al cimitero di Prima Porta: vecchi compagni di sbronze come Bruto Vutrico, perdigiorno di borgata, qualche poetastro dimenticato che ancora ammiccava all'underground.
Per molti critici e intellettuali quella morte nel dimenticatoio rappresentò la fine simbolica della stagione delle avanguardie e delle controculture romane, orfane del loro ultimo, stralunato simbolo.
Comunque nessun giornale o rivista specializzata fece menzione della sua morte. L'unico tributo venne da un anonimo writer che nella notte disegnò un grande murale sulla palazzina diroccata dove da giovane dimorava il poeta ciucco. Un ritratto sbavato ma riconoscibile di Mobrini, accompagnato dalla scritta, in pieno stile mobriniano: Addio Leopardi della Gianicolense, t'hanno conquistato le legioni daa plastica.