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Ècfrasi III - Mattia Leo

Sono come pennelli i verdi cipressi. Sembrano tinti con il colore della giovinezza imperitura con cui credono di aver corrotto il tempo. Un vento irrequieto accarezza i pelirizzi e li piega, sfiora le cime e le pettina, svelle a suon di schiaffi, schiaffi che incrinano. Perché si è scelta una pianta persistente per adornare il luogo dei caducifogli? I pinnacoli vegetali irsuti e depressi svettano tra i sepolcri e i loculi. I tronchi mostrano grandi muscoli e minuscoli gangli e fanno da cortina ai tentacoli asfaltati dei sentieri, nel cimitero monumentale, in un giorno pallido.

Gli stormi di stolti storni insistono nel farneticare le loro fantasie per aria. Passano sopra le teste e sui tetti eretti delle ultime dimore provocando un frullo fragoroso, un avesmoto, spuma di epilettici marosi. L’inverno ha valicato le soglie — già oltre le porte da giorni — deponendo l’autunno con foglie spoglie. Evitare il ritardo dovranno gli uccelli, ingrato migrare. Riusciranno a svernare?
I cespugli glomerulari, rifiniti dalle cesoie sul modello di una sfera intricata, sono pàpule sull’epidermide del viridario che è necessario
oltrepassare
per raggiungere il grande alveare detto colombario. È quello il nido in cui vengono stipate le urne, come barattoli sugli scaffali di un supermarcito. Esclusi dall’eterno e paludoso presente, gli annientati dormono, non più nella posa lenta della decomposizione, bensì nel setacciato residuo di una combustione. Trascorrono gli incoscienti giorni del dopo sotto forma di talco immondo, emendati dalla pudica vista dei passanti. Su ciascun riquadro delle casseforti di cemento è applicata una lastra, accuratamente incisa con le informazioni biogeotanato personali, documento d’identità dei disintegrati. Talvolta è possibile discernere i testi in bassorilievo di un epitaffio, banale e pomposo palliativo.
C’è un’urna nascosta all’occhio e inumata in uno dei tanti tumuli cassetti. Il tombino tombale che la cela dissona al confronto con gli altri. La superficie di calcestruzzo è spianata e disadorna; non si legge né nome, né luogo, né data; un lanternino oppresso dalla polvere è posto lì solo per prassi; un fiore di tela è riuscito ad appassire; dei segni minuti di uno strano alfabeto sono stati impressi quando ancora l’impasto era fresco, con l’ausilio di uno stilo. Unico accesso è garantito dalla meditazione.
Le palpebre allora si afflosciano sul cristallino senza catarattere, le ciglia si congiungono in un morso e ingoiano la cornea. È questo l’unico modo per scorgerne le fattezze. Eccola, proprio lì, nel buio privato, l’urna. Non ha anse, non ha maniglie, il collo è incassato nel petto a cilindro, la superficie è liscia e dura, non vi è decorazione alcuna. Il marmo è venato da due rivi eburnei i quali confluiscono in una lambda. Una crepa scalfisce la base (ciò attesta come non si finisca mai di crepare). Il silo sile, sottratto al sole, unico e solo ad aver rinunciato alla lordosi, comune altrimenti a molti vasi
sinuosi.
All’interno è depositato un mucchietto di candidi resti. Non si direbbe, ma quel corpuscolo, poco prima del crepuscolo, era un corpo fatto di organi, d’ossa, di carne, di peli. Chi ha abitato quel cuore liquefatto? E questa brace di costole? Donna duomo o uovodonna? Il sesso si è disperso in una cenere del genere. Il ricordo della camera ardente brucia ancora, l’ardore del forno crematorio è un rogo ispiratorio.
Càntero, per te canterò l’ode a un’urna d’urina notturna.
Urna cineraria, posacenere d’esistenza, oblio cova sotto la tua canizie. Il mozzicone del sigaro ti riempie la pancia, il Sig.ro ormai estinto che mai è stato aspirato. Calice d’òbito, vaso di coccio ricolmo di calce di calcio, il tuo fango fu braccio, fu ulna, fu vaso sanguigno; ora sei vaso d’elezione, pandora richiuso. Urna torna e orna questa vita scarna. Urga orgia di membra polverizzate. Orcio ricolmo degli scarti destinati all’orco. Le polveri di chi giacciono nelle tue viscere?
Forse la risposta sta riposta sul fondo pesto del paiolo. Si immagini perciò di avvicinare lo zigomo all’orlo della damigiana, con fare telescopico. Lo zebedeo, tuttavia, non vede alcunché, se non nero su nero. Castrato dal buio del fiasco l’occhio coglione fallisce. Si immagini invece di adagiare un orecchio a mo’ di coperchio sulla bocca circoncisa del cratere, la quale inizia a parlare la lingua ermetica delle conchiglie. Ecco che cresce un mormorio dal pozzo remoto. Vinci stipsi dixit… e per l’addome di marmo una nuvola di rumornoise vortica in un borborigmo. Nel meteorismo l’anima gassosa esala dal pertugio in un nuovo parto flatulente e finalmente dice:

Qui giace il sonetto pattume perfetto, nato da vereconda e numerosa famiglia, ora belletto sulle giacche degli anacronisti;
Qui giace il poema cavalleresco, disossato dalle ottave, malconcio fu costretto a trasmigrare nelle pagine dei fantastici;
Qui giace il romanzo, che non vide mai il Secolo Questo, malgrado i profanatori di tombe continuino a depredarne le spoglie nei tristi oblitori dei loro libri, già putridi fin dalle bozze, armati di penne bisturi e tasti nefasti con cui soddisfano la loro voluttuosa necrofilia;

Verrà un giorno in cui occorrerà far spazio nel colombario. Giungerà il tempo di rinunciare alla segretezza. L’urna riportata alla luce verrà strappata dal suo silenzio e svuotata. Lontano da tutti, per l’ultima volta, a duecento metri dai centri abitati — così vuole la legge —, la miscela del dissipato ferirà l’aria di impalpabili ideogrammi, bestemmia o commiato agli anni ma che lingua parli,
di’, di’, prima che sia troppo tardi
imperfetto
cosa proferisci mentre ti disperdi?
di’ di’ di’

 

Mattia Leo

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