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Ècfrasi II - Mattia Leo

Dalle spesse pareti di vetro il crepuscolo esita a dileguarsi. Tra i dardi a salice che perturbano il firmamento, un aereo in fase di allunaggio perde quota e di rutilanti riflessi riveste la sua corazza. L’alato satellite satollo si adagia senza fatica riconciliandosi alla terra genitrice, molo molto più consono alla sua discendenza bipede — assolutamente estranea alle circonvallazioni superne. Un rombo di motore, un ruvidoruido quadrilaterale, risuona ottundendo l’aria come tonfo sordo che non demorde e tordo — in ritardo — vortica tra le eliche nei due cannoni, annunciando la monolitica presenza con le basse frequenze del suo latrato.


Dove sono quegli omini fosforescenti e incuffiati che in genere sogliono dirigere l’orchestra dei romboidali? E chi c’è a guardia della torre di controllo?, quell’alto birillo, faro per insonni, cannocchiale per guardinghi, tubo per distratti… dal velivolo attraccato non scende nessuno. Lo shutall resta tutto sigillato.
Nel mentre, nel ventre dell’aeroporto, nella sala consacrata all’attesa, invasata da un tiepido lucore, gli omenoni impiccati nelle cravatte e le signore imbevute di senz’essenza transitano, biglietti e bagagli alla mano, senza curarsi dei barbigli che fuori stentano a morire.
In quel luogo, nel transetto che costringe a indugiare, si sparge un certo sopore, come sottile velo di vapore… una invisibile taciturnia, sicché tutti, zittiti i pesanti passi — da passo di tacco a punta di piedi —, prendono a smorzare il tono altezzoso del soliloquio telefonico. Le chiacchiere di chicchessia si schiantano nella coppa o scodella che è la bocca e si sfibrano in bisbiglio. Ciascuno, come placato da una spossatezza nuova, da una sonnolenza veglia, trova tana, con espressione sempre più assorta, nell’antro di dentro. Per la sala disattesa si diffonde il feedback degli altoparlanti guasti. Negli ànditi e per i cantucci un abominevole acufene. Le comunicazioni dell’annunciatrice scomunicano e ammoniscono. Dagli sdentati amplificatori messaggi, annunci e depistaggi fuoriescono confusi, i significati mescidati e sperduti tra refusi e reflussi di semantica — semantica: antica semenza, antica scemenza — negli intervalli di caotiche interferenze. Gli ingressi celesti mostrano i segni di un alfabeto tondo-cuneiforme concatenati a numeri arabi, mentre le cifre alfanumeriche digitali rilucono i loro messaggi criptati negli ampi
e piatti
schermi.
I metal detector irradiano i fantasmi che oltrepassano i controlli e di cui ben presto rimarrà nient’altro se non valigie a girar perenni su rulli rotatori.
Dal centro della sala, equidistante a ogni gate, dal pavimento plastificato e liscio si erge un bagaglio in policarbonato. Le fattezze sono quelle del monumento al Peso Ignoto. Scure le sei facce, come dado tetro, si mostra gravido di un carico smarrito. La maniglia a molla è rinfoderata, ma spunta dall’empio corpo come elsa di gladio nel petto della suicida. L’impugnatura a scomparsa è orfana della destra. Ogni cosa è adesso silenzio e diradamento. I passeggeri ne prendono le distanze. Paventano la larva della derelitta crisalide. Qualcuno la immagina brillare. In che modo il feto è fatale? La mammifera è menomata e dell’eroe e del figlio. Il luogo della sosta diventa un posto tementoso al cospetto dell’obliterato fardello. L’involucro cubico-rettangolare sta in posizione eretta — mica in decubito — poggiando su quattro rotelle girevoli. Il quadrupede ha il guscio rigido di grafite nero lucido, e le scanalature sul ventre e sul dorso rendono il suo aspetto del tutto simile a una bassa colonna dorica. Cinghie e scomparti gli conferiscono solidità; sortilegio insoluto sono altresì le silenti zip e il lucchetto dalle combinazioni ermetiche. Penzola, poi, un’etichetta, al cui interno è inserito un cartoncino bianco — lo spazio del nome —, ma nient’altro che nulla vi è impresso.
Il suo animo è profondo ventisette centimetri; per sessantanove volte si dimostra all’altezza del peso — quanti chili tradimenti? — e dei litri (trentatré) che può sopportare. La marca è Di do®, il simbolo una spada. Il bagaglio è tumido come il viso di un morto, è rimpinzato come un cassonetto. Bidone abbandonato nel Terminal 4. La sua anima già pregusta un’apparizione lunatica, oltre il fiumicello e il fiumicino, nell’ufficio dei lamenti — nel T6 (una navetta vi giunge) — a recriminar lo smarrimento, con piglio assente, al perduto viaggiatore.
La valigia non parla, eppure tutto dice:
elide, elude, elige.
Gli apparecchi risonanti friggono e ai nuovi tentativi di comunicazione corrispondono altrettante distorsioni. Si dolgono gli imbuti amplificatori ammorbati nei bronchi, e muti e costipati tossiscono ed espettorano. Le casse recidive crepitano nel focolare dell’epidemia. Da scoppi e fruscii il segnale è disturbato, finché due stonote annunciano una voce bla bla lesa. La, La (un’ottava su)… e le corde vocali, metalliche e catramiche, sono pronte per l’intermezzo:

Suor Rita Alcocco è attesa sulla retta via; ripeto: suor ritta in loculo sta tesa sulla via del retto;
Il signor Pig Malione è atteso con il suo big bagaglio al gate diciannove;
I passeggeri Doug e Ana Lee devono recarsi nell’ufficio dog-anale per discutere circa il dildo del loro cane;
Ultima chiamata per suor Rita Allocco: è attesa sulla dirotta via; ripeto: suor rotta in culo è attesa sulla virile retta;

Se è vero che gli apolidi nelle loro lingue sconosciute trovano patria in cielo, è altrettanto vero che a terra, i passeggeri anonimi, ingabbiati tra le vetrate delle sale d’attesa come granuli in clessidra, si fanno passanti, e scrutano malinconici gli aerei spiccare il volo, andare lontano, senza di loro, rimanendo soli e vani, a perder viaggi e a legger florilegi, in un’attesa rinnovata, a riavvolgere il nastro dei pesanti pollici.

 

Mattia Leo

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