Arrivò dal prato, ecco perché Hector Lenoir non poté sentire i suoi passi.
«Stanotte ero a Odessa» disse l’uomo.
Hector Lenoir alzò gli occhi e lo vide. Se ne stava in piedi, dentro il solito maglione di lana grezza e gli inseparabili pantaloni verdi luridi. Dietro di lui le fronde smeraldine del parco, il cielo bianco come capelli di vecchia donna non ancora del tutto schiava della demenza, una donna che guardava le cose con occhi infantili e pieni di sorpresa. Di prima mattina, in quell’angolo dei giardini, si respirava la putredine. Profumo di vermi e di sotterraneo, il bruno odore dell’humus, il retaggio della pioggia notturna, lo scintillio spento delle pozzanghere. Per quella putredine, solo per lei, prima di mettersi a scrivere, Hector Lenoir usciva ogni giorno e andava a passare un’ora sulla panchina che ormai era sua e di nessun altro.
Nel parco le persone vagavano o correvano o si smarrivano, e Hector Lenoir le osservava in preda a una commozione che lo lasciava ora esausto ora traboccante di vita. Si accendeva una sigaretta dietro l’altra e aspettava. Di tanto in tanto apriva a caso il volume delle Poesie di Natale di Brodskij, leggeva con poca voglia, si distraeva, respirava la putredine che lo riportava all’infanzia, si abbandonava.
Tuttavia, da qualche tempo, la sua solitudine veniva disturbata dall’arrivo dell’uomo. Non passava tutti i giorni e questo rendeva ancora più terribile la minaccia della sua comparsa. Di lui Hector Lenoir, come tutti gli altri abitanti di quella parte di Fortezza, non sapeva niente. Di chi non aveva nome non era dato sapere altro.
Senza chiedere, l’uomo si sedette accanto a lui sulla panchina, poggiò i gomiti sulle ginocchia e continuò:
«Ho passeggiato per il porto, mi sono fermato nel punto in cui lo dipinse Kandinskij. Dove ci sono le navi ci sono i topi».
«Sul porto di Odessa?» chiese Hector Lenoir.
«Il cielo sul porto di Odessa è d’oro come Odessa. Anche i topi sono d’oro» disse l’uomo.
«Conosco quel dipinto. Ti piace Kandinskij?».
«Mi piace» fece l’uomo. «Mi piace, a volte. Mi dai una sigaretta?».
Hector Lenoir ne prese due, fece accendere l’uomo, guardò il suo profilo informe, su cui svettava un doppio mento che lasciava immaginare verso quale forma lo avrebbe condotto il declino. Il suo corpo non era grasso: era gonfio. In grembo teneva stretta una borsa di tela, sul modello dei tascapane militari che era possibile trovare in qualsiasi mercato, sull’immancabile bancarella con gli scarti dell’esercito. Le scarpe da ginnastica bianche dell’uomo, bagnate di pioggia, sfregavano il terreno indurito sotto la panchina. Non riusciva a tenere ferme le gambe. Il suo corpo puzzava di estenuanti faccia a faccia con bottiglie di ogni tipo.
«Ce li hai i soldi per un caffè?» disse Hector Lenoir.
«No. Tu ce li hai?».
Hector Lenoir tirò fuori il portafogli. Prese qualche moneta e gliela consegnò.
«Però qui non c’è un bar» disse l’uomo; e si guardò intorno come se vedesse il parco per la prima volta.
«Già. Però sulla strada di casa qualche bar lo incontri, no?».
L’uomo annuì, continuando a tenere gli occhi fissi su un punto alla sua destra dove il viale faceva una curva e spariva dietro un dosso.
Grida di ragazzini eccitati risuonarono sotto il biancore del cielo.
«A Odessa era come qui. C’erano molti caffè sulla strada di casa. Solo che per tornare a casa ci vogliono giorni» disse soffiando fuori il fumo. «E sai perché me ne sono andato al porto?».
«Ok. Perché sei andato al porto?».
«Perché dovevo riflettere su quello che avevo appena fatto».
L’uomo spense sulla panchina la sigaretta fumata a metà e ripose con cura il mozzicone dentro il tascapane. Quindi andò avanti.
«Mi trovavo a Odessa da qualche ora. E poi non so come sono entrato in una casa, e c’era una famiglia seduta intorno alla stufa. Uno dei bambini – aveva dieci anni, più o meno, è corso a nascondersi dietro al padre. Sei Isaak?, gli ho chiesto, e all’inizio lui non ha detto niente. Allora mi sono avvicinato e il padre si è fatto da parte come una tenda di organza sollevata dal vento dell’estate. Mi sono inginocchiato davanti al bambino e gli ho chiesto di nuovo, sei Isaak? Lui a quel punto ha fatto sì con la testa. Isaak!, mi sono messo a urlare. Isaak, Isaak! Isaak! Il bambino ha iniziato a piangere, allora io l’ho sollevato, l’ho stretto forte, molto forte. E mentre volteggiavo stringendo Isaak ho visto che la famiglia era scomparsa. Hai undici anni Isaak?, gli ho chiesto. Sei nato nel 1894, Isaak? Dimmelo! Sei nato il primo giorno di luglio del 1894, Isaak? Sì, signore, ha singhiozzato lui, e – quanta gioia, quanta quanta spaventosa gioia – senza pensarci mi sono messo a recitare, a urlare: Il comandante! Il comandante della sesta divisione ha riferito… ha riferito che la città di Novograd-Volynsk è caduta oggi all’alba! Lo stato maggiore è uscito da Krapivno, e il nostro convoglio, chiassosa retroguardia, si è allungato sullo stradone, sull’indimenticabile stradone che da Brest conduce a Varsavia e che Nicola I ha costruito sulle ossa dei contadini! Ho urlato questo e altre cose che sapevo a memoria, mentre ondeggiavo per la stanza con il piccolo Isaak in braccio. Lui mi supplicava, chiedeva qualcosa, ma io non potevo sentirlo, perché il chiasso della nostra retroguardia mi rimbombava nelle orecchie, così come i nostri passi sul terreno facevano un rumore infernale, le gamelle contro i fianchi suonavano un concerto di latta, i boschi intorno a noi tacevano, stupiti del nostro passaggio. Intorno a noi fioriscono i campi di rossi papaveri, il vento del meriggio gioca tra la segale giallognola! Il grano saraceno è come una vergine in boccio e s’innalza! S’innalza! S’innalza all’orizzonte… E allora ho detto, Isaak! Sei tu, Isaak! Questo è il 1905, vero Isaak? L’ho sentito annuire con un sussulto, allora ho allentato la presa, ho fatto scivolare Isaak sul pavimento e ho visto che era morto. Morto soffocato… Lo avevo stretto troppo…».
Hector Lenoir rimase zitto e sentì un singhiozzo provenire dalla gola dell’uomo. Non era la prima volta che lo ascoltava piangere. Piangeva in modo sommesso, quasi nascosto, come se non si rendesse conto delle lacrime che gli scendevano dagli occhi sulle guance arrossate dal freddo. Ignorando la nausea che gli indumenti di quell’individuo gli suscitavano, Hector Lenoir gli posò una mano sulla spalla.
«Hai capito perché sono andato al porto?» disse l’uomo in un rantolo. Tre corvi planarono sul prato. Hector Lenoir li osservò saltellare sull’erba, nerissimi, creature di lucentezza innaturale. Desiderò essere uno di loro.
«Adesso scusami, ma devo andare a casa» fece l’uomo e si rimise in piedi. «Ci vediamo».
Sparì come il viale dietro il dosso. Le cinghie metalliche del tascapane tintinnarono a lungo, anche dopo che la figura di quello strano essere si fu allontanata. Hector Lenoir si fece un’altra sigaretta. Gli venne voglia di buttare la giornata alle ortiche, andarsi a ubriacare, spendere una cifra ragionevole al ristorante romeno Viva Las Vegas, telefonare a qualcuno, forse l’ombra di un amico, che potesse commiserarlo per tormenti che non gli appartenevano.
Invece se ne andò a casa. Attraversò il parco senza guardare, sbucò in strada, si catapultò nella folla. Gli impianti di areazione delle rosticcerie già iniziavano a soffiare gli odori delle cucine; gli ingressi dei negozi si aprivano e si chiudevano su piccoli mondi ignoti. Decorazioni luminose e colorate erano apparse dappertutto, da un giorno all’altro, e grazie a loro la città aveva preso le sembianze di una festa labirintica. Sovrappensiero, Hector Lenoir si buttò in una svolta e passò accanto al vecchio cinema porno ancora in attività, poi percorse strade sempre più silenziose, immerse nella grisaglia dell’inverno, fino alla via del bazar di Rasputin.
Rasputin era tutto tranne che un russo; di certo non somigliava a un mistico, così come il suo garage a cui i clienti accedevano chini, quasi strisciando sotto una saracinesca aperta a metà, non era un bazar in senso letterale. Piuttosto era un luogo in cui si faceva del commercio in base alle opportunità del giorno, oltre a essere, a conti fatti, il buio tugurio in cui Rasputin viveva. Quando Hector Lenoir entrò, trovò Rasputin intento a radersi, in mutande, alto, scheletrico e cifotico, a torso nudo, in piedi davanti a un pezzo di specchio appeso al muro.
«Cosa cerchi, professore?» chiese il commerciante senza voltarsi.
«Sigarette» disse Hector Lenoir. «Bahman. Cinque pacchetti».
«Te ne posso vendere una stecca».
«Quanto?».
Rasputin disse una cifra.
«Va bene» disse Hector Lenoir.
Rasputin si pulì il viso e il collo dalla schiuma residua, con un asciugamano che subito dopo lasciò cadere a terra. Andò a frugare in una scatola di cartone e ne tirò fuori una stecca di Bahman.
«Che hai, professore?» disse porgendo a Hector Lenoir la confezione morbida e stropicciata.
«Giornata strana».
«Ti serve qualcosa per distrarti? Come è andata l’altra notte con il nostro amico? Vuoi che te lo mandi anche stasera?».
Hector Lenoir scosse la testa. Tentò di ricordarsi il corpo dello studente universitario con cui Rasputin gli aveva combinato un appuntamento la settimana precedente, ma non gli veniva in mente nulla. Non un dettaglio, un occhio, un centimetro di pelle, un nome, un timbro di voce, lo scintillio di un’unghia candida nell’oscurità della sua stanza da letto, un ciuffo di peli, una parola sfuggita prima, durante o dopo il surrogato di scopata che si era svolto come uno spettacolino di varietà dell’oltretomba. Il ragazzo era entrato nell’appartamento senza bussare – forse era stato Hector stesso a lasciare la porta aperta perché il giovane lo sorprendesse – e con la medesima discrezione se ne era andato mentre Hector Lenoir iniziava a chiudere gli occhi, come in un sogno alle prime ore della notte. Su questo i ragazzi e le ragazze del giro di Rasputin erano i migliori; vera e propria materia onirica, individui addestrati alla fantasmagoria.
«Come vuoi» disse il commerciante, probabilmente rassegnato davanti all’espressione ebete che Hector Lenoir sapeva di aver assunto. «Comunque ci tenevo a dirti che alla fine ho letto il tuo ultimo libro».
«Ah» fece Hector Lenoir. «E che ne pensi?».
«Preferisco il precedente. Non so bene perché. Forse parla meglio di noi. Forse è solo più divertente».
Hector Lenoir sorrise. Quel tipo di discorsi lo imbarazzavano, non sapeva mai cosa rispondere. Per come la vedeva, quelli che leggevano la sua roba – così come coloro che la valutavano, tentavano di correggerla, di migliorarla e alla fine la davano alle stampe – erano tutti dei perfetti idioti, eppure non sbagliavano mai.
Tornò alla luce del sole e gli sembrò che, da quando era entrato nel bazar, fossero passati giorni. Si diresse verso casa con le sigarette ben nascoste in una tasca interna del cappotto. Se la era fatta cucire apposta: ampia, resistente, perché contenesse e trasportasse cose di assoluto valore, oggetti che non potevano essere mostrati al mondo: libri rari, droghe, profilattici, analgesici, portafortuna, appunti, quaderni e altra chincaglieria che a contatto con il suo fianco prendeva vita e dispensava conforto ogni volta che Hector Lenoir camminava per le strade della città.
Mentre infilava la chiave nella toppa del portoncino di casa, gli tornarono in mente alcune delle parole dell’uomo al parco. Il comandante. Il comandante della terza divisione ha riferito. Scosso da un brivido di freddo, varcò la soglia e si ritrovò nel suo esilio.
Seduto alla scrivania, con una Bahman tra le dita, guardò a lungo lo schermo del computer acceso: il foglio bianco; la possibilità di un altro fallimento. Era quasi ora di pranzo. Scelse un libro, aprì un cartoccio di prosciutto e se lo portò al tavolo da lavoro. Il libro era un romanzo poliziesco, la storia di un omicidio nei bassifondi di una Vienna stilizzata, di cartapesta, popolata di figure prevedibili e modellate con uno scalpello da muratore. Quel genere di porcherie letterarie lo mandava in estasi. Non esisteva niente che si avvicinasse alla verità come quelle opere senza pretese, macilente e volgari, scritte per essere dimenticate, pubblicate per essere consumate e poi rivendute, buttate nell’immondizia, bruciate. I libri di quella risma erano in grado di riportarlo all’esperienza originaria della lettura. Lo assolvevano dai suoi peccati.
Dopo qualche minuto, Hector Lenoir migrò dalla scrivania al divano. Si mise comodo e solo in quel momento si accorse di aver portato con sé il prosciutto e di aver dimenticato il libro.
Poco male, pensò.
L’appartamento giaceva in un tiepido abbandono, un abbandono dignitoso, un abbandono che faceva felici quei visitatori che di tanto in tanto si affacciavano dalle sue parti con la vaga intenzione di parlargli, di conoscerlo, di imporgli pensieri e riflessioni di cui a Hector Lenoir non importava nulla. Li faceva entrare e quelli rimanevano a bocca aperta al cospetto dello scarso arredamento della casa – la scrivania, il divano letto, un televisore, libri dappertutto, qualche fotografia che non diceva più niente appesa al muro. I loro occhi spalancati parlavano: quindi è così che vive l’autore di ***** e di ** ***** ***** **** e perfino del deludente ****** * *****. Dunque è qui che sono stati elaborati i furibondi brandelli di ********. Se avesse potuto, avrebbe raccontato delle ragioni per cui era andato a vivere in quel buco, ma era evidente che per nessuno la sua confessione avrebbe potuto significare qualcosa che valesse più di tutte quelle pagine mediocri che negli anni aveva dato in pasto agli editori, alle librerie, ai lettori, ai premi, ai critici, ai giornali, ai traduttori; ai mangiatori di sabbia; tenendosi le migliori, le più vive, per sé. Ciò che i visitatori della casa davvero cercavano era un posto di morte: il luogo che, dalla scomparsa del suo illustre inquilino, nessuno aveva più toccato, per rispetto o per superstizione. Che lui fosse lì, in piedi accanto a loro, ancora vivo e presente non importava.
Ascoltate: sembra quasi di sentirlo respirare; sembra che sia ancora lì che batte sui tasti. Guardate l’albero di Natale. Lo hanno lasciato addobbato, perché così era quando Hector Lenoir è morto. Sembra la casa di un fuggiasco della DDR.
Si trattava di un’investitura perversa – di cui lui stesso era stato schiavo, prima che sopraggiungesse il disgusto – come se la letteratura si fosse guadagnata il titolo di disciplina saprofaga. Il prosciutto masticato gli scivolava, dolce e salato insieme, giù per la gola.
Nella sua mente iniziava a insinuarsi il sospetto – a dire il vero ben più di una certezza, forse uno squallido precipitato della rassegnazione – di non avere, neanche quel giorno, la forza di mettersi al lavoro. Andava così da troppo tempo. La scrittura, che da sempre Hector Lenoir aveva considerato il proprio strumento di sopravvivenza, la lingua con un solo parlante al mondo in grado di mettere a nudo l’inesplicabile e di farlo apparire, d’improvviso, ridicolo, era diventata sua nemica e lo aveva escluso, anche solo provvisoriamente, dalla cerchia degli individui che vivono sorretti da qualcosa. La pigrizia e la certezza di essere uno scrittore tutto sommato scadente lo stavano costringendo alla resa, in una realtà in cui un pacchetto di Bahman valeva più di una pagina soddisfacente, infinitamente di più. Foderarsi i polmoni di catrame e la pancia di cibo, ascoltare di tanto in tanto vecchia musica, farsi mandare a casa uno dei ragazzi di Rasputin erano piaceri che la letteratura non era più in grado di eguagliare.
Hector Lenoir rifletteva su questi argomenti ormai con una certa serenità d’animo, e così, dopo il pasto, invece di tornare a spremersi sulla pagina bianca, si lasciò andare a un sonno tanto breve quanto profondo.
Al risveglio sentì che gli occhi gli facevano male. Tornò al computer, si accese una Bahman e si mise a rileggere le ultime frasi che aveva scritto ormai settimane addietro. D’un tratto gli parvero buone, in maniera inaspettata e miracolosa, eppure gli era ancora impossibile dar loro un seguito. Provò allora con un vecchio trucco: l’espediente del ladro. Scrisse: «Il comandante. Il comandante della terza divisione ha riferito». Si arrestò. Cercò di ricordare le parole dell’uomo del parco, quelle che avrebbero permesso alla frase di compiersi, ma ad accompagnare l’informazione relativa al fatto che il comandante della terza divisione aveva riferito c’era solo il vuoto profondo.
In preda alla frustrazione, decise di distrarsi un po’: andò su internet e cercò il dipinto di Kandinskij che raffigurava una veduta del porto di Odessa. Le acque docili accarezzavano il molo di pietra, bianche come il cielo, mentre una luce dorata si posava sulla prospettiva delle poppe delle barche da pesca all’attracco, e in fondo al molo disegnava la sagoma di un brigantino dallo scafo nero, con le vele arrotolate e nessuna traccia di equipaggio a bordo. Nel punto in cui il molo curvava verso la città, Kandinskij aveva disegnato una minuscola figura umana, forse un uomo, in piedi accanto a un lampione, intento a guardare l’acqua. Che sia lui il mio amico, si disse Hector Lenoir, e quel pensiero gli suscitò un ghigno.
Si chinò verso lo schermo e ingrandì il dettaglio dell’ombra sul molo. Adesso riusciva a riconoscerlo con certezza. Era lui, bolso e rattrappito sul suo doppio mento, con il tascapane appeso alla spalla e le scarpe da ginnastica che sembravano mangiate dai topi. Nell’immagine si avvertiva un lieve tremore, l’inquietudine, il panico dell’omicida. Solo poco prima aveva soffocato quel bambino, il piccolo Isaak, lo aveva ucciso per troppa gioia, e ora se ne stava, dettaglio insignificante, a tremare nel pomeriggio.
Hector Lenoir pensò che avrebbe continuato a osservarlo fino a che non se ne sarebbe andato. Prima o poi girerà i tacchi e lascerà il dipinto a una vera quiete, si disse. La sua presenza non fa che gravare di minaccia la discesa della sera sul porto. Nel quadro c’è troppa solitudine, per colpa sua.
Guardò l’ora, non erano neanche le tre. Decise che era l’ora di mandare tutto all’aria e si versò un bicchiere di vodka. In fin dei conti, bere agli orari sbagliati gli aveva sempre fatto lo stesso effetto dell’accumulare pagine su pagine. Però era più facile, in più gli toglieva il dolore. Con il bicchiere in mano prese a camminare in tondo nella stanza.
Il comandante. Il comandante della terza divisione ha riferito. Il nostro convoglio. Chiassosa retroguardia.
Perse tempo a rimuginare sul niente, facendosi adescare dai nomi che gli saltavano in mente e lo portavano in strani anfratti, miseri vicoli ciechi. Dosò i bicchieri con falsa parsimonia e nel giro di un’ora si sentì perfettamente ubriaco.
La chiassosa retroguardia. L’indimenticabile stradone che da Brest conduce a Varsavia.
Dal fondo dello stomaco gli salì un rigurgito. Devo prendere aria, stasera uscirò, si disse. Chiamerò qualcuno e mi farò portare a spasso, in uno di quei locali che odio con tutta l’anima, in uno di quei caffè dove si incontrano i colleghi e ci si siede per scambiare ovvietà e pettegolezzi, per giocare con i doppi sensi, per discutere delle prospettive della scrittura a Fortezza, questa palude delle lettere in cui le librerie sono diventate cessi pubblici stroboscopici e i cessi pubblici non hanno più quel profumo di rivolta di quando ci pisciavamo a gambe larghe, credendo di leggere Rimbaud negli annunci erotici vergati a pennarello sui muri. Una notte brava, ecco cosa ci vuole. Magari una rissa. O un tentativo di suicidio.
Si lasciò andare a quel tipo di fantasticherie polverose che riemergevano dalla memoria della sua giovinezza. Risalivano in superficie come cadaveri gonfi che spuntavano a uno a uno dalle acque odorose del porto di Odessa. I cadaveri del 1941 e i cadaveri del 1905, i cadaveri del 3550. Eppure, tra quella flotta di corpi che presidiavano il molo, non c’era traccia, neanche l’ombra o il fantasma di un vero ricordo. Hector Lenoir chiuse gli occhi e si mise a scandagliare i volti dei morti, alla ricerca di un’espressione familiare, ma vide solo uomini e donne sfigurati, e quello spettacolo lo fece sentire estraneo alla razza umana. Allora iniziò a supplicare. Chiese pietà all’alcol che lo stava, progressivamente, trasferendo in un territorio in cui la malinconia non aveva oggetto. Un terreno pericoloso. Un gradino di pietra affacciato sulle acque del mai accaduto. Ti scongiuro, disse. Ti scongiuro, un ricordo. Un ricordo reale. Solo uno per far sì che anch’io come loro riemerga, che possa io rivedere le stelle di Odessa e le luci della città, così tante e disordinate da sembrare lontane. Cosa sono tutti questi corpi che vedo galleggiare come barchette tranquille? Una memoria costruita dall’alcol? La memoria parallela in cui ogni scelta porta alla distruzione? La grande memoria di ciò che non è mai accaduto e che, nonostante questo, esiste in forma di vestigia, di rovina, di fossile, di ossario spaventoso, di archivio schizofrenico? Anche il mai accaduto lascia una traccia, disse ad alta voce Hector Lenoir, e andò alla finestra e guardò Fortezza, la grande città costruita sulla memoria di cose mai esistite.
Il mai accaduto. Il mai accaduto.
Corse – se quel claudicante passo da zombi poteva dirsi correre – al computer e scrisse: il mai accaduto è la salvezza.
Il comandante della terza divisione ha riferito.
Si lanciò sul pacchetto di Bahman e prima di accenderne una se la rigirò tra le dita, come se sulla carta a combustione rapida potesse trovarsi impresso ciò che non riusciva ad afferrare. Dietro la sigaretta, sfocato, intravide l’albero di Natale spento. Per chi ho addobbato questo abete di plastica?, si chiese. Per chi, dio porco?
Arrancando si chinò accanto all’albero e infilò la presa per accenderlo. Una danza di scintille gialle si diffuse in tutta la stanza e Hector Lenoir riuscì quasi a sentirne il calore tormentargli il viso. Si abbandonò sul pavimento e rimase per qualche secondo ad ammirare lo spettacolo delle luci arrotolate intorno ai rami sintetici, tra le palline gialle, rosse, blu e verdi che tanti anni prima aveva comprato, tutto contento, in un casalinghi gestito da cinesi. Erano tempi diversi, si disse. Io ero diverso. Uscire per andare a comprare delle merda di luci era una festa. Fortezza era diversa: somigliava quasi a una possibilità.
Come un rictus, come la deformità del protagonista di quel magnifico romanzo di Hugo che Hector Lenoir aveva letto da ragazzo e che non aveva mai dimenticato, un sorriso gli sconvolse le guance.
Intorno a noi fioriscono i campi di rossi papaveri, il vento del meriggio gioca tra la segale giallognola…
A quel punto, senza averlo desiderato né autorizzato, Hector Lenoir si mise a piangere. Poi si sentì sollevare, si sentì sollevare e stringere. Qualcuno lo aveva sollevato e lo stringeva e lo faceva volteggiare nella stanza. Hai undici anni, Hector Lenoir? Sei nato nel 1986, Hector Lenoir? Sei nato uno degli ultimi giorni di maggio del 1986, Hector Lenoir?
Sì, signore, rantolò Hector Lenoir, e provò gioia, molta spaventosa gioia.
Il comandante. Il comandante della terza divisione ha riferito…
Una forza sovrumana e piena di premure lo teneva a sé; Hector Lenoir provò a dire qualcosa, ma non ci riuscì. Il bruciore dell’alcol e il peso del tabacco dentro il cranio avevano trasformato il suo corpo in un sacco inerte, abbandonato a un angolo di strada. Sapeva di essere ancora nell’appartamento, ma non riusciva a resistere alla forza che lo stava trascinando nel punto più fondo della sua vera casa: la sua memoria devastata. Stava viaggiando a bordo di un ottovolante eterno, dai cui seggiolini la prospettiva delle persone rimaste a terra altro non era che una confusa macchia di colori sorridenti.
Con le ultime forze, Hector Lenoir andò a sdraiarsi sul divano. Forse sentì il rumore di una porta richiusa. A poco a poco riprese a respirare lentamente. Dopo qualche minuto, aprì gli occhi e vide il soffitto bianco come il cielo di Odessa dipinto da Kandinskij, a margine l’oro di qualcosa che forse era il tramonto o forse il riflesso delle lucine dell’albero di Natale. Rimase paralizzato fino a che non scese la sera.
L’insegna del cinema a luci rosse si spense per un istante, proprio mentre Hector Lenoir passava di lì. Nell’abitacolo di un’auto parcheggiata dall’altra parte della strada intravide la sagoma di un uomo. Forse aspettava che lui girasse l’angolo per guadagnare l’ingresso del cinema. Hector Lenoir affrettò il passo e lascò che l’uomo tornasse a sentirsi solo.
Dopo essere uscito di casa, nella notte, ancora mezzo ubriaco, aveva deviato verso il bazar di Rasputin, ma lo aveva trovato chiuso, così aveva scelto l’unica strada che potesse percorrere anche a occhi chiusi. Camminando un lungo viale pieno di locali aveva pensato: e così è questa la vita.
In venti minuti raggiunse il parco. A quell’ora i viali erano deserti e strani sussurri si levavano dai cespugli e dalle macchie più fitte di alberi. Drogatelli adolescenti, prostituti e prostitute, amanti spinti dalla passione in quella tenebra discreta, si affrettavano nelle loro faccende prima che calasse il gelo: Hector Lenoir sorrise al pensiero della loro esistenza. Quando arrivò nei pressi della sua panchina, appartata in un’ansa del viale per metà illuminata dalla luna e per metà divorata dall’ombra, si fermò per accendersi una Bahman. Poi puntò gli occhi verso il buio e capì di non essersi sbagliato. Seduto sulla panchina c’era qualcuno. Senza preoccuparsi di disturbare, Hector Lenoir si avvicinò.
«Oggi sono stato a Odessa» disse.
L’uomo con il tascapane verde alzò gli occhi e sorrise. Hector Lenoir si sedette accanto a lui. Prima che l’uomo glielo chiedesse, gli passò il pacchetto di sigarette. Fumarono, come prefigurazioni di pallide apparizioni ospedaliere, nella notte del parco. Il freddo di tanto in tanto li faceva sobbalzare: tiravano una boccata e smettevano di tremare.
«Ho passeggiato per il porto. Mi sono fermato nel punto in cui lo dipinse Kandinskij».
«E cosa hai visto?».
«Le barche» disse Hector Lenoir. «E l’acqua».
Poi ci pensò su e aggiunse:
«Il paradiso».
Luciano Funetta
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