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Fiabe di Fortezza - La morte delle linee

Per le strade di Fortezza, fino ad alcuni anni fa, si aggirava un uomo infame. Era un pittore. Per vivere lavorava come centralinista. Il suo compito era sondare le linee telefoniche morte, qualsiasi cosa questo significasse. Era così che la raccontava ai conoscenti del bar Figueroa: chiamo le linee morte e le ascolto. A volte ne viene fuori qualcosa di interessante.

Quando lo avevano assunto gli avevano presentato il resto della squadra. All’inizio lavoravano in venti. Nel giro di un mese erano rimasti in dieci e a quel punto la situazione era precipitata, perché bisognava avere i nervi saldi per fare quel lavoro. Di quei dieci, sei erano spariti di punto in bianco, senza neanche firmare le carte di dimissioni. In quanto agli altri tre, un giorno avevano annunciato di essere stati contattati da un’azienda che si occupava di vendita, una compagnia con sede dall’altra parte della città, in un grosso capannone pieno di telefoni che squillavano tutto il giorno e tutta la notte. Avevano accettato l’offerta. Il pittore non aveva mai scoperto se quella ditta esistesse davvero, non gli era mai importato. Così era rimasto il solo a occuparsi delle linee morte. Nessuno sapeva niente della sua attività artistica.
Il pittore viveva in una casa al piano interrato. Un’eredità, diceva lui, inaspettata. Vi aveva stabilito il suo atelier. Lì dentro conservava tutto quello che aveva dipinto nell’arco di vent’anni e che non aveva mai mostrato ad anima viva. Dormiva su un materasso buttato sul pavimento. Per cucinare usava un fornello a gas da campeggio. I pochi vestiti che aveva li portava alla lavanderia all’angolo. Era un posto gestito da strani individui che non parlavano mai, asiatici lugubri. Facevano sempre un lavoro eccellente e a buon mercato.
Era così che il pittore viveva, tra il centralino, il bar Figueroa, la lavanderia e la casa-atelier. Usciva molto presto, lavorava per sei-otto ore, poi a volte andava al bar e beveva da solo, seduto a quello che ormai era diventato il suo tavolo, accanto all’ingresso, e quando si sentiva pronto si avviava a casa e riprendeva la tela, il retablo o l’icona che aveva lasciato in sospeso la notte precedente. Intorno alle due del mattino si spogliava e si coricava sul materasso. Non sempre gli era facile prendere sonno. Continuava a vedere i disegni nel buio, soprattutto le loro parti monche o incomplete. Rimuginava sulle soluzioni che avrebbe potuto adottare il giorno dopo; passava in rassegna il materiale da lavoro che aveva e quello che avrebbe dovuto comprare, si lasciava irretire dalle forme parlanti dei suoi disegni, mandava tutto a memoria, rievocava i maestri, invocava il loro aiuto. Dove regnava l’incompiuto loro erano già arrivati molto prima di lui. Così li chiamava per nome e chiedeva, con un sussurro, tu come faresti, o meglio, come hai fatto ad arrivare alla tua compiutezza? Come hai fatto a stabilire che quella era compiutezza e non una semplice stazione intermedia sulla strada di un fallimento più grande? Per tutto il tempo, però, faceva attenzione a non chiedere il loro giudizio. Sarebbero stati impietosi. Se avessero potuto vedere i suoi quadri, i maestri lo avrebbero senz’altro licenziato come pittore di terza o quarta categoria. E così, bestemmiando e sputando sul pavimento, il pittore alla fine si addormentava.
Al risveglio gli facevano male gli occhi. Li aveva tenuti chiusi troppo stretti, perché dormiva come un disperato che fa di tutto per non sentire i crolli della città intorno. Il dolore durava fino a che non riusciva a prepararsi una caffettiera da quattro e a berla rannicchiato sul bordo del materasso, guardandosi i piedi nudi, le unghie fungine, le crosticine sanguinolente tra le dita. Dietro le finestrelle a livello strada già si vedevano le scarpe dei primi passanti. Tonfi di passi sulle grate del marciapiedi. Si arrampicava su uno sgabello e guardava fuori. Ancora niente pioggia.
La doccia era rotta, così il pittore si metteva nudo e si lavava a pezzi. Indossava vestiti puliti e usciva. In meno di un’ora raggiungeva la sede del centralino. Il gabbiotto all’ingresso dell’edificio era vuoto, come sempre. Non aveva mai visto nessuno lì dentro, così sfilava davanti alla postazione deserta, timbrava la scheda di presenza, imboccava il piccolo corridoio che portava alla sua sezione, accendeva il computer, indossava le cuffie e lasciava che il software componesse il primo numero.
Di solito la ricognizione di una linea morta durava non più di quindici minuti. Il suo compito era ascoltare e prendere appunti. Negli ultimi anni le linee morte di Fortezza erano aumentate in modo esponenziale, quasi la città fosse oggetto di un tetro spopolamento o i suoi abitanti avessero scelto di isolarsi per sempre tagliando ogni comunicazione possibile con quello che si trovava fuori dalla loro case. La morte delle linee telefoniche era il primo segnale. Per questo a lui stava il dovere di censirle, verificando che non si trattasse di errori o di misure prese in seguito a mancati pagamenti. Quindici minuti, dunque, era il tempo limite, oltre il quale veniva dichiarata la cessazione della linea e segnalata alle autorità la scomparsa del titolare. Cosa ne fosse poi di quelle segnalazioni era qualcosa su cui il pittore aveva imparato a soprassedere. A conti fatti non gli interessava. Svolgeva il suo compito: ascoltava il tempo del vuoto scandito da gelidi quarti d’ora di fruscii e impercettibili tocchi, come zampette che correvano lungo i cavi che coprivano l’intera città. Annotava:
5735009 – niente da segnalare
5731270 – niente da segnalare
5734441 – niente da segnalare
5736208 – una donna piange per quattro secondi
5732591 – niente da segnalare
5738847 – un disco suona per due minuti e venti una canzone sconosciuta in lingua francese
Otto ore di lavoro. Trentadue linee morte controllate. Quando rifaceva il corridoio per andare a timbrare il cartellino di uscita, il pittore si fermava sempre alla fotocopiatrice per fare delle copie dei rapporti. Gli originali finivano nel casellario. Le copie, invece, nella tasca della sua giacca. Al Figueroa, dopo la prima ombra di vino acido, le tirava fuori per rileggerle. La maggior parte delle volte non ci trovava niente di buono. Le solite voci di bambini nel rumore bianco, passi dentro stanze vuote, orologi a cucù che cantavano a caso. Su quella roba aveva già consumato un paio di periodi, quindi non poteva più usarle per dipingere. Altre volte invece si metteva a rimuginare e nel frattempo i bicchieri di vino si accumulavano. Le facce del Figueroa si trasformavano in panorami guardati attraverso un vetro bagnato, e sopraggiungeva il nulla. All’improvviso, il pittore si alzava, lasciava i soldi del conto sul tavolo e se ne andava senza salutare. Era andata così quando aveva dipinto, in una sola notte, una delle sue opere più riuscite, intitolata appunto Un disco suona per due minuti e venti. Ne era venuta fuori una buona tela. Avrebbe anche potuto venderla, se avesse voluto, ma a chi? In che modo? Non aveva idea di come si vendesse un quadro e non se ne era mai interessato. Quello che c’era di bello nel dipingere si esauriva una volta finito di farlo. Su ogni opera portata a termine tracciava le sue iniziali, W.S. e un anno casuale. Aveva opere datate 1945, 1601, 17 a.C., 5771, 746, 2020 e così via. Ogni volta che arrivava a segnare una data su un dipinto, il pittore andava a dormire felice. Se così si può dire, sentiva dal bagno le blatte cantare.
La casa-atelier, dunque, traboccava di un’opera di tutto rispetto, e la città pullulava di linee morte. Più le linee morivano più l’opera si arricchiva. Fortezza era una città sottomarina, percorsa da scie argentate di limaccia e da ombre elettriche di murene. Il pittore vagolava per le strade, di giorno in giorno, assorto nelle sue elucubrazioni sull’arte, mentre intorno a lui la vita continuava a trasformarsi in modo impercettibile, scandita da mute sparizioni, almeno dieci alla settimana. A volte, per abitudine, andava al cinema, ma si addormentava a metà della proiezione. Si risvegliava sui titoli di coda. Tornava a casa senza nessuna voglia di dipingere. Era sicuro che le cose sarebbero andate così fino all’ultimo dei suoi giorni.
5730001 – niente da segnalare
5735377 – ancora niente
5731029 – niente
Quella mattina aveva più che mai l’impressione di essere l’unico essere umano all’interno dell’edificio. Sono tutti in vacanza, aveva pensato. O in sciopero. Per questo, quando dopo la decima linea esplorata e dichiarata morta era andato nel salottino bianco dedicato alle pause, si era stupito di vedere, in piedi davanti al distributore di caffè, un uomo che gli dava le spalle.
«Buongiorno» gli aveva detto.
L’uomo si era voltato lentamente. Il pittore aveva guardato la mascella squadrata, il taglio di capelli impeccabile, la ridicola cravatta decorata con sagome di dinosauri sorridenti.
«Lei è W.S.? L’addetto alle linee morte?» aveva detto il tizio.
«Sì».
«Cercavo proprio lei. È in pausa? Come va il lavoro?».
«Per oggi ancora niente da segnalare, signore».
«Uhm… una bella rottura».
«Veramente no, signore. Mi piace il lavoro, anche quando è così».
«Lo so. Ho letto la sua scheda. È vero che è anche pittore? Cosa dipinge?».
Il pittore aveva abbassato gli occhi. Li aveva posati sulle mani che l’uomo teneva chiuse in grembo. Erano mani perfette, con unghie rotonde e rosee. All’indice della sinistra l’uomo portava un grosso anello d’oro con una pietra incastonata, una pietra blu come la notte. D’istinto aveva spostato lo sguardo sulle proprie mani. Aveva le unghie sporche di colore. Decine di strati di vernice sovrapposti che davano origine a una crosta del colore dell’oppio.
«Davvero è scritto sulla mia scheda?».
«Si capisce. Allora? Qual è il suo campo?».
«Dipingo quello che a volte sento nelle linee morte».
«Interessante!» aveva esclamato l’uomo. Solo allora si era presentato.
«C’è stato un cambio lassù, o meglio laggiù, insomma alla direzione. Sono il nuovo responsabile delle sezioni di ricerca. E mi dica, le rende la sua pittura?».
«No» aveva detto il pittore.
«Peccato, peccato» aveva detto come tra sé il responsabile. «Perché vede, come posso dire, è probabile che il suo lavoro qui non sia più richiesto».
Il pittore lo aveva guardato stringendo le palpebre. Di sicuro era uno scherzo. Uno con quella cravatta non poteva che essere un attore. Ma a chi poteva saltare in testa di prenderlo in giro in quel modo, se nel palazzo, da quando gli ultimi tre colleghi se l’erano filata, non aveva mai incontrato nessuno?
«Le linee morte» aveva detto il responsabile «come dire, sono morte. Abbiamo deciso che da oggi non ci interessano più. Tenerla qui, signor S., sarebbe una spesa inutile per noi. Inoltre non possiamo neanche dirottarla sui rapporti con gli utenti vivi, perché, beh, lei capisce…».
«Non capisco. In realtà no, mi perdoni».
Il responsabile era scoppiato a ridere.
«Ma lei si rende conto che da vent’anni lei si occupa di comunicazioni telefoniche in cui non c’è nessuno che parla?».
«A volte parlano, veramente».
«Chi? Chi, me lo dica? Chi crede di sentire?» la voce del responsabile si era fatta all’improvviso seria. Lo stava accusando di qualcosa, qualcosa che il pittore non riusciva a cogliere.
«Non lo so».
«E lei? Lei parla? Hai mai parlato con qualcuno?».
«No».
«Capisce allora» aveva continuato il responsabile «che il suo lavoro è roba che uno qualsiasi degli internati di questa città potrebbe fare?».
«Ma siete stati voi a istruirmi su…».
«No! Non noi. Lei non è stato assunto da noi».
Il responsabile aveva tirato fuori dalla tasca della giacca un portasigarette d’argento.
«Sono marocchine. Ne vuole una?».
Il pittore aveva preso la sigaretta con le dita tremanti.
«Mi dispiace, S. Il suo lavoro non è più richiesto. Che vadano a farsi fottere le linee morte, mi scusi. Comunque abbiamo già segnalato il suo nome alle maggiori agenzie di collocamento. Non avrà difficoltà a trovare un altro impiego con le sue… competenze. Lo stipendio di questo mese le verrà pagato regolarmente».
Qualcosa era passato fuori dalla finestra del salottino. Il pittore lo aveva visto con la coda dell’occhio. Qualcosa di verde e di bruno, rapidissimo. Il responsabile aveva spento la sigaretta nel fondo di caffè che restava nel suo bicchiere che poi aveva buttato senza guardare nel grosso sacco nero che pendeva accanto al distributore.
«Stia bene, S. E continui a dipingere» aveva detto uscendo dalla stanza.
Il pittore era rimasto fermo per qualche minuto, nella luce ocra che entrava dalla finestra come una nuvola di piscio di gatto vaporizzato. Per il resto della mattina, dopo aver lasciato l’edificio, aveva gironzolato in città. Aveva attraversato parchi, incroci, boulevard alberati; era scivolato dentro le gole di passaggi in penombra, dove voci brusche avevano tentato di adescarlo o di vendergli qualcosa. A pranzo aveva mangiato una ciotola di zuppa in un ristorante cinese. Per un’ora si era lasciato sedurre dall’idea di essere, in qualche grottesca forma, libero, ma la verità era che non aveva nessun posto dove sarebbe voluto andare. Quello che voleva era tornare alla postazione e rimettersi in contatto con i suoi nessuno, come ogni giorno. Se ne era andato in giro come uno spettro fino a sera. Al Figueroa aveva ordinato la solita ombra. Il vino puzzava di piedi ed era annacquato. Nel bar non c’erano anime, a parte lui e il proprietario. Quando aveva sentito di essere sull’orlo della sbronza, se ne era tornato a casa. Non appena aveva messo piede nell’atelier, i disegni lo avevano assalito. Dai cavalletti, dal pavimento, dalle pareti balzavano verso di lui. Volete che vi finisca?, aveva sussurrato. Ma come faccio? Davvero, non posso. Dovete rassegnarvi a restare così, temo. Si era fermato davanti a Un disco suona per due minuti e venti e lo aveva guardato fumando. Era, nonostante gli fosse riuscito bene, un panorama muto. Se il disco suonava, lui non poteva sentirlo. Un cane forse avrebbe potuto, un pipistrello o una falena. Fallimento totale, aveva pensato. Che giornata schifosa.
Restare in casa quella notte era impossibile. I quadri lo reclamavano, ma lui non aveva nessuna voglia di dipingere, anzi l’idea lo nauseava. Così aveva ripreso la giacca dalla sedia. Aveva infilato le mani in tasca e aveva sentito che contenevano ancora le fotocopie dei rapporti del giorno prima. Dopo aver dato tre giri alla serratura blindata dell’atelier, si era diretto verso il centro. Si respirava un’aria putrida. Piombo, benzina. Se non piove ci ammazza tutti, aveva detto. Un vento soffocante lo faceva sudare sotto la camicia. Devo vendere tutto. Proverò anche con quelli incompiuti, tanto chi se ne accorge? Vadano a farsi fottere le linee morte. Gridate, cantate, piangete, fate suonare la vostra musica, la vostra lagna, quella lagna così commovente le cui parole non ho mai capito! Strepitate come maiali. Ormai non c’è più nessuno che vi ascolti. Io ero l’unico che avevate. Adesso siete soli.
Nel giro di un’ora aveva raggiunto un quartiere che di solito non frequentava. Era pieno di bar. Lo chiamavano il quartiere degli artisti. Si era fermato in un chiosco per una cotoletta agli spinaci e una birra. Mentre mangiava si sentiva addosso centinaia di sguardi pietosi, sguardi spenti che giudicavano il suo fallimento dall’alto di altri fallimenti. Per la prima volta si trovava tra i suoi simili, o meglio tra coloro che le consuetudini del mondo annoveravano tra i suoi simili, nonostante lui, sin dall’inizio, avesse pensato alla sua arte come a uno strumento per non avere simili, per scrollarsi di dosso qualsiasi appartenenza. Quegli occhi non sapevano niente della sua opere né delle linee morte. Non avevano mai usato l’udito per guardare dentro una linea morta. Erano tutti giovani. Per loro le linee erano ancora vive. Controvoglia aveva finito il suo pasto. Poi si era avventurato dentro il quartiere, tra le case, le cantine, i ritrovi al neon degli artisti. Sentiva il proprio odore che lo avvolgeva come una nube pestifera. Quando la stanchezza lo aveva raggiunto, era entrato in un cinema, senza badare a quale film proiettassero, e dal fondo di quella sala non era più riemerso.

 

Luciano Funetta

 

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