Una volta a Fortezza un uomo aveva deciso di scendere nella cantina della casa di suo padre, o meglio di quella che era stata la casa di suo padre, visto che proprio quel pomeriggio il vecchio si era trasferito in uno dei nuovi loculi ancora quasi del tutto disabitati del cimitero Madre del Silenzio, lotto H edificio 5. Il funerale si era svolto sotto un cielo scuro e verminoso, come la terra ammucchiata dalle vanghe dei becchini.
Per fortuna non aveva piovuto. Ogni temporale, a Fortezza, è una voce che spinge gli abitanti a ricordare cose che hanno dimenticato o che credono di aver dimenticato; così con uno sguardo alla bara, uno al giovane figlio del defunto, che se ne stava in disparte come se volesse dispensare i presenti da qualsiasi manifestazione di cordoglio, e uno alle nuvole minacciose che si allontanavano, tutti avevano tirato un sospiro di sollievo e alla fine della cerimonia si erano dileguati.
Era circa un anno che non andava in cantina. L’ultima volta era stato per piazzare i confetti di veleno per topi. Suo padre gli aveva confidato che non riusciva a dormire perché quelle bestie, là sotto, facevano un rumore infernale. Al negozio gli avevano venduto un prodotto che, secondo quanto gli aveva spiegato il commesso, costringeva gli animali a una spasmodica ricerca d’acqua. Per morire se ne tornavano alle fogne o alle falde da cui erano venuti. Un lavoro pulito. Con la confezione di topicida sottobraccio, era sceso nell’oscurità fetida di quel deposito decennale di scarti di vita domestica. Il pavimento, coperto da mezzo centimetro di polvere, dava l’impressione di camminare sulla sabbia. Non aveva una reale idea di cosa la cantina contenesse, eppure per lui era un posto familiare. Aveva dato un’occhiata in giro in cerca di tracce di presenze animali, sistemato i bocconcini e se ne era tornato al piano di sopra, pensando che un giorno gli sarebbe piaciuto mettersi a frugare tra tutta quella roba.
Adesso rimuginava sulla miseria delle esequie del suo vecchio. Pochi partecipanti, il sermone di un prete sconosciuto, l’odore di fiori appassiti nel cimitero, l’imbarazzo degli operai che sigillavano il loculo con il cemento. Quando tutto era finito, senza pensarci si era diretto verso la casa del padre.
L’appartamento: deserto e illuminato da schifo. Vetuste lampadine a incandescenza, neon, lampadari colorati. Un’illuminazione che veniva da un’altra epoca. Aveva sentito il dovere di passarci la notte, nonostante la sua vecchia camera fosse stata trasformata in un laboratorio per il modellismo e l’idea di dormire nel letto in cui, ventiquattro ore prima, il vecchio era morto gli mettesse i brividi. Si era seduto in soggiorno con una bottiglia di vino e il fermo proposito di ubriacarsi, forse di piangere, magari di lasciarsi andare a una desolante ricognizione della stirpe dei suoi antenati, che affondava le radici macilente nella notte dei tempi di Fortezza. Quelli che nascono qui non possono avere la certezza di scoprire da dove provenga il loro nome. Ogni proposito di genealogia è destinato a fermarsi a una catastrofe, a una miseria o a un fatto di sangue. Si può dire da dove si viene solo da ubriachi. In un certo senso, era quello il vero funerale.
Intorno a mezzanotte, nel pieno della veglia, l’uomo aveva sentito qualcosa. Un piccolo tonfo, seguito dal rumore di un oggetto trascinato. Venivano da sotto il pavimento, dalla cantina. Di nuovo i topi, si era detto. I fantasmi dei topi tornati dal cazzo di oltretomba dei topi. Era rimasto in ascolto, immobilizzato nel divano perché il cuoio della fodera non scricchiolasse. Dalla ferrovia arrivava il canto di un treno. Si era alzato, aveva preso una scopa dal ripostiglio; il vino lo faceva sentire come suo padre, qualsiasi cosa questo significasse. Era sceso in cantina.
Si era ricordato delle bestemmie del vecchio ogni volta che faceva le scale al buio. L’interruttore era in basso, accanto al penultimo gradino. Si improvvisano elettricisti, diceva il padre, e per colpa loro noi ci rompiamo il collo. A nessuno era mai successo davvero, ma nella sua immaginazione di bambino il pavimento della cantina era un ammasso di cadaveri dal collo spezzato, e da qualche parte, in un minuscolo appartamento in città, viveva un elettricista spaventoso. Il volto di quello sconosciuto gli danzava davanti agli occhi resi inutili dall’oscurità, quando aveva sfiorato con le dita l’interruttore. La cantina si era illuminata: un anfiteatro di oblio. Scaffali di ferro pieni di scatole, sacchi di plastica, attrezzi; appoggiate al muro, le cinque sedie pieghevoli che venivano portate in soggiorno per i compleanni; il telaio della bicicletta di sua madre; il vecchio schermo del primo pc che era arrivato in casa; pacchi di riviste, l’elmetto coloniale che era rimasto appeso in cucina fino al momento imprecisato in cui era finito laggiù; la macchina da cucire a pedale della nonna che lui non aveva mai conosciuto; una stufa a gas nera che somigliava a un piccolo monolite vulcanico; e proprio lì accanto, grosso come un coniglio, il topo. Occhietti neri, zampe nude e scheletriche, dorso sporco di fango, una bianca coda chilometrica che si srotolava fin sotto la stufa.
«E tu chi sei?» aveva chiesto lui. Poi aveva ruttato un soffio di vino. «Mi dispiace» aveva sussurrato e si era lanciato in avanti. La scopa aveva colpito il muso del topo due volte, poi il ventre. Lo aveva sbattuto contro la stufa. Il topo aveva emesso un grido, così si era beccato un altro colpo. Cinque attacchi e l’animale era morto. Con la testa che iniziava a fargli male per la stanchezza e il vino, l’uomo si era seduto sul pavimento, a pochi centimetri dal cadavere, e aveva vomitato. Ci aveva messo qualche minuto a riprendersi. Da quella prospettiva riusciva a vedere qualcosa, qualcosa nel muro, dietro la stufa, un discreto foro nell’intonaco e nei mattoni. Era il passaggio da cui entravano i topi e da cui anche il suo topo era entrato, e l’unica cosa che lui era riuscito a pensare era stata: vaffanculo.
Quando finalmente era riuscito a rimettersi in piedi, aveva pulito il vomito con un panno di renna trovato in mezzo alle cianfrusaglie e poi lo aveva usato per infilare il topo morto in un sacco di plastica. Di nuovo al buio, aveva risalito le scale, con il sacco pieno di vomito e pelo morto in spalla. Se lo era portato in cucina e lo aveva rovesciato nella spazzatura. Si era stappato una birra, l’aveva bevuta in piedi, in pochi sorsi. Era fresca e questo gli era sembrato giovasse al suo stomaco devastato. Mentre beveva si era lasciato andare a qualche considerazione: mio padre è morto d’infarto dopo aver vissuto una vita dignitosa, forse anche soddisfacente, senza troppe domande né capricci. Questa birra l’aveva comprata lui. Adesso è dentro di me. La digerirò e la piscerò nel cesso di mio padre. Stanotte dovrei essere insieme a qualcuno, ma non è possibile, non è proprio possibile. Sono ubriaco. Domani starò male. Ho ucciso un topo. Era bello grosso. Cazzo se era grosso. Non avevo mai ucciso un animale. Non è difficile. Adesso sono le… c’è tempo. Dormire non si può, il letto… e il divano ha sempre spaccato la schiena a tutti.
Aveva preso la torcia che da sempre era appesa a un chiodo in ingresso. L’unica cosa da fare era scendere in cantina a frugare tra tutta quella roba dimenticata. Se fosse rimasto in soggiorno sarebbe finito a sfogliare le foto di famiglia. Invece andare in cantina era diverso, una decente forma di rispetto e di gratitudine verso il padre morto, verso la madre che li aveva lasciati alcuni anni prima, verso gli anni che avevano condiviso in quella casa, sempre la stessa, senza mai affrontare un trasloco, senza mai sognare un alloggio più grande, consapevoli di essere quello che erano, ovvero una famiglia qualunque nella grande città di Fortezza, in cui vivevano milioni di individui come loro, con un appartamento, un po’ di roba accumulata negli anni e una cantina dove seppellire tutto.
In una mano teneva la torcia, nell’altra due bottiglie di birra. Aveva messo il piede sul primo gradino e puntato il fascio luminoso in basso. A metà della scala lo aveva ruotato verso il fondo della cantina e aveva visto, lungo sul pavimento come una enorme larva scura, il sacco a pelo con il tizio dentro. Aveva urlato, come è naturale. Una delle birre era rotolata giù per le scale e si era fracassata sul pavimento. La testa del tizio dentro il sacco si era sollevata e si era voltata, la torcia aveva illuminato la barba spinosa, le croste sulle guance, i capelli radi e unti.
«Chi cazzo sei?» aveva gridato, precipitandosi a schiacciare l’interruttore e a prendere la scopa. Nel frattempo il tizio del sacco a pelo si era alzato in piedi, se quel tremore e quella magrezza e quell’aria sperduta potevano dirsi stare in piedi. Non parlava. La luce della cantina era bianca, i capelli del tizio erano bianchi, la sua pelle era verde, le unghie che si stringevano intorno alle spalle, nere.
Non finirà mai questa nottata, si era detto lui, e aveva respirato in profondità. Sono stanco, mio padre è morto, ho ucciso un topo, ho trovato un barbone in cantina. Non era raro che i barboni andassero a rifugiarsi nelle case dei morti. C’era un passaparola. Comunicazioni rapidissime che segnavano i morti e le loro case vuote sulla mappa della città. E chi prima arrivava prendeva il posto. Aveva posato la scopa.
«Chi sei?» aveva ripetuto.
«Wolfgang» aveva risposto il vecchio del sacco a pelo.
«Questa è una casa privata, Wolfgang».
«Lo so. Io… lo so».
«Cosa volevi fare?».
«Dormire. Solo dormire».
«Dormire…» aveva ripetuto tra sé l’uomo. «Da dove sei entrato?».
Il tizio non aveva risposto. Solo aveva accennato un movimento con quel torace da marionetta.
«La grata che dà sulla strada?».
Il tizio, Wolfgang, aveva fatto di no con la testa e aveva mosso un passo di lato. Era scalzo. Aveva i piedi coperti di piaghe infettate. Dietro di lui c’era la stufa e dietro la stufa una fenditura nel muro, la stessa da cui era entrato il topo, solo che sembrava essersi espansa di almeno un metro e mezzo in altezza e settanta centimetri in larghezza. Era grande abbastanza perché un essere umano potesse attraversarla. L’uomo si era avvicinato per guardare meglio e solo allora aveva sentito l’olezzo che il corpo di Wolfgang emanava.
«Mi hai sfondato il muro» aveva balbettato. «Porca puttana, mi hai aperto il muro».
«No…» aveva detto Wolfgang.
«Come no? Mezz’ora fa era intero. C’era solo…».
Non riusciva a crederci. Nessun rumore, nessun tonfo, e ora una voragine nella cantina che portava chissà dove.
«Ragazzo, dov’è tuo padre?» aveva chiesto allora il barbone.
Lui era rimasto immobile.
«È morto ieri».
Wolfgang era rimasto a bocca aperta. Pochi denti, gengive maciullate, secche.
«Io vengo qui a dormire da un anno. Sono sempre entrato da lì» aveva detto indicando la parete. «Tuo padre mi aveva scoperto e non aveva detto niente. Gli stava bene. A volte mi portava anche qualcosa da mangiare e da bere. Mi dispiace per lui. E per te, giovanotto».
L’uomo, che all’improvviso non si sentiva più tanto uomo, ma piuttosto il ragazzino che per anni si era nascosto negli angoli più impensabili di quella casa e che da quella casa era andato via, per così dire, sbattendo la porta come tutti i ragazzi che vanno in cerca di fortuna o di disgrazie precoci, per tutta risposta aveva tirato fuori l’accendino e lo aveva usato per far saltare il tappo della birra. Non riusciva a smettere di guardare la voragine.
«Quando non veniva, lo sentivo che guardava la televisione al piano di sopra. Gli piacevano i film di cowboy, vero?» aveva continuato Wolfgang.
«Può darsi».
«Era un brav’uomo. In questa città sono tanti quelli come lui, anche se alla televisione dicono che è una città di tagliagole e stupratori. Quando ti fai un nome è difficile convincere gli altri a chiamarti in un altro modo. A Fortezza sono tutti malati, dicono così».
Senza pensare alle conseguenze, l’uomo aveva passato al tizio del sacco a pelo la bottiglia. Lo aveva guardato avvinghiarsi al vetro con le labbra molli.
«Dove porta?» aveva chiesto indicando il passaggio nel muro.
Wolfgang aveva alzato le spalle.
«In strada».
La strada doveva essere il vicolo dietro la casa.
«Prima che arrivassi ho ammazzato un topo, proprio nel punto in cui sei ora» aveva detto.
Il vecchio aveva fatto una faccia colpita, ma era chiaro che la cosa non lo impressionava affatto. Lui aveva lanciato un’ulteriore occhiata alla voragine nel muro, poi aveva posato lo sguardo sul pavimento, nel punto polveroso in cui poco prima aveva vomitato e dove Wolfgang aveva steso il suo sacco a pelo nell’oscurità più completa. La sporcizia era ancora impastata di qualche resto di liquido gastrico e vino.
«Senti, di sopra c’è una doccia e il letto di mio padre è, insomma, libero. Puoi prenderti qualche vestito, se vuoi» aveva detto.
A quelle parole gli occhi di Wolfgang si erano illuminati di una misteriosa pazzia, una pazzia inattesa, una pazzia mai provata o forse provata in passato, in un’altra città e in tutt’altre circostanze. Era una forma interrogativa e incredula, così l’uomo, senza aggiungere altro, aveva raccolto lui stesso il sacco a pelo e aveva fatto cenno a Wolfgang di seguirlo.
«Che strano. Dopo un anno, è la prima volta che salgo queste scale» aveva sussurrato il vecchio.
Mentre lo sconosciuto faceva la doccia nel bagno di suo padre, l’uomo aveva cambiato le lenzuola e preparato un vassoio con qualcosa da mangiare. Sul letto aveva sistemato un po’ di vestiti perché Wolfgang scegliesse. Quando si era presentato in cucina, era irriconoscibile. Non sembrava appena strisciato fuori da una fogna. Da un centro pubblico per l’impiego, magari; da una sala scommesse o da un cinema porno, ma non da una fogna. Avevano diviso la cena e un’altra bottiglia di birra, al centro esatto della notte. Poi Wolfgang aveva chiesto permesso e si era ritirato in camera. Lui aveva ascoltato, aveva sentito le molle del letto del padre cigolare sotto il peso del corpo del vecchio.
In frigorifero non c’erano più birre e si era preparato un caffè, una quantità suicida di caffè. La porta della cantina era rimasta aperta. Era sceso di nuovo. Gli era sembrato il posto più naturale dove andare a sbattere la testa. Avrebbe dovuto raccontarla a qualcuno, quella giornata. Alla sua ragazza, se ne avesse avuta una. A un amico, ma gli amici a quell’ora dormivano. Sai, mio padre è morto e da quel momento tutto è precipitato. Sono a casa sua adesso. Un posto piuttosto strano, più strano di quanto ricordassi. Dal nulla gli era venuto in mente che quel pomeriggio, sugli alberi del cimitero Madre del Silenzio, aveva visto alcuni pappagalli, pappagalli dal collare e pappagalli monaci. Dal sacco di plastica trasparente che lo teneva al riparo dalla polvere aveva tirato fuori l’elmetto coloniale e se lo era calcato in testa, come faceva da bambino. Si era seduto sul pavimento, accanto alla stufa. Il caffè era caldo e forte. Aveva guardato il punto del muro in cui c’era la voragine, ma il muro era intatto, fatta eccezione per il piccolo foro da cui, ne era sicuro, altri topi sarebbero entrati se nessuno lo avesse tappato. Topi, non uomini. Gli uomini non passano attraverso i muri, si era detto. Sarebbe rimasto chiuso là dentro per qualche giorno. Doveva solo uscire a fare scorta d’alcol alla riapertura dei negozi. Birra a colazione. Sì, avrebbe fatto così. Potevano anche cercarlo, non si sarebbe fatto trovare. Una sbronza interminabile in un luogo pericoloso. Torna pure, adesso, ripeteva. Torna in tutte le forme che vuoi. Ti aspetto, non mi muovo.
Si era rimboccato le maniche del maglione fino ai gomiti e aveva iniziato a pulire la cantina, vestito da esploratore di un’epoca perduta.
Luciano Funetta
{fcomments}