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Fiabe di Fortezza - La notte abitata

Una volta a Fortezza, nella lugubre zona intorno al deposito Mihaly dei tram, c’era una via stretta e senza nome. Lungo la strada c’erano due file di case un tempo occupate, adesso vuote e buie, che nessuna agenzia provava più a vendere o affittare. Solo una finestra, di notte, tra le finestre di quelle case, ancora si illuminava. Nessuno però poteva vederla, perché nessuno imboccava mai la strada. Andavano tutti altrove, seguendo le loro traiettorie nebbiose, non passavano mai davanti alla finestra. Così non c’era anima ad assistere al bizzarro fenomeno di una casa desolata eppure abitata.

Accadeva appena passato il crepuscolo che si accendesse una luce dondolante, forse una lampadina appesa a un soffitto ammuffito, e quell’occhio giallo restava aperto fino a che non arrivava l’alba. Allora la luce alla finestra si spegneva e la strada era di nuovo morta.
Le palazzine a due piani cadevano a pezzi ogni giorno. Resti di tegole giacevano sull’asfalto, grondaie ricurve arrugginivano. Le crepe strisciavano sui muri come vermi. Nelle fessure dei marciapiedi crescevano il grespino sfrangiato e la portulaca, le cui foglie succose qualche topo di fogna di tanto in tanto usciva a divorare. D’estate, nell’afa, i ratti arrivavano a frotte. Facevano su e giù per la strada come su una pista di pattinaggio. La notte squittiva, sotto la finestra illuminata. Da lontano sembrava che la strada fosse invasa da risatine di bambini. Al mattino restavano minuscole gemme di escrementi sparse sull’asfalto. I topi, invece, svaniti.
D’inverno la finestra si illuminava a metà del pomeriggio e se un passante intirizzito avesse alzato gli occhi, avrebbe visto il vetro richiuso, spaccato in basso e sigillato con un pezzo di cartone e nastro adesivo, ma nessuno mai aveva notato nulla. Solo una volta un viaggiatore che si era perso cercando un posto dove mangiare era passato di lì. Il viaggiatore aveva una gamba paralizzata ed era costretto a trascinarsela dietro con l’aiuto di una stampella. Quella notte aveva nevicato e l’uomo lasciava dietro di sé le impronte irregolari della gamba buona, della stampella e della gamba secca. Era arrivato a metà della strada e a un certo punto si era fermato. Qualcosa come una voce, un respiro, un soffio, gli aveva intimato di non proseguire oltre. Aveva girato i tacchi e se ne era tornato indietro. La neve aveva ripreso a cadere e aveva coperto di nuovo le impronte.
Ancora affamato, il viaggiatore era rientrato alla pensione Samantha dove aveva una stanza in affitto. Il bagno era in corridoio. Le lenzuola avevano un odore di vecchi corpi esausti. Il proprietario dormiva in una nicchia chiusa da una tenda accanto all’ingresso. Sdraiato a letto, il viaggiatore ascoltava le risate della coppia della camera accanto. Lei non faceva che ripetere: «Mio marito, mio marito» e rideva. Dopo aver tentato invano di prendere sonno, si era messo a sedere sul materasso, poi si era issato in piedi, si era rivestito ed era uscito di nuovo sotto la neve. Quando hai fame, aveva imparato, non provare a dormire. Non ci riuscirai. Cammina, piuttosto. Cammina e pensa a quello che vuoi. A tua madre malata, a tuo fratello assicuratore, alle tette dolci della tua fidanzata del liceo. Pensa a qualcosa da annotare sul tuo diario quando tornerai in camera, qualche bella frase sulla sfortuna e sul destino. Pensa all’ultima volta che ti sei ubriacato come si deve senza che finisse male. Così, sforzandosi di rimuginare, aveva vagato per un po’, fino a che non si era ritrovato di nuovo all’inizio della strada. A quell’ora della notte la finestra illuminata era ben visibile. Il viaggiatore aveva pensato, chissà perché, che in tutta quella oscurità, in quell’abbandono, in quella fame, la finestra avesse l’aspetto di una candelina di compleanno infilzata in una torta coperta di mosche. Solo il vento provava a spegnerla. C’è vita, si era detto, trascinando la gamba morta nella neve, fino alla palazzina. Il freddo lo tormentava dappertutto, fuorché nella gamba. Il manico della stampella era gelato e il cappotto ormai zuppo. Lo stomaco aveva ripreso a gorgogliare una macabra filastrocca. Senza pensarci si era arrampicato su per i tre gradini e aveva suonato il campanello.
All’inizio non aveva sentito nulla. Aveva alzato gli occhi verso la finestra e aveva guardato la luce gialla che si disperdeva contro il cielo della città. Poi un rumore di passi remoti che si avvicinavano alla porta. Passi lenti, piedi che forse calzavano pantofole e che si trascinavano appena sul pavimento.
«Chi è?» aveva chiesto una voce, una voce di donna.
«Signora, la prego. Ho freddo e ho fame. La prego. Non riesco a camminare. Mi faccia entrare solo un minuto per riscaldarmi», aveva detto il viaggiatore. Non aveva mai supplicato nessuno. Non aveva mai fatto l’elemosina. Ascoltava le sue parole come se fossero parole di un estraneo. Allora la porta si era aperta, quanto bastava perché chi era all’interno potesse guardare la strada senza essere visto. Questa donna è pazza, si era detto il viaggiatore. Ha aperto davvero. L’ombra di un volto si era sporta fuori. Lunghi capelli argentati cadevano intorno a sembianze indistinguibili.
«La prego» aveva farfugliato di nuovo il viaggiatore. «Mi vergogno, ma la prego».
La sagoma della donna si era fatta da parte e la porta si era aperta lentamente.
«Ho qualcosa da mangiare» aveva detto la padrona di casa «E non ho niente da farmi rubare. Entri».
«Grazie» aveva detto il viaggiatore ed era entrato, ritrovandosi accanto alla donna, in un corridoio buio, fatta eccezione per il riflesso spettrale della neve che il viaggiatore aveva lasciato entrare con sé e che si era dissolto non appena la donna aveva richiuso la porta. Adesso entrambi si trovavano nella più completa oscurità.
«Da questa parte» gli aveva detto lei e aveva iniziato a camminare lungo il corridoio. Il viaggiatore l’aveva seguita, un po’ a tentoni, con la mano sinistra che brancolava nell’aria e la destra stretta sulla stampella.
«Lei è zoppo. Lo sento da come si muove» aveva detto la voce della donna davanti a lui.
Il viaggiatore non aveva risposto. Qualcosa nell’affermazione della donna lo aveva colto di sorpresa.
«Ci siamo. Qui a sinistra».
Erano entrati in una piccola stanza fredda, buia anche quella.
«Aspetti, le faccio luce» aveva detto la donna e a passi minuscoli si era allontanata. Il viaggiatore aveva sentito uno scatto e davanti a lui una cappa si era accesa sopra una cucina a gas, quattro fornelli e forno elettrico. La luce era debole, ma sufficiente. Nella stanza c’erano un tavolo quadrato, due sedie, un grosso frigorifero nuovo di zecca (trecento litri o giù di lì, si era detto il viaggiatore, che di elettrodomestici capiva qualcosa), una credenza pensile con tre scomparti. Al soffitto un lampadario di opale, senza lampadina. E in mezzo a tutto c’era la donna, in piedi, con i lunghi capelli bianchi, un maglione logoro sopra una lunga gonna di velluto che lasciava scoperte le caviglie d’osso infilate nelle pantofole. Il viaggiatore le aveva sorriso. Iniziava a sentire il tepore della casa scioglierglisi dentro la schiena. Aveva aspettato che la donna ricambiasse il sorriso, ma non era successo. Le labbra sottili erano rimaste impassibili, ripiegate appena verso il basso, le guance irradiate di venuzze azzurre e gli occhi vitrei, nebulosi, puntati nella sua direzione, in realtà non guardavano niente, lo scavalcavano, anzi lo attraversavano e si smarrivano da qualche parte nel tempo o nello spazio. La donna era cieca.
«Mi scusi» aveva farfugliato il viaggiatore. «Non lo sapevo».
«Cosa?»
«Che… beh, niente».
«Coraggio, si sieda» aveva detto la padrona di casa aprendo il frigorifero. Per qualche secondo la cucina si era illuminata ancora di più, o meglio era impallidita, e con lei il viso della donna.
«Sono già seduto» aveva detto lui.
«Lei è un bugiardo» aveva detto con una cantilena la donna, poi aveva tirato fuori dal frigorifero una pentola e l’aveva messa su un fornello.
Il viaggiatore aveva osservato a lungo la fiamma azzurra e la bocca della pentola che iniziava a fumare. Nel frattempo la donna gli aveva sistemato davanti un piatto, un cucchiaio, un bicchiere e una caraffa d’acqua. Poi si era seduta anche lei, al lato opposto del tavolo. Dopo qualche minuto aveva parlato di nuovo e il viaggiatore si era sentito strano, perché era come se la voce le venisse fuori dagli occhi.
«Si serva. È minestra del pranzo avanzata. Ora dovrebbe essere calda».
Era brodo di pollo con pezzi di pasta sbriciolata, più qualche altro ingrediente che il viaggiatore non era riuscito a isolare. Non una minestra eccezionale, ma memorabile di sicuro, mangiata nell’ombra di una casa sconosciuta, davanti a una cieca. Ne aveva presi due piatti. Quando si era sentito sazio, il viaggiatore si era abbandonato contro la spalliera della sedia e aveva chiuso gli occhi. Adesso non la vedo più, come lei non vede me, si era detto, e aveva rimuginato un po’ su quel pensiero.
«Grazie, signora. Grazie ancora. Sa, non sono di qui. Alloggio in una pensione vicino al tribunale, e sono uscito per cercare un posto per la cena, forse troppo tardi. Era tutto chiuso. Andate a letto presto, da queste parti» aveva detto.
«In questa parte della città sì» aveva risposto la donna.
«Con questa neve e, beh, sa, la gamba ridotta così…»
«Sta nevicando?» lo aveva interrotto lei.
«Sì» aveva detto l’uomo. «Da due giorni».
«E così lei è uno zoppo nella neve».
«Se posso permettermi, lei è una cieca in una casa buia».
La donna aveva riso, o meglio aveva riesumato una risata scarna e crepitante come l’ala di un uccellino stecchito.
«Ma si sbaglia, signore» aveva poi detto interrompendo quel cigolio. «Questa casa non è buia».
«Come?» aveva chiesto il viaggiatore intorpidito dal cibo, dal calore e dalla debole luce della cappa.
«Tutte le luci sono accese, non vede?» aveva detto la donna.
Il viaggiatore aveva voltato appena lo sguardo verso la porta, oltre la quale il corridoio giaceva in una fitta oscurità.
«C’è qualcuno che vive con me. Accende tutte le luci, continuamente. È il suo passatempo. E lui è il mio amore. Entra in una stanza e accende la luce, e quando se ne va la spegne. Non importa che io sia nella stanza. Lui se ne va in giro ad accendere e spegnere le luci. A volte ci incontriamo e ce ne stiamo nella stanza illuminata; a volte gli chiedo di restare al buio, e restiamo al buio».
La donna aveva parlato quasi tra sé, con la testa rivolta verso un angolo della cucina, e nel viaggiatore adesso la spossatezza per il pasto appena consumato aveva lasciato il posto a una certa inquietudine. Il pensiero di doversene andare lo aveva ormai preso.
«In effetti» aveva detto «ho bussato alla sua porta perché ho visto la finestra illuminata».
«Era lui» aveva risposto la donna.
«E adesso è in casa?»
«Certo. È di là».
«Dove?».
«Non lo so. Di là».
Il viaggiatore si era alzato. Aveva impilato il piatto e il bicchiere ed era andato a deporli nell’acquaio.
«Credo di dover andare, signora. Mi ricorderò della sua gentilezza» aveva detto e d’istinto le aveva porto la mano. La donna era rimasta ferma e il viaggiatore aveva riportato la mano al suo posto, sull’impugnatura della stampella.
«Ce la fa a tornare alla sua pensione?» aveva chiesto la cieca.
«Credo di sì. Troverò la strada».
«Nella neve?».
«Sì. Magari ha smesso» aveva detto l’uomo e si era affacciato sul corridoio.
«Non si alzi, la prego. La minestra era squisita. Mi sento molto meglio». Senza pensarci, il viaggiatore aveva lasciato due banconote su una mensola accanto alla porta. Resteranno lì, si era detto. Non le troverà mai. Forse le serviranno, un giorno, per pagarsi l’ingresso nel regno dei morti. La guardò un’ultima volta: la donna sorrideva al centro della cucina. Il viaggiatore era scivolato lungo il corridoio. Con la stampella aveva colpito qualcosa, ma non se ne era curato. A tentoni aveva raggiunto il portone, lo aveva aperto e solo allora si era voltato indietro. In fondo, oltre la cucina, il vano di una porta si era illuminato. Il viaggiatore aveva chiuso gli occhi e si era precipitato fuori, giù per i gradini ghiacciati. Gli era sembrato, all’improvviso, di non essere più uno zoppo nella neve. La strada davanti a lui era immacolata. Solo un bagliore dorato si depositava sul suolo, dalla finestra. Poche decine di metri e si sarebbe ritrovato sulla strada principale. Il gelo gli arrossava le guance e la gamba gli faceva male come il primo giorno. Adesso, mentre si allontanava dalla casa della cieca, gli era venuto in mente che il giorno in cui era diventato zoppo era un giorno luminoso, un giorno di primavera. In quanto a quello che gli era appena capitato, già svaniva e il viaggiatore iniziava a pensare alla colazione. La minestra della cieca era già polvere sugli arredi di una camera ardente. La casa, una bara di legno, la cieca, una salma destinata all’ossario comune. La luce alla finestra, un cero acceso da un vecchio amico della morta o da lei stessa prima di coricarsi. Con un brivido di freddo il viaggiatore aveva scacciato via gli ultimi residui del sogno. Avrei proprio voglia di strudel, aveva detto tra sé, e si era lasciato alle spalle la strada, cigolando come un ferrovecchio, verso il risveglio improvviso dei sonnambuli.

 

Luciano Funetta

 

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