La prima volta che mi sono imbattuta in un testo in cui si esplicitava, con tanto di prove al seguito, che le opere letterarie (ma non solo) risuonano tra loro, stavo leggendo un saggio della raccolta Altre Inquisizioni, dal titolo “Il fiore di Coleridge”.
L’esordio era affidato alle parole di Paul Valery: «La Storia della letteratura non dovrebbe essere la storia degli autori e degli accidenti della loro carriera o della carriera delle loro opere ma la Storia dello Spirito come produttore o consumatore di letteratura. Una simile storia potrebbe essere condotta a termine senza menzionare un solo scrittore».
Lo scrisse intorno al 1938. Non fu di certo il primo, ma, come dire, fu il primo per me a mettere nero su bianco che le corrispondenze e le analogie tra i testi esistono e hanno la capacità di ampliarne i confini e di moltiplicarli.
Questa affermazione di Valery gli riserva nella mia biblioteca personale un posto particolare, quello riservato a chi definisce un qualcosa che fino ad allora si era soltanto intuito. Anche se, in realtà, in perfetta armonia con il contenuto del saggio, Valery era ospite di uno scritto di J.L. Borges – giusto per insistere sull’idea che gli autori, alla fine, potrebbero essere uno e uno solo.
Un altro meravigliato dalle analogie è Danilo Kiš che, in chiusa a un racconto della raccolta Una tomba per Boris Davidovič. Sette capitoli di una stessa storia (sottotitolo già evocativo), scrisse: «La casuale e inattesa scoperta di questo testo (la traduzione del terzo capitolo del Registro dell’Inquisizione), scoperta che cronologicamente coincide con la felice conclusione del racconto intitolato “Una tomba per Boris Davidovič”, ebbe per me il significato di un’illuminazione e di un miracolo: le analogie con il suddetto racconto sono così evidenti che reputo la coincidenza dei motivi, date e nomi un apporto divino alla creazione letteraria».
Esiste una sorte di «legge di corrispondenza che lega tutti i mondi fra loro», direbbe R. Guénon, «un senso e una pertinenza dei frammenti fra di loro», farebbe eco B. Hrabal, che sta alla base del gioco di analogie su cui si regge Diorami.
Ogni racconto della raccolta Diorami è composto interamente di citazioni tratte da opere letterarie diverse.
A ciascuna frase è riconosciuta la propria indipendenza – come spesso accade quando viene estrapolata dal testo d’origine per essere citata, senza per questo rinnegarlo con tutta la sua ricchezza – e trattata alla stregua di una parola, che di per sé non ha appartenenza autoriale.
La frase sostituisce la parola imitandone tic e proprietà. Le poche variazioni concesse nella composizione (concordanze verbali, di genere e numero, nonché l’inserimento di alcune congiunzioni e rari avverbi) esistono allo stesso modo di un verbo che si coniuga e di un aggettivo che si accorda a un sostantivo.
Le note bibliografiche che compaiono scorrendo sul testo dei racconti, oltre a puntellare le citazioni sulla mappa letteraria del tempo e dello spazio e ad aiutare nella ricerca e nella ricostruzione delle fonti chi volesse, valgono soprattutto come lente di ingrandimento per un processo e un lavoro compositivo che sta a metà tra due momenti definiti e consecutivi: la lettura e la scrittura.
Leggi i Diorami di Federica Patera, passa il mouse su testo e scopri le risonanze.
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