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Krakatau - Gianluca Cataldo

«Le isole nascondono spesso grande miseria, ma non tutte volontaria e ignobile». Aggiungiamo noi che la verità che le riguarda non sempre è degna di questo nome, e che a volte si fanno bastare la verosimiglianza; altre, addirittura, la bugia. Così, se l'iguanuccia di Anna Maria Ortese, tanto cara a Daddo, conservava pietre che scambiava per preziosi da seppellire, noi collezioniamo isole, che sono pietre grosse, a volte misere a volte no, ma mai noiose.

Coordinate odierne: 6°06′07.2″S 105°25′22.8″E. Krakatau.


In principio fu una descrizione: «un'isola con un'alta montagna a punta».
Così, in maniera stringata, la racconta Jan Huygen Van Linschoten, olandese di Haarlem prestato alla corona portoghese, nonché primo cartografo a prendere nota dell'isola e a presentarla al mondo nel 1596, quando dà alle stampe il suo Itinerario, Voyage ofte schipvaert van Jan Huyghen van Linschoten naer Oost ofte Portugaels Indien. Ma, come ogni scienziato serio e scrupoloso, sappiamo che non disdegna la fantasia, e per la sua mappa dell'estremo oriente – liberamente fruibile da chiunque, come l'intera sua opera – si basa principalmente su altre carte, per lo più portoghesi, e ci spingiamo fino a dire che la montagna appuntita che descrive, forse, non l'ha neanche mai vista.
Poi venne il nome, anzi i nomi. Il primo è Pulo Carcata, e a darglielo è un altro cartografo – specie strana, a metà tra i bucanieri e i burocrati – che nel 1602 battezza così un gruppo di isole storpiando dalla lingua bahasa la parola “palau”, e firma Waghenaer l'intera mappa.
Ancora Cacatoua, per via dei tipici pappagalli bianchi che, a ben vedere, tanto tipici non sono, considerando che né ci vivono né ci vivevano; la trasversale leggenda che dal lombardo monte Somega (in dialetto, “Non lo so”) giunge fino a Giacarta e a domanda «Come si chiama quel monte?» registra puntuale risposta «Kaga tau» (“Non lo so”); Krakatau, dal diario di viaggio di un medico olandese che nel 1658 la descrive come «coperta da alti alberi»; Kelakatoe, ovvero “termite alata”; Cracketovv, dai quaderni di un saggiatore d'argento nelle miniere di Salida nonché sindaco della stessa città che, malato, si imbarca sul vascello De Zijp per tornare in patria; lo scrittore Elias Hesse, che diretto a Sumatra nel 1681 nota sì gli alberi di Cracatou ma, in un suo resoconto, li descrive come «completamente bruciati» nonostante non ci fossero tracce di fuoco; e da ultimi Krakatan, come la chiama in un telegramma l'emissario di una compagnia di assicurazioni quando nel maggio 1883 iniziano le eruzioni che la distruggeranno, e Krakatowa, come inspiegabilmente riportato dal «Times» in Inghilterra.

L'affanno al battesimo dell'isola, tutto occidentale, non considera però la lapalissiana evidenza che lei, l'isola, per i nativi del mare di Giava, è da sempre lì, e più che un lembo di terra è una delle bocche del dio Orang Alijeh, una divinità scorbutica, che è meglio non fare arrabbiare. D'altra parte i vulcani, ovunque, sono protagonisti di inquietanti storie, nel tempo divenute fedi e poi leggende: se quelli siciliani sono le fucine dove Efesto forgia le folgori di Zeus, per gli hawaiiani, Pele, la dea del fuoco, fugge di cratere in cratere inseguita dalla sorella Namaka Okahai divinità dell'acqua; Hemingway ci racconta il Kilimangiaro come Ngàje Ngài, la Casa di Dio (e non è difficile scorgere nello scrittore stesso il leopardo che va a morirvi senza sapere il perché); e mentre il venerabile monte Fuji cambia identità di continuo, il Mayon, nelle Filippine, resta la tomba della bella Daragang Magayon, vittima d'amore malato; infine altri, come il massiccio Tamu, uno dei più grandi vulcani del sistema solare con i suoi 310.000 chilometri quadrati di ampiezza, hanno la sfortuna di essere stati scoperti quando ormai tutto, o quasi, ha una spiegazione, come i terremoti le caldere o le eruzioni, nel 2013.

Ma nel 1680, quando le mappe riportano ancora mostri favolosi come il pesce-isola Zaratan, qualcosa deve aver fatto arrabbiare il dio, se è vero che sono passati più o meno mille anni dal suo ultimo scoppio d'ira, ossia l'eruzione del 535 circa d.C.. E per essere chiari basterà scrivere Mamma... li europei! Portoghesi, inglesi, olandesi hanno imposto la loro presenza nell'arcipelago, incastrandosi tra mercanti cinesi, indigeni, e sultanati locali devoti di Allah. I lusitani, a detta dello stesso Jan Huygen, sono tanto sanguinosi quanto inetti, e a essi subentrano presto i popoli nordici affannati d'affari. Il cartografo calvinista Petrus Plancius, un uomo arcigno i cui lineamenti sembrano incastrati tra una fronte spaziosa e una barba altrettanto ampia, cerca e trova un passaggio estraneo alle rotte battute dai regni iberici, e nel 1602 nasce una società per azioni destinata a sconvolgere l'intero globo nei secoli a venire: con diritti monopolistici su ogni iniziativa politica, commerciale e militare, si sancisce l'unione di vari investitori privati nella VOC, la Vereenigde Oostindische Compagnie; allo stesso Plancius viene affidato di compito di esaminare tutti i predicatori imbarcati dalla compagnia. Un po' di fortuna, e il 12 marzo 1619 inizia la storia della città di Batavia, che per 330 anni si sostituisce a Giacarta. In mezzo, ascesa e declino della Repubblica delle Sette Provincie, amministrata da ricchi mercanti che da est a ovest commerciano spezie e schiavi, e che i cinesi continueranno sempre a descrivere come hung mao fan, ovvero “barbari dai capelli rossi”, con occhi piccoli e infossati.
Ma neanche un dio potente come Orang Alijeh ha la forza di sfidare un impero economico come quello dei Paesi Bassi, e coverà la vendetta nei suoi braceri per altri duecentotré anni, fino al 1883, lasciando fare un po' del lavoro sporco agli inglesi e, soprattutto, alle smanie imperialistiche di Napoleone. Batavia intanto si perde e si ritrova, e nell'anno di una delle più grandi esplosioni della Terra è una città di un milione di abitanti, ben collegata telegraficamente al resto del mondo, cosmopolita – sebbene non tutti vengano trattati allo stesso modo – e, a quanto ci dice Simon Winchester nel suo Krakatoa, anche alla moda, se è vero che nel 1870 si inaugura persino una fabbrica di ghiaccio. Ma sotto al territorio coloniale olandese, affidato dal 1880 a Frederik s'Jacob (un altro cartografo), stanno accadendo scontri di tutt'altra natura.

A chi osservasse oggi un planisfero, apparirebbe affatto evidente una certa coincidenza tra le coste dell'America del sud e quelle africane. Non si entusiasmi, non sarebbe il primo – Francis Bacon lo nota già nel 1620 – ma mentre oggi è un'evidenza scientificamente accettata, e sedimentata nella memoria collettiva dell'umanità, nel 1915, anno cupo, no. L'eclettico meteorologo Alfred Wegener pubblica il Die Entstehung der Kontinente und Ozeane, ma la sua teoria della “deriva dei continenti” (fortunato errore di traduzione dell'edizione inglese) gli costa lo scherno della comunità scientifica e, pipa in bocca, una solitaria morte in Groenlandia, sua patria spirituale. Due guerre mondiali, il boom economico, e grazie soprattutto agli studi sul magnetismo residuo, si arriva alla teoria della tettonica a zolle, fino a un numero della rivista «Nature» degli anni Sessanta in cui si fa precisa menzione delle “zone di subduzione”. Sembra infatti che esattamente sotto l'Arcipelago delle Grandi Isole della Sonda ce ne sia una, di queste zone, e che la massa della placca australiana spinga su quella euro-asiatica incuneandosi sotto e dirigendosi verso il nucleo terrestre. Senza andare troppo nel dettaglio, la mistura di rocce e sedimenti si surriscalda, fonde e risale verso la superficie cercando una via d'uscita. Niente di meglio di un'eruzione vulcanica.
10 maggio 1883: il mare gorgoglia in maniera sospetta. Il guardiano del faro della Prima punta di Giava ne prende nota.
15 maggio 1883: nuova scossa, più duratura.
20 maggio 1883: il capitano della corvetta tedesca Elisabeth annota sul diario di bordo la prima eruzione, che spruzza in aria una colonna di fumo alta undici chilometri.
23 maggio 1883: dopo tre giorni di calma il governatore generale s'Jacob va a controllare. Trova alberi bruciati, senza tracce di fuoco. Pensa: «Dove l'ho già letto...?».
26 maggio 1883: a bordo della Gouverneur-Generaal Loudon, alla modica cifra di venticinque fiorini, ci si può godere l'inquietante spettacolo. Orang Alijeh non gradisce.


Nell'immensa caldera, il dio mescola rabbia e lava per tre mesi finché stanco, il 26 agosto, non si schianta al suono sfinito, liberando un grido che spacca tutti e tre i crateri che si sono intanto formati sull'isola. Urla ininterrottamente fino alle dieci dell'indomani mattina, quando esplode un boato che frantuma la terra, la cui onda d'urto fa il giro del pianeta sette volte prima di esaurirsi. Il suo disperato sfogo viene sentito a cinquemila chilometri di distanza, e annotato dal capo della polizia dell'isola di Rodríguez, che però non capisce né cosa significhino quei boati né da dove provengano. Ma il dio – cieco e iniquo come ogni divinità – sta sfinendo le sue bocche per sancire la condanna a morte di circa quarantamila persone, rutta lacrime di zolfo oscurando i cieli con colonne di fumo alte venticinque chilometri, che ricadono indiscriminatamente sui kampong e sulle bianche cittadine degli infedeli. I barometri impazziscono, tutto si riempie di fumo e si copre di cenere, spessa e incandescente, mentre il buio si fa materico, quasi una placenta infernale. Il mare muta di forma e mostra il suo aspetto minaccioso, ma questa volta sembra più per paura che per capriccio, è incontrollabile e inquieto, manda in ogni direzione onde immani che pare vogliano scappare. E rincorrendosi ingigantiti dalle nubi piroclastiche, che corrono lungo i fianchi di ciò che resta dell'isola, altissimi tsunami si abbattono a ripetizione su tutto quello che incontrano, lanciando sulle coste, sui moli e sui villaggi, ogni detrito che raccolgono dai fondali. Sul faro della Prima punta si schianta una palla di corallo da seicento tonnellate: il faro crolla, il guardiano miracolosamente sopravvive.
Poi, lentamente, tutto si calma. L'ultimo morto si conta a Ceylon, a tremila chilometri di distanza, per un'onda alta ancora un metro.

Negli anni che seguono i tramonti cambiano colore in tutto il pianeta, la temperatura globale si abbassa di mezzo grado, e nel 1888, a Giava, scoppia la rivolta di Banten contro gli olandesi. L'eruzione a molti sembrava l'apocalisse – per alcuni lo fu – ad altri un messaggio divino che suggeriva di agire. E così è stato.
Ma a Krakatau, intanto, si fanno da parte i cartografi (quasi per scaramanzia), i geologi (troppo impegnati a cercare di capire) e compaiono i biologi. L'isola, salvo il monte Rakata e altri due ammassi rocciosi, è praticamente scomparsa, e con lei si è azzerato l'intero suo ecosistema, eppure un belga, in visita per conto della Francia, nel 1884 scorge un piccolo ragnetto intento a filare la sua tela. Entusiasta, lo ricorderà come un «pioniere del rinnovamento», giunto lì come “plancton eolico” trascinato dal vento insieme a batteri, spore e insetti vari. E non è il solo. Alcuni animali arrivano a nuoto, altri in volo, altri ancora contro la loro volontà trasportati da organismi ospiti o da tremende tempeste. Fioriscono anche specie erbacee tipiche della zona e lussureggianti foreste, che si affrontano per la supremazia. Inizia così una darwiniana lotta che permette agli scienziati di osservare, per la prima volta nella storia, la formazione di un ecosistema da zero.
Ma a ben vedere piante e animali non sono gli unici a nascere. Davanti alla falce di luna del monte Rakata, nel 1928, emerge un piccolo vulcano che troverà pace solo due anni più tardi.  A battezzarlo, questa volta, è un russo, ma pare che la sua scelta sia condivisa da molti. Il nome? Solo uno: Anak Krakatau, ovvero “figlio di Krakatau”.


Gianluca Cataldo
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