TerraNullius Narrazioni PopolariTerraNullius Narrazioni PopolariTerraNullius Narrazioni Popolari

TerraNullius Narrazioni PopolariTerraNullius Narrazioni PopolariTerraNullius Narrazioni Popolari

  1. Narrazioni
  2. TN Series
  3. L'Arcipelago

Isla del Coco, o del tesoro - Gianluca Cataldo

«Le isole nascondono spesso grande miseria, ma non tutte volontaria e ignobile». Aggiungiamo noi che la verità che le riguarda non sempre è degna di questo nome, e che a volte si fanno bastare la verosimiglianza; altre, addirittura, la bugia. Così, se l'iguanuccia di Anna Maria Ortese, tanto cara a Daddo, conservava pietre che scambiava per preziosi da seppellire, noi collezioniamo isole, che sono pietre grosse, a volte misere a volte no, ma mai noiose.

Coordinate odierne: 5°31′08″N, 87°04′18″O. Isla del Coco, o il tesoro.

 

I

Un tempo, spesso, le mappe segnavano la rotta verso un tesoro. Vergate su carta, ossi di balena, pelle di monaci scuoiati, conducevano a città dorate o, più frequentemente, verso piccoli isolotti, considerati il nascondiglio migliore. Come oggi d'altronde. Ma i tesori rendono pazzi, e le isole possono essere una trappola. Soprattutto quando la mappa si stende sull'intero terreno – finendo per coincidere –  l'isola scompare, e non si vede altro che una X cremisi, un po' sbiadita.

1844: al porto de La Habana un uomo dice di aver visto la Madonna. Niente di incredibile, se non fosse che nei suoi occhi, che sono biglie sovrastate da due sopracciglia sbilenche, non c'è la luce della follia ma l'ombra della verità. La nota, l'ombra, pure John Keating, primo ufficiale di un veliero canadese con tre maestosi alberi e un bompresso solido, che l'indomani sarebbe partito per Newfoundland. Keating, che ha solo due curatissime basette, nota anche come il viso di quell'uomo sembri un teschio disegnato da una barba strana, che sotto agli zigomi scende lasciando scoperta la parte superiore del mento. E non ha baffi. La cosa assurda è che quella peluria, sulle guance, sembra crescergli proprio così. Il canadese va per scusarsi – come tanti altri ha sorriso della frase sulla Madonna –  ma una specie di pudore gli impedisce di farlo, un po’ perché non sa come prendere quell’uomo, e un po’ perché gli pare che in lui ci sia qualcosa di incompiuto, che emana da un cranio invece così netto, e che si impone sugli altri.
L'uomo, il teschio, è William Thompson. Già capitano del Mary Dear, traditore e pirata, è stato abbandonato dai suoi compagni a La Habana, che lui, con tatto, considera una «latrina di mignotte e blatte». Non riesce a trovare un altro equipaggio perché la sua fama, più che precederlo, lo bracca. A quanti dicono che per un po' di vino sarebbe disposto a vendere la sorella risponde che, per quanto ne sa, e nonostante sua madre si sia sempre data un gran da fare, di sorelle non ne ha.
Durante la guerra di indipendenza cilena, quando il Cile era pronto ad attaccare Lima e depredarla delle ricchezze degli spagnoli, si trovava al porto di El Callao. Per sua sorte, gli europei decisero di radunare i tesori della corona proprio lì e – una fortuna così sfacciata non se l'aspettava nemmeno lui – affidarglieli.
Quando mostra una mappa a Keating, che lo ha appena contrattato nella sua ciurma, gli confessa che era sinceramente disposto a cabotare finché le acque a Lima non si fossero calmate e a riconsegnare tutto. Poi, però, aveva visto la Madonna.
La mappa la tira fuori da sotto la camicia, e ha il suo stesso puzzo. Non ci sono X – «Mica sono scemo», dice – ma riporta le coordinate di Isla del coco, dove il nome della baia di Wafer è ricalcato più volte (non è poi neanche tanto furbo). Aggiunge che, dopo aver ucciso tutti gli spagnoli imbarcati sul Mary Dear e aver sepolto il tesoro, qualcosa era andato storto, e a sopravvivere erano stati lui e un certo Young Mack, il più giovane della ciurma.
Keating non resiste, e domanda della Madonna.  
Il teschio, che quando serve ha un eloquio teatrale e convincente, descrive una statua d'oro di un metro e ottanta, che in grembo porta il bambinello e un diamante grande altrettanto. E ancora rubini e pietre preziose. La luce che irradia – dice il teschio – è accecante, sembra provenire dalla statua stessa, e con una mano protegge il figlio mentre con l’altra pare indicare qualcosa in lontananza, come un'isola da raggiungere.
Teatrale e smaccato, sì.

II

Su un altro Oceano – quello delle Hawaii – e non molto tempo dopo, un uomo festeggia il suo ottantaquattresimo compleanno.
A ogni augurio reagisce toccandosi i coglioni e mandando giù un sorso di whiskey. Dopo aver giurato che avrebbe bevuto, sicuro di poter reggere, un bicchiere per ogni anno che il padreterno lo ha tenuto su questa terra, guarda le figlie, e dal conto sottrae gli anni passati con loro. Poi bestemmia e toglie anche quello da pirata, il 1820, che a sedici anni è stato il più bello e terrificante che abbia mai vissuto, che poteva trasformarlo in uno degli uomini più ricchi della storia e che lo ha reso solo un alcolizzato nostalgico. Sputa quindi alla memoria infame del capitano Thompson, e sviene.
A risvegliarlo a schiaffi è un marinaio tedesco, che ha mollato la cartiera di famiglia ormai molti anni prima e che da allora non vede più i genitori. Il padre non ha mai accettato quello che reputa un tradimento, e ogni volta che a Remscheid arriva una sua lettera se la passa tra le mani, solo nello studio, timoroso di aprirla approva in silenzio la scelta della carta – quella filigrana spessa così difficile da trovare in Europa – e ripone la busta, insieme alle altre, in un cassetto che chiude a chiave. Sa che il figlio è vivo e tanto gli basta.
Il marinaio tedesco si chiama August Gissler. L'altro, lì a Kona, sono decenni che lo chiamano Old Mack, e non riesce a credere che anche i tedeschi siano in grado di navigare.
«Se non per mare, in una cosa noi tedeschi siamo superiori a voi scozzesi: reggiamo meglio l’alcool», gli risponde Gissler, che dopo aver attraversato mezzo pianeta non ha nessuna intenzione di mollare. In ogni porto ha sentito storie su quel vecchio, e ha bisogno di verificarle. Ha anche una grande voglia di scopare con sua figlia, che è una giornata che gli lancia occhiatine maliziose, ma questo, se è vera anche solo la metà delle leggende che girano su Old Mack, è meglio non dirlo.
Mentre Eolani prova a calmare il padre, che intanto urla di come la Gran Bretagna può anche sprofondare trascinandosi dietro irlandesi, gallesi, scozzesi e soprattutto i più porci di tutti, gli inglesi – e per sottolineare quanto siano più porci gli inglesi sputa per terra – qualcuno appronta un tavolo malfermo con una fila di bicchieri. Un uomo li conta, li riempie di ruhm, li osserva interdetto, ne beve uno – erano dispari – e lascia spazio ai due.
«Mai nessuno, mai e poi mai, davanti ai miei amici e alla mia famiglia, può impunemente dirmi che reggo meno di un tedesco!» avverte Old Mack.
Gissler ora è preoccupato. Ancora non sa che l'indomani, dopo aver vomitato l'anima, si ritroverà fra le mani una mappa, consegnatagli dietro la promessa di trovare il tesoro e, una volta disseppellito, sposare Eolani e portarla in Europa.

III

Un boucan era un affumicatoio, né più né meno. Le pareti, alte otto piedi, erano ricoperte di foglie, e al centro troneggiava una griglia, sotto la quale il fuoco veniva acceso con pelle secca e ossi di cinghiale; così non sapeva di legno. Gli uomini che ne facevano uso erano per lo più coloni francesi. Cacciatori e contrabbandieri, furono trasformati dall'arroganza spagnola in qualcosa, per gli spagnoli, di peggio. Allontanati da Hispaniola – che diventò un tristemente noto forte reale – si ritrovarono su un'altra isola, Tortuga. Altrettanto nota, sebbene più felicemente.
Non ci è dato sapere quanto il Capitano Edward Davies conosca della storia della “Fratellanza della costa” ma, a giudicare dalle urla che sente infestare i corridoi della prigione, possiamo ipotizzare, invece, che cominci a temere che Wafer si sia fidato a sproposito, e che l'amnistia ricevuta nel 1688 a Port Royal, Jamaica, non valga poi molto in Virginia.
D'aspetto fiero e indole coraggiosa, è un uomo capace di tutto ma non avventato; la grandezza della sua fama è pari solo a quella del suo naso, appollaiato su una barba che sembra viva e dai cui ciuffi fuoriesce un fumo denso che, a ben vedere, proviene da un sigaro sempre acceso. Lo sguardo posato sa tendere al vacuo davanti a una replica o a un rifiuto, entrambi, per chi è stato capace di servire prima di comandare, categorie di pensiero inconcepibili. Sotto la barba, all’altezza del petto, porta due pistole, che i suoi uomini dicono sia in grado di impugnare con quei tentacoli pelosi. In pochi giurano di averglielo visto fare, tanti non possono neanche più giurare.
Le guardie di Sua Maestà britannica sono riuscite a sfilargliele. Il sigaro glielo hanno lasciato perché lui, con lo sguardo vacuo, ha fissato quei ragazzini negli occhi e ha detto: «Io non lo sputo di certo. Se lo volete, dovete mettermi le dita fra i denti».
Anni prima del perdono reale era al servizio del Capitano Watling. Morto Watling, quando si dovette decidere se Sharp fosse degno di esserne il successore, alcuni uomini, tra cui Davies, preferirono la terraferma. Mesi dopo, al comando del signor Cook – sotto cui Davies fu quartiermastro –  quel manipolo di inglesi rubò una nave alla rada davanti Ash, catturò altre due prede, e iniziò la sua avventura nei Mari del Sud. Tra i vari compagni, alcuni saranno noti più avanti per i loro meriti letterari e scientifici. Il medico di bordo, il signor Wafer, aveva occhi di vera malattia, ed era conosciuto e temuto come “il chirurgo dei pirati”, ruolo, quello del medico e chirurgo, che dopo Alexandre Olivier Exquemelin e le sue pubblicazioni esercitava tutt'altro fascino. Si eccitava, Wafer, davanti a una gamba amputata, e passava il tempo a operare o a scrivere. Anche lui rimasto a terra dopo la faccenda di Sharp, era stato vittima di un incidente: stava facendo asciugare della polvere da sparo quando un compagno gli era passato vicino con la pipa accesa. Lasciato indietro, aveva vissuto con i nativi che, a detta di tutti, lo avevano trattato meglio di quanto non avessero fatto molti europei, pirati e no. Era uno dei pochi uomini in grado di intimorire Davies, che si era convinto che medici e scrittori fossero creature orribili, e che quando le due cose coincidevano nascevano mostri che neanche il diavolo avrebbe voluto incontrare al termine della notte. Nella ciurma non era nemmeno l'unico a scrivere. C'era anche William Dampier – il futuro autore di Memoirs of a Buccaneer – ghiotto di cacao, soprattutto quello di Caraccos, e che quando aveva doppiato Capo Horn si era fatto annodare a un albero, con la matita legata alla sinistra e il quaderno alla destra, per disegnare quello che vedeva.
Un'altra data: 23 aprile 1683. E neanche il tempo di mettere in allarme le città delle coste del Pacifico che un anno dopo «dovevano cambiargli nome a quel mare!», era solito dire Davies; che in seguito alla morte per febbre di Cook avrebbe preso il comando della Bachelor's Delight e affiancato Eaton, e più avanti Swan, e Townley e Knight, al comando di una piccola flotta di seicentoquaranta uomini e otto velieri. La baia di Panama, Leon, Realejo in Nicaragua, Guayaquil, tutte depredate. Davies comandava, Wafer recideva (con la sega o con la spada), e Dampier si appuntava quello che vedeva, le coste cilene, le isole che incontravano, riportando anche il dato più insignificante.
In realtà, nei testi di Dampier leggiamo anche di bucanieri pasticcioni e paurosi, e scopriamo che  Guayaquil non fu mai presa. A onor del vero non per colpa di Davies, «che si mostrava impaziente di arrivare in città», ma per via di un sottoposto che, per timore, tagliò i legacci alla guida, lasciandola scappare, senza dir niente se non quand'era troppo lontana.
Poi, quando Davies e Swan si divisero, Dampier si imbarcò sulla Cygnet per visitare «le zone settentrionali di questo continente del Messico», lasciando ai vecchi compagni un considerevole numero di mappe tra cui scegliere il luogo più adatto per seppellire tutto prima di tentare la strada del perdono reale, del compromesso. E, scopre adesso il Capitano bucaniere Davies, dell'inganno.
Con le catene ai polsi lascia che un po’ di fumo gli esca dalla barba, è stanco di quella vita ordinaria che per giunta è stata tradita. Se si guarda indietro, sa da dove ricominciare. Così fissa vacuo il piantone e gli dice: «Ragazzo, non volermene. Se vuoi dare la colpa a qualcuno, dalla a quel porco del tuo re».

IV

Nella sezione storica della Cancelleria Britannica, a seguito della desecretazione di gran parte dei documenti legati a Isla del Coco, è oggi possibile leggere alcuni stralci – i meglio conservati – del diario dell'ufficiale di Marina Bennett Grahame, passato alla storia con il nome di Benito “spada insanguinata” Bonito. Penna fine e colta, nelle ultime pagine del manoscritto, Grahame si fa frammentario e inquieto ma sempre pienamente consapevole.
Il quattro maggio del 1819, a Guayaquil, decide di ammutinarsi dal suo passato. Stanco di obbedienza e devozione, trova la propria vita noiosa. Trova noioso pattugliare le coste del Pacifico, ripugnante aver navigato al fianco dell'Ammiraglio Nelson, tanto che, una volta superato Capo Horn, sente un malessere che fatica a spiegare ma che in realtà spiega benissimo. Annota: «È come se, lasciandoci alle spalle quell’infernale tratto di mare, quel pezzo di terra che come la punta di un ago concentra la massa assottigliandola, tra me e il mio passato si sia frapposto all’improvviso qualcosa di enorme, grande come l’intera America del Sud». È un sentimento che non può ignorare.
Sulla Devonshire, durante due settimane di cabotaggio forzato davanti alle coste dell'Ecuador, inizia a vedersi, irrequieto, come un uomo solo alla testa di cento uomini soli, lontani mesi di navigazione dall’Europa, da una coscienza collettiva che si annichilisce nella distanza, che nel Vecchio Continente si rinnova e nel Nuovo si ricicla imponendo schiavitù, sterminio e dominio delle masse. E così l'otto maggio dà l’ordine di fare rotta verso Acapulco. Ancora una volta è la noia a spronarlo:
«Non voglio ingannare nessuno e tanto meno me stesso. Se mai prenderò la decisione che temo, non sarà per spirito di rivolta ma per noia, una noia che è desolazione, che accerchia tutto e ne fa boccone».
La decisione temuta è il tradimento, il luogo dove si consumerà una piccola isola appartata, lontana dalla terraferma e tranquilla abbastanza. Quello che succede – e che riesce a raccontare parecchie settimane dopo – è meglio riportarlo per intero.
«15 giugno, 1819, 00.18. Abbiamo lasciato l’isola da un giorno, ma solo ora trovo il coraggio di scrivere quello che è accaduto. Arrivati a poche centinaia di metri dalla spiaggia abbiamo gettato l’ancora e ho ordinato a tutti, nessuno escluso, di mettere in mare le scialuppe e scendere disarmati sull’isola. Qualcuno mormorava, per lo più avevano capito che l’intenzione era quella di disertare, ed erano tutti un po’ diffidenti. Il nostromo Rooney mi ha dato una mano una volta arrivati su una spiaggia dal nome tedesco, e lì ho informato tutti che volevo lasciare per sempre la Marina. È calato il gelo tra i marinai, ma poi qualcuno ha detto che ci stava, che non era al servizio di nessun re ma del capitano Grahame. Gli ho risposto che non esiste più nessun Bennet Grahame. Faceva un gran caldo, sempre di più man mano che ci avvicinavamo al mezzogiorno, ma poco a poco anche altri uomini hanno deciso di disertare. A quel punto ho detto a tutti che chi non si fosse unito alla ciurma di Bennet Benito, nome che mi è venuto lì per lì, sarebbe morto sgozzato per mano mia, e ho sguainato una spada che avevo nascosto sotto la giubba. Qualcuno aveva fatto altrettanto, e dallo sguardo di quel pover'uomo ho capito che estrarre l'arma era stato un riflesso condizionato, niente di più. Ma ho dovuto trafiggerlo lo stesso.
Non so perché ho detto quella frase, che avrei sgozzato tutti, non lo so davvero. Forse avevo bisogno di spingermi troppo oltre per poter tornare indietro, così, dopo avere infilzato al petto il capo cannoniere, sono andato da un ragazzo che sapevo essere uno dei marinai più leali alla corona e gli ho chiesto da che parte intendeva stare. Tremava, tremava troppo per rispondere, e io gli ho preso la testa e l’ho decapitato mentre urlava. Nessuno dovrebbe mai sentire i gorgoglii di una gola tagliata, quei suoni ingolfati dal sangue. Sulla sabbia si è subito creata una pozza rossastra, e ho rischiato il linciaggio. Ma erano tutti uomini disarmati e sono riuscito a farne fuori altri quattro prima che succedesse una cosa che non mi aspettavo. Invece di ammutinarsi, una parte degli uomini ha preso le mie difese, sempre più numerosa, finché non fummo la maggioranza.
Ho sgozzato tutti quelli che non volevano diventare pirati, e ho ordinato agli altri di seppellire i cadaveri vicino alla foce del fiume Genio. Ho fatto costruire anche un'enorme croce su cui ho pulito la mia spada, che era così imbevuta di sangue da gocciolare. Poi ho detto a tutti che saremmo tornati lì ogni volta che avremmo avuto qualcosa da seppellire, a salutare le prime vittime che aveva fatto la lama insanguinata di Bennet Benito.
Tornato sulla Devonshire ho pianto come non facevo da anni, dalla battaglia di Copenaghen, e ora è un giorno che non parlo con nessuno. Ma adesso che ho scritto tutto, sebbene di fretta, sento l’esigenza di chiudere questo quaderno per un po’ e uscire sul ponte con i miei nuovi uomini».
L'ultima pagina consultabile riporta la rotta verso quell'isola e il nome di un nuovo veliero sottratto agli spagnoli, il Relámpago. È datata diciannove agosto 1819.

V

L'undici novembre 1897, invece, August Gissler viene nominato dal Presidente José Joaquín Rodríguez Zeledón governatore di Isla del Coco. Al presidente della Costa Rica, oltre che per salvarne la moglie da una pericolosa solitudine, sembra la giusta ricompensa per un uomo che, in fondo, è uno degli unici due abitanti dell’isola da ormai otto anni.
Il tedesco gli sta simpatico, ha lasciato l’Europa per seguire adolescenziali letture marinaresche e si è ritrovato schiavo dell'isola. Ogni volta che va a trovarlo, Gissler lo accoglie sempre con gentilezza, offrendogli qualcosa da bere e chiacchiere colte da uomo intelligente, e a ogni viaggio il presidente pretende di salutare anche la signora. Confida di scorgere negli occhi neri di Eolani qualcosa che non sia attesa, per giunta sconfitta, ma ogni volta si ritrova a fissare quelli di Gissler, sperando di vedere, al contrario, una volta toccato il solito argomento, una luce che non sia anch’essa d’attesa, stavolta febbrile e inquieta.
Per rendere meno folle e dolorosa a Eolani la vita sull’isola, ha sottoposto la nomina a governatore di Gissler all’onere di creare una colonia agricola con almeno cinquanta famiglie. Ma il tedesco è restio a tornare in Germania, e anzi, più in generale, sembra restio a lasciare la sua occupazione quotidiana di scavo, e l’isola, per più di un giorno.
Almeno all’inizio erano in diciassette, e l’attivismo del tedesco, nei suoi primi anni sull’isola, aveva destato dapprima diffidenza, poi curiosità, quindi una distaccata noncuranza. Quantomeno fino alla nomina a governatore. Prima del pubblico incarico, Gissler era riuscito a convincere sei famiglie di compatrioti a trasferirsi nell’Oceano Pacifico, grazie alle frenetiche azioni della Cocos Plantation Company da lui fondata, che non faceva altro che esaltare l’ormai celebre – tanto celebre quanto derisa – isola del tesoro. Diceva di essere in possesso di una dettagliatissima mappa, ricevuta da gente più che affidabile, che segnava esattamente i punti dove scavare per ritrovare il tesoro di Lima e soprattutto la Madonna d’oro. Quella piccola comunità aveva costruito capanne per vivere e iniziato un discreto commercio di canna da zucchero e caffè, in parte supportato dal buon cuore del governo costaricense che cominciava ad apprezzare l’eco che si stava creando attorno alle stramberie del tedesco. Gissler aveva organizzato la comunità in squadre, e non passava giorno senza che alcune scavassero, mentre le altre badavano alle colture, ai bambini o ad altre faccende. Era anche galvanizzato da alcune voci che aveva sentito a La Habana riguardo a un canadese che, di viaggio in viaggio su un’isola disabitata al largo della Costa Rica, era arricchito in patria. Persino Eolani era felice, e più volte aveva detto al presidente, che cominciava ad andare in visita sempre più spesso, che una volta trovato il tesoro si sarebbero trasferiti in Europa, finalmente sulla terraferma. Il presidente pensava che l’Europa non fosse altro che un ammasso di isole, ma preferiva tenere i suoi pensieri per sé. Doveva però ammettere che gli occhi neri di Eolani, occhi di hawaiana, lo avevano più volte turbato, fino a intristirlo quando l’ombra della sconfitta si era sostituita a una certezza ormai data per scontata. La mappa, infatti, sembrava segnare punti a caso, e dalle spiagge di Wafer e Chatham, ormai sventrate dopo mesi di scavi, non erano emerse che conchiglie e ossa. L’unico a non demordere sembrava essere Gissler, che partiva e tornava con altre mappe, comprate a caro prezzo con i soldi della compagnia, da presunti pirati, cercatori d’oro o discendenti di bucanieri. Le altre famiglie, poco a poco, dopo liti sfociate in vere e proprie faide, avevano lasciato l’isola, e i Gissler si erano ritrovati da soli.
È così che al Presidente José Joaquín Rodríguez Zeledón era venuta l’idea di nominare il tedesco governatore, a patto che trasformasse l’isola in una colonia agricola. Intento che fallirà.
Nel 1905 Gissler fissa il vuoto, la barba gli arriva alle ginocchia, e il presidente, nelle sue ultime visite, non ricorda di averlo più visto senza un bicchiere di whiskey in mano. Lo scruta negli occhi, nota che sono più gialli dell’ultima volta e umidi di qualcosa che sembra un sottile strato di nebbia, una patina di consistenza acquosa. «Voi vi state ammalando», aggiunge avvicinandosi.
«È qui, non può che essere qui...»
«Suvvia. Siete su quest’isola da sedici anni, il mondo è andato avanti e voi avete passato la vostra vita con una pala in mano in ventiquattro chilometri quadrati».
Gissler sembra quasi non ascoltarlo: «Deve essere da qualche parte... se non l’ho ancora trovato, dev’essere da qualche altra parte... basta solo avere pazienza... quel guanto d’oro ne è la prova...»
«August» – Zeledón lo chiama per nome, cosa che fa raramente, sperando di spronarlo – «anch’io possiedo un guanto d’oro, potrebbe averlo perso chiunque, non prova niente».
Gissler si pulisce la barba dopo un sorso di whiskey, e domanda se ne vuole un po’ al presidente, che accetta più per toglierne un bicchiere al tedesco che per altro.
«Buono...»
Gissler muove una gamba su e giù, la stoffa che sfrega fa da sottofondo al gracidare di qualche uccello. «Visto, è scozzese, e gli scozzesi non tradiscono mai...», dice.
«Ma forse vengono traditi, amico mio».
«Alcuni sì... ma non tutti, non tutti... Sa, una volta ho salutato Eolani e le ho detto che partivo... ma non sono partito... mi sono addentrato nella foresta per capire... volevo capire come si può sopravvivere per mesi... se si può impazzire e ci si può inventare un tesoro... ma no, è il contrario, si impazzisce quando il tesoro è già stato inventato...»
Il presidente mette una mano sul ginocchio di Gissler che muove freneticamente la gamba, quel tic lo ha sempre innervosito, poi gli dice: «August, ormai il tesoro non c’entra più niente. Tu sei ossessionato dall’isola, che non riesci a lasciare. Hai realizzato la più grande paura del cartografo perché essa ha finito per coincidere con la sua rappresentazione e la sua storia. E questo perché tu hai steso la mappa sull’intera isola, e poi hai dimenticato l’isola». Sempre stringendogli la gamba, il presidente gli si fa più vicino: «Una volta un amico mi disse che un uomo si rifugia in un’isola dopo la fatica della battaglia con il mostro, a patto però che il suo mostro non sia esso stesso un’isola. Pensavi che il tuo mostro fosse il tesoro ma guardati, hai lasciato una cittadina sperduta dell’Impero Germanico perché volevi viaggiare, vedere il mondo, vivere, e ti ritrovi da sedici anni bloccato qui. E per di più sei così codardo da non volerci restare da solo!».
Gissler si divincola innervosito e si alza. «Lasci stare Eolani, lei non c’entra...», risponde, «lei è dalla mia parte... E qui non abbiamo ancora finito, magari c’è sfuggito qualcosa... già, dev’esserci sfuggito qualcosa...».


Foto: Tacita Dean.


Gianluca Cataldo
Vai all'Arcipelago!

 

© 2020 TerraNullius - CC Licensed

menu

  • Home
  • Narrazioni
  • Ipercontemporanea
  • I nostri libri