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Arcipelago Essex - Gianluca Cataldo

«Le isole nascondono spesso grande miseria, ma non tutte volontaria e ignobile». Aggiungiamo noi che la verità che le riguarda non sempre è degna di questo nome, e che a volte si fanno bastare la verosimiglianza; altre, addirittura, la bugia. Così, se l'iguanuccia di Anna Maria Ortese, tanto cara a Daddo, conservava pietre che scambiava per preziosi da seppellire, noi collezioniamo isole, che sono pietre grosse, a volte misere a volte no, ma mai noiose.

Coordinate odierne: alla deriva. Arcipelago Essex.


E poi ci sono isole che isole non sono, che con le isole condividono acqua ovunque – ma non una goccia da bere – e la paura di affondare.
Il 12 agosto 1819, agli ordini del capitano George Pollard jr., la baleniera Essex lascia il porto di Nantucket. I ventuno membri dell'equipaggio sono uomini disposti a restare in mare aperto per due anni di seguito, e ognuno di loro, davanti a una pinta di birra, può raccontare della propria lotta con il capodoglio in un oceano dal nome troppo spesso ingannevole. Molti non ricordano di essere stati altro che marinai nella vita, e dicono di avere succhiato olio di balena anche dal seno delle loro madri. A chi, insinuante, reagisce con una mezza risatina, dopo aver accantonato per un attimo la tipica calma quacchera, spaccano il boccale sulla testa. Poi ne ordinano un altro. Thomas Chapple, un gigantesco boatsteerers tanto chiacchierone quanto affidabile con un arpione tra le mani, oltre alle doti conosciute da innumerevoli fortunate in decine di porti, nasconde discutibili velleità letterarie, e a quanti dicono che il mare sia una continua scommessa risponde, pensando alle donne che lascerà temporaneamente vedove, che il mare invece si commette. Neanche fosse un delitto. Ma tutto questo non basta. Scrive il primo ufficiale Owen Chase: «È necessario che nelle scuole si insegni la sofferenza, la miseria e la disperazione; queste grandi lezioni che ci rammentano la nostra perenne dipendenza da una pietà e da una misericordia onnipotenti».

Due giorni dopo la partenza il mare accenna appena alla sua forza, ed è già tempo per il primo presagio. Il capitano giudica passeggera una nuvola che si trasforma in tempesta, e le vele, ammainate in ritardo, finiscono per spingere la nave addirittura all'indietro, mentre una raffica di vento si porta via due scialuppe. Invece di rientrare al porto di Nantucket proseguono, e il 17 settembre arriva il secondo presagio: vicino all'Isola di Maggio, al largo di Capo Verde, si imbattono nel relitto della Archimedes. Non se ne curano.
Il 17 gennaio 1820 fanno tappa sull'Isola di Santa Maria, e qui, durante un pranzo in una taverna, il marinaio semplice William Wright si lascia scappare una frase sibillina. Da quando ha visto la scialuppa volargli sopra la testa, sfiorando l’enorme mole di Chapple, non sa perché ma non pensa ad altro che a due gigantesche masse che si scontrano, una organica fatta di carne, sangue, risentimento, e l’altra praticamente inerte. Sfidando il pestaggio, ha addirittura detto a Chapple che lo ha sognato: correva con furia cieca, nudo e con i muscoli tesi, contro la parete di pietra di un castello. Lui gli urlava di fermarsi, ma invece di rallentare il compagno accelerava stridendo i denti. Per la tensione gli colava sangue dalla bocca, la pelle pulsava sudore, e una determinazione quasi da apoptosi lo guidava verso un urto ormai inevitabile. Dopo l’impatto la parete di cinta crollava, e mentre Wright si vedeva cadere da lassù, da dove aveva osservato impotente l’intera scena, si svegliava impaurito. All’Isola di Santa Maria parla agli altri di questo sogno, ripensa alla raffica di vento e al relitto, e forse per rassicurarsi, sibillino si lascia sfuggire: «Due indizi non fanno ancora una prova…». Rifocillatisi, dopo un paio di giorni i marinai riprendono il largo, e fino al 23 ottobre, ininterrottamente, cacciano testuggini e balene franche, dalle quali ricavano circa ottocento barili di olio e provviste per più di un anno. Decidono quindi di virare a ovest e inseguire i capodogli. Ma il 16 novembre 1820, durante una battuta di caccia, mentre Wright è scosso da terribili brividi, Chase viene sbalzato via dalla lancia, con ancora l'arpione in mano, da un violento colpo di coda. È il terzo presagio, l’ultimo.

Quattro giorni dopo, proprio davanti alla prua della Essex si alza uno spruzzo che supera di due volte l'altezza della nave. L’acqua schiuma come se l’animalone che la frusta avesse oceano al posto della bava, e dietro il muso, enorme, una mastodontica pinna batte la superficie del mare. Si dimena e spruzza, si contorce, mentre si allinea allo scafo e pare prendere la rincorsa.
Chase non crede ai suoi occhi, quella bestia li sta puntando.
Un urto violentissimo solleva la poppa della nave e manda tutti sulle ginocchia, che schioccano sul legno umido. Il tempo sembra fermarsi, a mezz'aria, come la chiglia incrostata della Essex che con uno schianto spaventoso ricade in acqua. La carena regge a fatica il peso delle sue duecentotrentotto tonnellate, che quasi si capovolgono, mentre la balena, stordita, si scuote di dosso l’urto e riemerge travolgendo parte della sottochiglia. Chase è immobile, fissa gli alberi mezzi abbattuti, gli uomini che si rialzano a fatica. Non capisce. Quando dalle lance in battuta si domandano dove sia finita la nave è troppo tardi, la balena ha colpito di nuovo il vascello, sfondandolo e trascinandoselo dietro per un po’.
I ventuno uomini si dividono in tre scialuppe, ne rialzano le fiancate di quindici centimetri, strappano le vele al relitto, raccolgono acqua e viveri finché possono, poi cala la loro prima notte da naufraghi. L'oscurità è rimpallata dall'eco delle onde sui resti della Essex, cui le scialuppe, come spaesate, sono legate con funi spesse quanto braccia. Il buio è assoluto per sapere chi sia il coraggioso che ha l'onestà di piangere, e il sonno è una furia di stanchezza che trascina tutti in un oblio nero quanto il mare, tutti tranne Chase, che negli occhi non ha l'ossessione senza pupille della notte ma la balena col suo carico di vendetta.

Il 21 novembre 1820 slegano le cime e iniziano un nuovo viaggio, con pochissima acqua e senza più tabacco da masticare. Il 30 uccidono la prima testuggine, ne bevono il sangue caldo e cuociono la carne nel carapace; l'11 dicembre l'ultima. In mezzo continuano a dividere le provviste, e nella sua scialuppa è Chase, pistola alla mano, a soprintendere all'importante compito. Il 20 avvistano un'isola, sbarcano, e nel giro di pochi giorni la prosciugano letteralmente di tutta l'acqua e il cibo che contiene, divorando uccelli ancora vivi e bevendo ogni goccia potabile, tanto che il 27 sono costretti a riprendere il mare. Ma non tutti sono in spiaggia pronti a ripartire. Tre di loro, da qualche giorno, sono tentati da una decisione spaventosa almeno quanto l’alternativa, e per costringersi a prenderla non sono nemmeno andati a salutare i compagni. È Chase a raggiungerli per informarli dell’imminente partenza, ed è Wright a spezzare il silenzio che pesa sui loro occhi e rende il caldo ancora più asfissiante. Ha visto scomparire il cambusiere William Bond dalla propria scialuppa, anche se neanche ricorda come. Sa solo che al tramonto era lì, dalla parte opposta alla sua, e l’indomani non c’era più. Un’onda, probabilmente, si è portato via quel nero alto un metro e novanta, e adesso lui, piccolo di statura, ha una paura che pensava non avrebbe mai provato, quella del mare. Questa volta parla chiaro, dice addio all’amico e gli chiede di scrivere alla sua famiglia. Poi si volta a consolare il giovanissimo Seth Weeks, che piange come il ragazzino che è. Il terzo, sorprendentemente, è Chapple. Forse, se avessero visto gli otto scheletri sepolti in una caverna nelle scogliere dall'altro lato della spiaggia, avrebbero ripreso il loro posto con gli altri naufraghi, che ora si lasciano alle spalle tre compagni che preferiscono la terraferma alla scialuppa – un'isola più grande a una più piccola – e si accontentano di una promessa fatta dal loro capitano e della sua parola.

Il 10 gennaio 1821 muore il primo uomo da quando sono ripartiti, il secondo ufficiale Matthew P. Joy, e il 12 l'arcipelago Essex si sfalda, la lancia di Chase perde di vista le altre due, che resteranno vicine per non più di sedici giorni. Ma le loro storie proseguono parallele. Il 9 febbraio, dopo aver dato segni di pazzia, è il turno di Isaac Cole, che spira tra incredibili convulsioni. Gli altri, invece di buttarlo in mare, decidono di mangiargli prima il cuore, con foga, poi alcuni brandelli di carne. Mettono il resto a essiccare al sole e l'indomani lo arrostiscono prima che imputridisca. Agiscono meccanicamente, con mano ferma e negli occhi il dubbio e la pietà. Questo nella scialuppa di Chase, perché in quella di Pollard l'uno febbraio sono già rimasti in quattro, vivi, e si vedono costretti a tirare a sorte. Il fato sceglie il cugino dello stesso capitano, Owen Coffin, un ragazzino senza genitori contrattato il giorno della partenza direttamente da Pollard che, ignaro di quello che sarebbe accaduto, gli aveva offerto un lavoro e un po’ d’avventura. Ben peggiore, però, è il fato che spetta a Charles Ramsdale, uccidere e squartare il compagno. Ma quegli uomini, benché stremati dalla sete e dalla fame, restano marinai di Nantucket, che nella lingua dei nativi Wampanoag significa “terra lontana”. Scrive il capitano Pollard nel suo resoconto: «Tirammo a sorte, e toccò al mio povero mozzo. Balzai verso di lui gridando: “Mio giovane amico, se il tuo destino ti ripugna, ucciderò il primo che osi toccarti”. Il poveretto, pallido, esitò un istante, poi, calmo, poggiando il capo sul bordo della lancia, disse: “Mi ripugna quanto quello degli altri”».
Alle sette di mattina del 18 febbraio 1821 la lancia di Chase viene avvistata dal brigantino Indian; il 17 marzo la baleniera Dauphine trae in salvo Pollard e Ramsdale. Il 9 aprile la Surry recupera i naufraghi rimasti sull'isola di Henderson, più otto scheletri umani. Chase, col tempo, dimenticherà tutto, comprese le lacrime di sangue che si piangono, letteralmente, quando la sete ti prosciuga gli organi da dentro, ma nessuno gli toglierà mai dalla testa che, il 20 novembre 1820, quella balena, più bianca delle altre, stesse guardando proprio lui.


Gianluca Cataldo

Illustrazione di Guido Volpi.
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