Il mio nome è Linda Brown e ho nove anni.
Mia mamma si chiama Leona, mio papà Oliver.
Questa mattina, diversamente dal solito, non ho attraversato i binari della ferrovia, saltandoli come fossero coccodrilli pronti ad azzannarmi.
Né ho preso l’autobus verso la scuola elementare di Monroe, qui a Topeka, in Kansas, la mia città. Ho semplicemente fatto una passeggiata aggrappata alla mano di papà fino alla Sumner School, dove vanno alcune mie amiche bianche del quartiere.
Siamo arrivati camminando assieme ad altri genitori e bambini. Ma ci hanno fermati all’ingresso. Ci hanno bloccato con le mani aperte. Con le mani sulle braccia e sul petto.
Adesso sono diversi minuti che aspetto qui fuori. Papà è dentro che parla con il direttore. Sento che sta alzando la voce. Eccome, se lo sento!
Siamo all’inizio dell’autunno del 1951 e io non posso davvero sospettare nulla, in questo momento; sto seduta, dondolo le gambe e aspetto: che posso fare? Ma voi sì. Anche se ci vorranno ancora tre anni, voi lo sapete di certo che, stamattina, proprio da dentro questa scuola, nel mio Paese è iniziata la rivoluzione.
Linda Brown il primo giorno in classe alla Sumner School
A DAYLIGHT WALKING
Laggiù, in fondo alla strada
1-
Greg è un tipo sulla quarantina, poco più alto di uno e ottanta e decisamente robusto. Mentre esplode in continue risate (quelle nate nel petto, che illuminano la stanza e ti fanno sentire parte di qualcosa di improvvisamente vivo) mi racconta stralci della sua vita. Aprendo porte una dopo l’altra schiude ogni mistero della casa colonica, bianchissima all’interno e azzurra fuori, tutta in legno, ricostruita per metà dopo che un incendio, all’inizio degli anni Settanta, aveva rischiato di trasformare la sua famiglia in uno straziante articolo di cronaca nera. Mi mostra poi la cucina, il bellissimo terrazzo che sovrasta il giardino da dove, quando il tempo lo permette, si scorge in lontananza il Golden Gate. Appena sono arrivato mi ha lasciato il tempo di sistemarmi in stanza, di fare una doccia, accendere il computer piazzato su una comoda scrivania proprio sotto la finestra da cui potevo veder risplendere un tratto di Cedar street, che è quasi la fine di quella strada su cui ho camminato e sudato per più di un’ora, per arrivare fin qui.
La mia giornata era iniziata prestissimo, con un treno da San Jose. La stanza che avevo prenotato originariamente si era rivelata poco più di una celletta da alveare. Avevo subito chiamato il servizio di AirBnB per farmi rimborsare e avevo cercato un’altra sistemazione, trovando l’appartamento di una certa Joyce; il suo volto sulla foto del profilo-utente era quello di una donna afroamericana sui cinquanta, con lunghi e sottili dread. Un volto solare. Mentre ero al telefono un ragazzo danese mi fissava con lo spazzolino tra i denti. Mi aveva guidato nel giro dei due corridoi e mi aveva da poco mostrato la striscia di giardino sul retro dove un’altra decina di persone erano stipate in loculi senza bagno e in una roulotte arrugginita. «Cazzo, a saperlo che ti restituivano i soldi me ne andavo pure io!» mi aveva detto, prima di riprendere a spazzolarsi le gengive. Avevo rapidamente rifatto lo zaino, ed ero uscito con lui in strada. C’era una macchina parcheggiata, una ragazza al posto di guida e un tizio sui venti, spettinato e magro, seduto dietro. «Andiamo giù alla Berkeley» mi aveva detto, stuzzicando i due piercing alle estremità del labbro inferiore. Poi avevo lasciato che la loro auto si rimpiccolisse fino alla fine della mia visuale. Il parafango lampeggiava come colpito dal raggio di un laser alieno. Svanito anche il rumore del motore, mi ero rimesso in cammino, sotto un sole ancora più corrosivo di quello del primo mattino.
E avevo camminato fissando lo scorrere immutabile della linea del marciapiede. L’alternarsi dei giardini delle villette, gli ingressi di club e chiese di qualche religione senza croce, le sedi del primo coordinamento americano del movimento Lgbt e di un centro per il buon vicinato, dove un poster all’ingresso pubblicizzava un pranzo musicale con un quartetto proveniente da qualche Orchestra filarmonica. A Berkeley avrei dovuto incontrare Tommie Smith, l’atleta afroamericano che sul podio dei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico, il 16 ottobre 1968, aveva sollevato il pugno destro in un guanto nero. Da più di un anno stavo inseguendo le sue tracce e quelle di John Carlos, lo sprinter di Harlem che aveva completato quella protesta alzando il pugno sinistro sul terzo gradino dello stesso podio. Due giorni e avrei guardato Smith negli occhi, gli avrei potuto fare un po’ di domande. Per questo ero arrivato in città. Ma camminando, e camminando, e pensando, (e compiendo i due gesti insieme) mi veniva da credere che non fosse tutto. Non sapevo bene perché, o a chi mai potesse importare, ma da un po’ di tempo l’oggetto della mia ricerca (il podio di Città del Messico, le vite di chi lo aveva sovrascritto di un senso politico, quasi spirituale…), non mi sembrava isolato o isolabile. Mentre camminavo pensavo a Smith e Carlos che si avvicinano lentamente al podio, in maniera quasi marziale. In testa hanno la consapevolezza che si stanno avvicinando anche al punto di rottura più drastico nella loro esistenza, la fine della carriera e forse peggio. Eppure procedono. Avanzano. E in quell’avanzata non sono soli. Ecco, pensavo al gesto stesso del camminare, mentre sudavo su quella strada che assomigliava alla gobba di un drago, di cui si vedono le scaglie di cemento della pelle, ma non la fine. Al camminare e basta, e al fatto che loro due, camminando verso il podio, non sono soli.
Quando arriviamo in salone mi accorgo che Greg ha iniziato a raccontare del suo passato da giocatore di rugby, gli chiedo allora esplicitamente se non si tratti di football perché nelle traduzioni di certi libri è una cosa che mi fa uscire matto, o è l’uno o è l’altro, ma Greg ci tiene a dire che è proprio rugby, non un favore, una concessione alla mia capacità di comprensione da europeo. All’epoca dell’università, prosegue, la zona delle colline (dove siamo adesso) era molto diversa. Berkeley è sempre stata una città d’avanguardia, ma che un nero abitasse qua non era pensabile. Infatti un suo zio, che stava oltre la Baia, un giorno era venuto a trovarli. Non se la passava benissimo, gli mancava qualche dente, era mal vestito e zoppicava, ma fin qui, in teoria, per la Berkeley di fine anni Sessanta, nulla di strano. Eppure la polizia lo aveva fermato e ammanettato. Per fortuna era ormai quasi davanti al portone, così Joyce era potuta uscire per tirarlo fuori da quel casino.
«Per noi non è mai stato facile» aggiunge Greg e capisco il senso profondo, ampio, sofferente, di quel noi. «Per mia madre, poi… Lei da ragazzina raccoglieva il cotone in Oklahoma e… » Greg si avventura in un nuovo racconto e io mi accorgo che qualcosa non torna. Da quando avevo visto la foto nell’ovale del profilo di AirBnB, avevo immaginato che Joyce fosse sua moglie, la sua compagna, e mentre cerco di ricalibrare le coordinate delle loro vite, capisco che Greg ha più di cinquant’anni e Joyce ne ha quasi ottanta, che la foto era semplicemente molto datata e che quelli che mi sta indicando Greg alle pareti sono premi letterari vinti da sua madre, Joyce Carol Thomas: una delle più importanti scrittrici americane per ragazzi.
Mi mostra le targhe una a una, me le espone con grandissimo orgoglio. Prima di chiudere la carrellata si appunta le mani ai fianchi, gira su se stesso come una trottola per giganti. Indica col pollice un grande separé bianco che divide in due il salone. Da quando sua madre ha avuto l’ictus, mi dice Greg, e lui si è trasferito là per aiutarla con il Bed and breakfast, ha cercato di recuperare un po’ dello spazio che prima era destinato esclusivamente agli ospiti. «Adesso inizia a stare un po’ meglio, sai…» il suo solito sorriso sembra flettere leggermente, lui cerca di tenerlo, di tirarlo, ma dagli occhi si capisce che sta facendo fatica. Torna a indicare le pareti e mi sorprende a fissare la targa speciale dell’Naacp (l’Associazione per il progresso e l’integrazione delle persone di colore) conferita a Joyce per «il contributo alla cultura afroamericana e la consapevolezza dei più giovani», dice lui citando a memoria le due righe in fondo alla targa. Gli dico che sono sorpreso e che è una bella coincidenza. Anzi, che è una coincidenza incredibile che io sia finito proprio qui. Gli spiego che mi trovo negli Stati Uniti perché sto lavorando a un libro che riguarda qualcosa di molto affine, una storia sulla presa di coscienza, dico, e mentre gli racconto del podio di Messico ’68 lui fa su e giù con la testa e mi dice di seguirlo. Nel pezzo di corridoio tra le scale e l’anticamera della cucina mi mostra un quadro che raffigura una ragazzina in una classe, circondata da suoi coetanei, tutti neri come lei, seduti dietro i banchi di scuola. «Guarda qua» dice. «Tante cose, per noi, sono partite da questa bambina, sai?». Io riconosco l’immagine, l’ho già incontrata sul cammino che mi ha portato a Smith e Carlos. È un’immagine che ha a che fare con tutta quella generazione di nati negli anni Quaranta. In realtà, con tutti gli Stati Uniti di allora e di oggi. Però questo dipinto dai colori intensi è ben diverso dalla fotografia originale, in cui la ragazzina è invece l’unica nera, tra gli studenti che la assediano con lo sguardo, ridacchiano alle sue spalle. La ragazzina in questione si chiama «Linda Brown», lo diciamo praticamente all’unisono io e Greg. E anche lei, (lo so ma non so come dirmelo), c’entra qualcosa con quel cammino. Con il gesto in sé del camminare. Camminare sotto la luce del sole, a testa alta, guadando un fiume di disprezzo e ostilità, non più sopportabile. Camminando come Smith e Carlos verso il podio di Città del Messico. O scesi dal podio di Città del Messico, pronti ad affrontare il disfacimento delle loro esistenze. Nel suo caso, camminare per andare a scuola, attraverso le grida inferocite della Storia. C’entra, Linda Brown, con l’avvenire del suo popolo. Forse più di qualcosa.
Linda Brown cammina, alla luce del sole, costeggiando la recinzione della Sumner School
2-
Tre anni dopo aver atteso suo padre Oliver Brown fuori dall’ufficio del direttore della Sumner Elementary School di Topeka, il tribunale del Kansas dava ragione proprio alla piccola Linda, con una sentenza che avrebbe fatto epoca e che portava il suo nome: Brown vs. Board of Education of Topeka. La sentenza stabiliva l’incostituzionalità delle scuole segregate, e l’opportunità di aprire le istituzioni educative, a tutti i livelli, al processo di integrazione. E dall’istruzione, da quel momento in poi, l’integrazione si sarebbe allargata a tutti gli altri campi.
Era il 1954, con la sua vicenda, e la caparbietà dei suoi genitori, Linda Brown assieme alle altre dodici famiglie coinvolte nel processo contro il dipartimento dell’istruzione di Topeka infliggeva una ferita enorme alla spessa corteccia di assoluta normalità con la quale la segregazione veniva percepita e vissuta negli Stati Uniti. Il colpo veniva dato più a quell’inevitabilità quotidiana, a quella sorta di legge di supremazia razziale, divina e immutabile, che non alle normative in merito. Le cosiddette Leggi Jim Crow avrebbero infatti continuato a regolare i limiti, Stato per Stato differenti, del concetto uguali ma separati, che dopo la fine della schiavitù negli Stati Uniti (avvenuta ufficialmente nel 1876), aveva attraversato e indirizzato la vita dei nuovi cittadini americani afrodiscendenti, in tutti gli ambiti possibili: matrimonio, istruzione, trasporti, incrocio di razze, lavoro, tempo libero, e di conseguenza anche desideri, ambizioni, stima di sé… Certificando, in altri termini, che la vita separata e senza uguali possibilità, che i neri d’America avrebbero dovuto portare avanti, faceva protrarre, soprattutto negli stati del Sud (ma non solo in quelli), lo status di supremazia bianca che la schiavitù aveva ormai consacrato nell’anima dell’Unione.
La prima frase in assoluto che avevo scritto del libro a cui stavo lavorando [Trentacinque secondi ancora. Tommie Smith e John Carlos: il sacrificio e la gloria. (66thand2nd, 2017)], sarebbe stata quella che lo avrebbe chiuso e che gli avrebbe dato il titolo. I «trentacinque secondi» a cui fa riferimento sono il tempo che impiegano Smith e Carlos (e con loro l’australiano Peter Norman) per arrivare fino al podio dal tunnel dello stadio della UNAM di Città del Messico. E quel cammino avrebbe dovuto contenere, mi dicevo, in qualche forma di flash back o rievocazione (o di seduta spiritica), tutto il cammino del popolo afroamericano per giungere alla propria autodeterminazione. Tommie era il settimo di dodici figli, aveva raccolto il cotone nei campi quando la sua famiglia viveva in Texas. Per andare a scuola assieme alle sue sorelle camminava per più di due chilometri, salendo e scendendo dalle colline, contando i granelli di polvere della strada. Ad aspettarlo una catapecchia di legno gelida in inverno e incandescente d’estate, dove un’unica maestra cercava di insegnare a leggere e scrivere a ragazzini di tutte le età. Nel 1954, al tempo della sentenza Brown, Tommie Smith aveva dieci anni e aiutava suo padre a fare le pulizie nella scuola elementare della città californiana nella quale si erano trasferiti, scappando dal Texas una notte del ‘50. John Carlos, di un anno più giovane, all’epoca in cui termina il processo Brown si è appena fatto cacciare dalla scuola cattolica che frequentava ad Harlem, New York, per essersi rifiutato di studiare la storia di George Washington, «uno che avrebbe potuto abolire la schiavitù dei neri e non lo fece». Linda Brown, una ragazzina che chiedeva solo di poter andare alla scuola vicino casa sua, era stata determinante per la presa di coscienza dei piccoli Smith e Carlos. E per i ragazzi della loro generazione, al pari di Rosa Parks e Claudette Calvin che l’anno dopo avrebbero lanciato la storica rivolta degli autobus a Montgomery, in Alabama. E al pari di Martin Luther King jr., che proprio alla metà degli anni Cinquanta iniziava ad imporsi come leader di un movimento pacifico che tra le principali forme di protesta contemplava il gesto di camminare. Di occupare spazi fisicamente. Di incedere, nella melma dell’odio, un passo alla volta. Questo aspetto mi interessava in maniera quasi religiosa: l’affinità di quella camminata, che avvicina i due atleti al sollevamento dei guanti neri stretti a pugno, con la camminata orgogliosa e commovente, di solito alle prime ore del mattino, di donne, ragazze, bambine, che non meno degli attivisti maschi chiedevano di essere considerate come esseri umani. In casa Smith non si parlava mai di politica, si pregava, si lavorava, ma politica niente. Eppure mamma Dora, di Linda Brown gli aveva parlato. E lo aveva fatto con i denti stretti e le lacrime agli occhi. Per i Carlos era diverso, Harlem negli anni Cinquanta era politica. E quello della piccola Linda era subito divenuto un nome familiare, da aggiungere ai protagonisti di una lunga lotta in cui, nel vastissimo neighborhood newyorkese, anche i Carlos si sentivano profondamente coinvolti.
E mentre penso a Tommie e John, mentre penso all’intreccio delle loro vite con quella di Linda Brown, vedo una figura femminile scendere le scale. Greg le va subito incontro, e sostenendola per un braccio la rimprovera: Joyce sembra immateriale, veste una tuta viola che le sta grande, fluttua lievemente sui gradini, lenta, senza tempo. I suoi occhi sono completamente bianchi, le labbra incurvate in un sorriso che le è rimasto sul volto da un’epoca remota. Quando arriva alla fine della scala le stringo cautamente la mano, una mano d’aria. So, you are from Italy? mi chiede, o forse si chiede. Poi, passando oltre, infila la porta di casa aggrappata al braccio massiccio del suo ultimo figlio. «Mamma deve camminare un po’», mi dice lui non riuscendo a sorridere.
Joyce svanisce sulla strada, la porta che Greg chiude con due mandate me la cancella dalla visuale. È poco più di un’ombra, ma è la donna che per anni ha lavorato nei campi dell’Oklahoma. Ed è la donna che ha dedicato la vita ad insegnare a pronunciare la parola «orgoglio» alle bambine e alle ragazzine di tutto il Paese, attraverso i suoi romanzi, i racconti, le favole. Attraverso la sua memoria.
STORMY WEATHER
di Joyce Carol Thomas
(2003 Originale, per gentile concessione dell’autrice).
We’re traveling from
Tracy, California, back to 1950s Ponca City
A town, etched in young memory
A segregated oasis
Where black teachers lesson us in the freedom
of piano music
Mixing manners, and reading and
arithmetic, and sacred sonnets
Oh, my Oklahoma
In our Studebaker we sweat through the heat
Of the Mojave Desert and lurch on into
Texas
Mama is ill.
Her soft biscuit-brown arms have turned
bony and pale
Dr. Sonnenberg has told her she can make
the trip
As long as she takes her medication, with
water
I am in charge of the doctor’s instructions
«Sister, hand me my purse.»
I am the older daughter and have the
designated title of “Sister”
I watch to see Mama takes her tablets on
time
She swallow the pill, rinses it down with
water
Hungry, we stop in Texas
«Y’all CAIN’T eat in here!» A gruff voice
takes our money
Turns us away from his restaurant.
«Y’all go eat over yonder!»
He points to an outdoor picnic
table,
Littered dirty with bird droppings, swarming
with flies.
I cannot eat the sandwich or watermelon
My stomach jumps rope
On the Texas-Oklahoma border
We stop for gas
And water for Mama’s medicine
«Sister, hand me my purse.»
I pass the purse to Mama
She opens the bag and takes out her pill
She asks the attendant
«May I have a cup of water?»
«No,» the man says, still counting our
money.
Mama’s face turns ashen
I look the car window for a Sunday-
school Jesus
Driving the money changers from the
Temple
I pray for an everflowing stream
Or a cloudburst from summer
storm
Flooding a cu’s worth of water
Enough for Mama to swallow her pill
I am “Sister”
But I cannot help her.
My mind screams at the attendant’s
Face clouded by ignorance
His mannerless, mean-spirited
arrogance
I want to smack the smirk from his lips
«Pray, Sister.» Mama can read my angriest
thoughts
I pray
A storm kicks up
Lighting flashes
A torrent of holy water
Baptizes our dusty car
Windshield wipers sing with laughter
«Sister, hand me my purse.»
I leap from the car
And collect healing water
In the cup of watertight fingers
Mama sips raindrops
From my praying hands
At the station
The attendant gazes in disbelief
Struck dumber by this gift from God
As though he never knew the kindness of
teachers and librarians
Or hugs from a mama with fluffy biscuit-
brown arms
I still pray
For stormy weather.
3-
Greg infila il suo faccione oltre lo stipite della porta. Si scusa ma, visibilmente eccitato, mi dice che Joyce mi manda un regalo. È un libro. Linda Brown you are not alone, che Joyce ha curato per celebrare il cinquantesimo anniversario dal processo che ha di fatto avviato l’abbattimento della segregazione razziale. «Ho visto che ti interessava l’argomento», dice cercando di riempire il vuoto della mia incredulità. No, della mia riconoscenza. Oppure non so, qualcos’altro che non riesco a definire ma che si concretizza con un istintivo silenzio. «È un libro per ragazzi, è importante che sappiano» fa lui. Dico a Greg che sono grato per il regalo, mi piacerebbe ringraziare Joyce, di persona.
«Adesso riposa, ma più tardi vediamo».
Ok, aspetterò, rispondo. Poi, invece di uscire mi chiudo in camera e apro il libro.
Mentre lo sfoglio sono ancora stupefatto e commosso. Ripenso alla casualità di questa concatenazione di eventi, la prima stanza che non andava bene, poi ritrovarmi qui avvolto dalla gentilezza di Greg, ed essere così vicino a ciò su cui sto lavorando da tempo. So che il regalo è un’idea di Greg, ma non posso non pensare alla forza e all’attenzione di Joyce Carol Thomas nel voler far rimanere a galla la storia della piccola Linda, rendere il passato vivo e, non da ultimo, come recita il titolo, ribadire che «Linda Brown non sei sola»: testimoniare che, su quel cammino, si arriva in fondo alla via solo se si è in tante.
Il libro è scandito dalle illustrazioni di Curtis James, che riconosco come l’autore del quadro che Greg mi ha mostrato fuori dalla cucina. Ci sono poi brani in versi, filastrocche, racconti lunghi e cronache personali. Tra i vari contributi trovo un racconto in versi di Joyce, simile, nell’ambientazione, ad altre cose che ho letto di lei ma, nella forma, ancora più esplicitamente destinato a lettori e lettrici molto giovani. Nel racconto ci sono le donne di una famiglia che viaggiano dalla California al Texas e dal Texas all’Oklahoma. La madre non sta bene e la maggiore tra le sue figlie (che come tale ha acquisito il titolo di Sister) deve ricordarle in continuazione di prendere le pasticche. Si fermano per mangiare un panino, ma nella caffetteria non sono ben accette. Il commesso indica loro un tavolino all’aperto, appena visibile sotto uno strato di cacca di uccelli e sorvolato da sciami di mosche. Vanno oltre, ci riprovano quando si fermano per fare benzina, ma ugualmente, ancora una volta, non è possibile mangiare nella caffetteria. Non per un gruppetto di donne e bambine nere come loro. Eppure, pensa la Sorella, i soldi per la benzina quelli là li hanno voluti lo stesso. Quando la ragazzina chiede almeno un bicchiere d’acqua, che le viene rifiutato, allora le cresce dentro una rabbia incontenibile. L’acqua serviva proprio per le medicine della mamma. “Io sono la Sorella maggiore ma non posso prendermi cura di mia madre perché non ci danno neanche un bicchiere d’acqua” rimugina la ragazzina, dimostrando un’inquietudine di cui la madre si accorge. Prega, figlia mia, le consiglia la donna. Prega! E la bambina prega con tutte le sue forze che venga giù un acquazzone, pur essendo in piena estate. Un nubifragio, così come suggerisce il titolo del componimento: Stormy weather. E qualcuno, chissà chi, la ascolta. L’acqua viene giù, la madre la usa per riempirsi il bicchiere; ora potrà prendere le sue pillole, davanti all’incredulità attonita del negoziante che gliela aveva negata.
Una storia di donne, di superstizione, ma soprattutto di quella sofferenza patita dalle donne nere, doppiamente discriminate e offese.
Con il caso di Linda Brown, senza dubbio si stabiliva un precedente, ma la reazione non si sarebbe fatta attendere. I White Citizens’ Councils, Circoli per l’istruzione dei cittadini bianchi, sarebbero nati per istituire nuovamente scuole segregate. La Sentenza Brown infatti non poteva impedirne per legge la creazione, ecco perché la lotta sarebbe dovuta proseguire. Da lì, da quei Circoli, proveniva anche l’assassino di Medgar Evers, l’attivista dell’Naacp che tanto si era battuto in favore dell’integrazione scolastica. Quel Medgar Evers di cui lo scrittore James Baldwin avrebbe raccontato la vita assieme a quelle di Malcolm X e Marin Luther King jr. nel manoscritto incompiuto Remember this House, ripreso e completato dal regista Raoul Peck nel documentario I’m not your negro. Baldwin dichiara di aver capito che il suo esilio francese era terminato nel momento in cui aveva visto una foto proveniente dai suoi Stati Uniti. Quello scatto ritraeva un’adolescente che camminava tra la folla inferocita di suoi coetanei bianchi, solcando la massa dei loro corpi con la fermezza della dignità, per poter arrivare all’ingresso della Harry Harding High School di Charlotte, in North Carolina. Quella ragazza si chiamava Dorothy Counts, nata nel 1942 proprio come Linda Brown e come lei stava esercitando il suo diritto di recarsi alla scuola più vicina a casa sua. La Sentenza Brown glielo permetteva. La vita reale no. Era il primo giorno dell’anno scolastico 1957, il 4 settembre, ed era evidente che si sarebbe dovuto tornare a camminare, a marciare contro la polizia, e contro il mostro di un passato che pur iniziando a vacillare non sembrava intenzionato a cadere. E in questo cammino, nei passi interminabili di questa rivendicazione, sarebbero state tante giovani donne come lei a conquistare pezzi di strada fondamentali.
Continuo a sfogliare il libro, a osservare le illustrazioni che si intervallano ai racconti e rivedo nitidamente immagini che un tempo, in un preciso momento di questa strana cosa che è la nostra esperienza terrena, sono state la realtà. Il mio nervo ottico le rievoca e le ridisegna. Lo stesso 4 settembre 1957, davanti alla Little Rock Central High School, nell’omonima cittadina dell’Arkansas, nove adolescenti neri si sono organizzati – assieme alle famiglie e ad attivisti dell’Naacp – per tentare di entrare, uniti, vicini, complici, in quella scuola che non aveva ancora mai accolto uno studente che non fosse bianco. A seguito di minacce e con l’evidenza di rischi reali per i ragazzi, i piani cambiano, il luogo dell’appuntamento e le modalità per tentare l’accesso anche. Tutti sono avvisati, tranne la quindicenne Elizabeth Eckford, che si trova così da sola a salire sull’autobus segregato, e a percorrere la strada che la vede, sola, tra una massa di giovani, adulti, poliziotti, che la spintonano, sputano sui suoi capelli e sui suoi vestiti. Per due volte la ragazza si ferma, si siede, piange. Ma poi riparte. Qualcuno la incoraggia. Lei allora continua a camminare, contro tutti. Passeranno alla storia come i Little Rock Nine, ma sarà una, lei, Elizabeth, a incarnare quella conquista. E ancora nello stesso 1957, le piccolissime Rita Buchanan e Linda McKinley che camminano tenendo la mano della signora McKinley, a Nashville in Tennessee, scortate dalla polizia, spintonate dalla folla. Così come Ruby Bridges, tre anni dopo, una bambina di soli sei anni, affrontata da adulti con il veleno che gocciolava dai denti, scagliati contro di lei a mani nude e con bastoni, pronti a ritirare i loro figli da quella scuola in cui una negretta pretendeva di entrare per imparare qualcosa. La resistenza di Ruby sarebbe risultata esemplare, così come le conseguenze per i suoi familiari, in una New Orleans che non voleva l’integrazione.
Tra i vari racconti del libro trovo Color Blind (Daltonica), la memoria personale di Ishmael Reed adolescente ai tempi del processo Brown. Reed ha riposizionato i punti cardinali della tradizione letteraria americana, andando a scavare nella terra e nella magia, lasciando vibrare i suoni originali delle radici africane, riesumando una grammatica alternativa a quella della letteratura americana bianca del Novecento. Non mi stupisce, nelle sue pagine, trovare un punto di vista insolito. Non solo l’importanza della rottura della segregazione scolastica, ma anche gli effetti negativi che il successivo mancato accesso a tutti i livelli di integrazione e occupazione per gli afroamericani ha prodotto: la frantumazione della comunità; l’umiliazione dei giovani studenti neri davanti a insegnanti bianchi che non li consideravano all’altezza, o davanti a libri di testo in cui la loro storia non era raccontata. Non posso non pensare al temperamento di John Carlos, alla sua rivolta continua contro il sistema scolastico negli anni Cinquanta, nei primi Sessanta. «Non ci sono mai eroi neri in questi libri» aveva obiettato una mattina in classe, facendosi cacciare fuori.
Prima di sera, dico a Greg che sarebbe bello utilizzare alcuni dei materiali del libro che lui e Joyce mi hanno regalato, proporli ai lettori italiani. Parliamo, in particolare, del componimento di Joyce e del pezzo di Reed. «Ishmael è un caro amico, è stato qui solo un mese fa, vedrai, non ci sarà problema». Thanks, man. Faccio in tempo a dire io. Lui prosegue, annunciandomi, inaspettatamente:
«Mamma è di sopra, si sente bene. Dice che se la vuoi salutare puoi andare su».
«Adesso?»
«Sì, adesso».
Dorothy Counts, Charlotte. 1957. Ruby Bridges, New Orleans. 1960.
Elizabeth Eckford, Arkansas. 1957. Rita Buchanan, Linda McKinley, Nashville. 1957
COLOR BLIND
di Ishmael Reed
Daltonica (2003 trad. Lorenzo Iervolino).
Lessi della sentenza della Corte Suprema, che metteva fuorilegge la segregazione scolastica, sulla strada di ritorno dalla Buffalo Technical High School, dove il corpo studenti era integrato.
Non ero un buon ragazzo immagine per l’integrazione. Avendo scelto la scuola sbagliata, andavo male in diverse materie. Non ero assolutamente portato per materie come Commercio e Metallurgia, che rappresentavano il cuore dell’insegnamento nella scuola professionale. I miei voti però migliorarono notevolmente quando mi iscrissi a un’Academic High School. Lì incontrai il mio amico greco-americano Richard Mardirosian.
Prima di salire a bordo dell’autobus di Michigan Avenue che ci avrebbe riportato a casa, io e Richard ci fermavamo spesso a un chiosco di gelati a parlare di politica e fatti di cronaca con il proprietario ebreo. Ci mettevamo a fare un po’ i buffoni, lì davanti, per divertirci (Richard aveva un grande talento per queste cose, infatti finì per recitare a Hollywood).
Non potevo sapere che la Sentenza Brown, grazie alla quale era iniziato lo smantellamento della segregazione nelle scuole e in altre sfere della vita quotidiana, avrebbe messo fine anche alla scena nera che imperversava su Michigan Avenue, lo stesso luogo in cui io e Richard avevamo letto la notizia tra i titoli dei quotidiani.
La sentenza avrebbe avuto infatti un effetto immediato sugli affari dei neri e su altre attività presenti lì nella zona attorno al chioso di gelati. Per esempio il Vendome, un albergo il cui proprietario era nero, dove potevano dormire i giocatori delle segregate Negro Leagues di baseball, chiuse. Nei paraggi c’erano diversi locali, come il Club Moonglow, in cui suonavano i migliori musicisti. Sul muro esterno del Moonglow c’era un dipinto murale pazzesco che raffigurava gente in zoot suite e un mucchio di coriste. Qualche isolato più avanti c’era il Little Harlem Nightclub, anche qui il proprietario era nero, che sopravvisse a stento, finché non venne distrutto da un incendio.
Sono nato nel Sud, ma venni portato a Buffalo, nello stato di New York, quando avevo quattro anni. Al Sud non c’era niente da fare per noi ragazzini neri. Non venivamo portati ai musei o nelle biblioteche. Gli adulti si limitavano a intrattenersi raccontando storie o pettegolezzi di quartiere. O andando in chiesa, ai funerali, bevendo moonshine, e giocando a carte. Le rare volte in cui andavamo al cinema ci mettevamo il vestito delle grandi occasioni.
Quando vivevo nelle case popolari di Buffalo, vendevo l’Afro-American. Era un giornale di Baltimora di proprietà di un nero, pieno di storie di linciaggi e altre atrocità inflitte alla gente di colore. L’idea che mi ero fatto del Sud era che doveva essere un posto piuttosto brutto.
Ai tempi di Buffalo sapevo veramente poco della storia afroamericana. Non sapevo nulla delle battaglie che i neri avevano sostenuto contro la supremazia dei bianchi fin da quando erano comparsi i primi schiavisti. Non avrei saputo riconoscere i volti di Ida B. Wells, William Wells Brown, Benjamin Mays o W.E.B. DuBois.
Non avevo sentito parlare neanche del processo Plessy contro la municipalità di Ferguson del 1896.
Plessy contro Ferguson è un documento surreale che fa riferimento alla razza bianca come dominante, e che dà maggior peso alla presenza di sangue nero nelle vene di qualcuno, rispetto alla presenza di sangue bianco. Il 7 giugno del 1892, Homer Plessy, il querelante, acquistò un biglietto di prima classe per la East Louisiana Railway. Homer Plessy era nero per un ottavo e bianco per sette ottavi, ma per la legge dello stato della Louisiana, era considerato nero. Plessy, comunque, dato che aveva una carnagione così chiara, si era sentito «autorizzato a ricevere ogni riconoscimento, diritto, privilegio e immunità assicurati ai cittadini degli Stati Uniti della razza bianca da parte della Costituzione e delle leggi…» La compagnia ferroviaria «era incorporata dalle leggi della Louisiana come una società di trasporto comune e non era autorizzata a distinguere tra cittadini in base alla loro razza». Ma in contrasto con la politica aziendale, la polizia espulse con la forza Plessy dal vagone per bianchi.
Fu incarcerato, accusato di «[violare] in maniera criminale un atto dell’assemblea generale dello stato, approvata il 10 luglio 1890». L’assemblea aveva deciso per la segregazione dei vagoni ferroviari. La maggioranza della Corte della Louisiana e della Corte suprema degli Stati Uniti votò contro Plessy, il querelante. Così la Sentenza Plessy rappresentò il precedente secondo il quale i trasporti separati per neri e bianchi erano costituzionali e persino eguali. Da qui la dottrina del separate but equal, si estese rapidamente a coprire moltissime aree della vita pubblica, e non sarebbe stata abbattuta fino al 1954 nell’altrettanto importante sentenza del processo Brown contro il dipartimento dell’Istruzione di Topeka, che ribaltava esplicitamente la sentenza Plessy.
Un esempio di come la segregazione scolastica venne usata per giustificare quella nei trasporti fu un precedente citato dalla maggioranza della Corte nel processo Plessy contro Ferguson. Il caso citato era Roberts contro la municipalità di Boston, «in cui il giudice della Corte suprema del Massachussetts sosteneva che il comitato scolastico di Boston aveva il potere e la capacità di provvedere all’istruzione di bambini di colore in scuole separate e dedicate esclusivamente a loro, proibendo al contempo la frequentazione di altri tipi di scuole».
Homer Plessy e l’unico giudice dissenziente nel suo processo, John Marshall Harlan, non sarebbero stati vendicati finché le leggi sui diritti civili non fossero state approvate negli anni Sessanta, dopo che manifestanti neri e bianchi si opposero in massa alle leggi razziali, chiamate Leggi Jim Crow.
Nella sua dichiarazione dissenziente, il giudice Harlan aveva puntualizzato che gli afroamericani avevano rischiato le loro vite «per preservare l’integrità dell’Unione». Definì la decisione della maggioranza della corte come «funesta».
Plessy contro Ferguson, nello stabilire la dottrina del separato ma eguale, riguardava in particolare anche il tema degli alloggi. Sia Frederick Douglass che Ida B. Wells protestarono molto contro gli alloggi separati e inferiori destinati agli afroamericani. Erano tutto fuorché eguali. Mia madre, Thelma V. Reed, nel suo libro Black Girl from Tannery Flats, scrive dei vagoni segregati in cui i neri erano costretti a viaggiare.
Durante l’era Jim Crow, i neri dovevano sempre sedersi sul retro degli autobus, sul retro dei tram, dei treni, sul retro! sul retro! sul retro! Ma nei treni a vapore, i neri si dovevano sedere nelle carrozze davanti perché la locomotiva era agganciata nella parte anteriore del treno. Una volta scesi, i passeggeri neri sarebbero stati pieni di polvere e fuliggine e cenere e ferraglia sparsi sui vestiti e fra i capelli.
Per i primi sei anni della mia istruzione, ho frequentato una scuola con tutti studenti neri, nel ghetto. Era considerata integrata, perché gli insegnanti erano bianchi. Gli insegnanti mi consideravano un problema, dal punto di vista disciplinare. Mi accusavano di fare il “figo” e lo “splendido”. Comunque, un’insegnante nera di nome Hortense Butts, oggi Nash, mi regalava biglietti per andare ai concerti e mi incoraggiava molto. Lei fu l’unica insegnante nera che ebbi nei miei dodici anni di istruzione. Ma ce n’erano altri, esterni alle scuole, di insegnanti.
Questi esterni erano i nostri tutor nelle associazioni giovanili della nerissima YMCA, l’Associazione cristiana giovanile per ragazzi di Michigan Avenue. Dopo che la nazione si mosse verso l’integrazione, venne deciso che non c’era più alcun bisogno di una YMCA solo per neri.
L’integrazione spinse questi insegnanti nelle aree più esterne della città, molto lontano rispetto ai nostri quartieri. Uno dei risultati dell’integrazione è l’attuale generazione dell’hip-hop [siamo nel 2003, N.d.T.]. Phyllis Chesler chiama questi giovani “feriti-dai-padri”. Questi ragazzi accusano la mia generazione di averli abbandonati. Sebbene ci siano molti intellettuali e professionisti rimasti nelle retrovie a dare servizi per le necessità dei quartieri poveri, molte figure modello sono svanite. Il Dr. Lawson Bush autore di Can Black Mothers Raise Our Sons?, il 28 giugno del 2002 a Berkeley ha detto a un gruppo di impiegati dell’assistenza sanitaria, che avendo distrutto «la comunità nera, la desegregazione è una delle peggiori cose che potevano accadere ai neri». Molti potrebbero essere d’accordo.
Data l’esperienza della generazione di mia madre, la segregazione aveva anche un lato terribile. Era psicologicamente oppressiva e spesso portava ad azioni brutali contro gli afroamericani. Durante la segregazione gli afroamericani erano alla mercé della “razza dominante”, i cui componenti potevano fare ai neri tutto ciò che gli passava per la mente, con il consenso ammiccato di quel sistema giudiziario che aveva fatto sì che Homer Plessy potesse perdere il processo.
Nuovamente, il Dr. Lawson Bush ha la sua visione delle cose. La generazione dell’hip-hop non conoscerà mai famose zone nere come la Dodicesima strada e Vine a Kansas City, oggi letteralmente ammutolite. Le zone del ghetto che sono rimaste, molto raramente dispongono di bei parchi, biblioteche ben fornite e strutture per la sanità facilmente accessibili. Molto di ciò che rimane di quelle che una volta erano state solide black cities uno se lo può immaginare solo attraverso i film o le registrazioni che si trovano nei musei. Né i ragazzi di oggi conoscono le varie “città nere” che un tempo formarono una sorta di nazione nella nazione. Molte sono state rase al suolo in nome del “rinnovamento urbano”, che era, in altre parole, una rimozione dei neri, a black removal.
L’integrazione inoltre ha portato all’ammissione dei neri in college e università storicamente per soli bianchi, con un effetto opposto rispetto alle università e college tradizionalmente neri, che avevano addestrato migliaia di professionisti di colore, artisti e leader. Mentre molti studenti neri hanno avuto insegnanti neri durante la segregazione, venivano adesso esposti agli insegnanti bianchi che erano privi di qualsiasi strumento per relazionarsi con studenti che avevano background razziali completamente differenti. Questo problema ancora esiste. Solo il sedici percento degli insegnanti della scuola pubblica negli Stati Uniti appartengono alle minoranze razziali. A livello di insegnamento universitario la percentuale è molto inferiore.
Nel 1992 il giudice della Corte suprema Clarence Thomas scrisse un giudizio difforme rispetto al processo Stati Uniti contro Fordice [sentenza del 1992 contro le università del Mississippi, accusate di non essere ancora sufficientemente integrate, N.d.T.], per esprimere il suo punto di vista secondo il quale il mantenimento delle istituzioni storicamente nere non avrebbe dovuto essere giudicato illegale. «Non ha mai smesso di impressionarmi» ha detto, «che le corti siano così desiderose di dare per scontato che tutto ciò che sia prevalentemente nero sia anche inferiore».
Sebbene migliaia di studenti neri siano stati spediti a studiare nelle scuole bianche, hanno perso il genere di supporto, comprensione e sostegno che poteva essere dato loro da parte di insegnanti neri. Molto di ciò è avvenuto come uno dei risultati della Sentenza Brown. E siccome genitori e ragazzi neri sostenevano entrambi di volere un’istruzione e delle credenziali scolastiche in grado di fargli ottenere un buon lavoro con una buona paga, persino i ragazzini neri più giovani si sono dovuti accorgere rapidamente di aver bisogno di sviluppare una vera e propria strategia di sopravvivenza nelle scuole. Stereotipi negativi a proposito dell’intelligenza dei neri, talvolta perpetrati dagli insegnati nelle scuole integrate, avvilivano i ragazzi con continui test di abilità, dal quoziente intellettivo agli esami di ammissione alle facoltà.
La Corte suprema ha deciso in favore del reverendo Oliver Brown e di sua figlia, Linda. Il 17 maggio 1954, il giudice capo Earl Warren lesse la decisione unanime della corte: «Può la segregazione degli alunni nella scuola pubblica, accordata per esclusiva base razziale, deprivare i bambini dei gruppi minoritari di eguali opportunità di istruzione? Noi crediamo di sì… Concludiamo quindi che nel campo dell’istruzione la dottrina del “separato ma eguale” non debba avere nessuno spazio».
La campagna per l’integrazione è stata la mossa giusta? Sì e no.
Sì, perché ha dato della menzogna alla teoria della supremazia bianca. Quando ho iniziato a frequentare una scuola integrata, ho scoperto che i bianchi non erano dèi, ma carne e ossa come il resto di noi. C’era la stessa scala di valori nelle capacità dei bianchi e dei neri: da scarsi a mediocri a eccellenti.
L’integrazione ha significato inoltre meno umiliazioni per quelli della generazione di Martin Luther King jr. Finché se lo potevano permettere economicamente, agli afroamericani non potevano più essere negati quegli alloggi che erano off-limits ai vecchi tempi. Si dice che il presidente Lyndon Johnson si sia convertito alla lotta per i diritti civili dopo aver chiesto al suo autista nero di trasportare il suo cane beagle in Texas. L’autista disse che lui aveva già abbastanza problemi a trasportare se stesso in Texas senza bisogno di prendere a bordo dei cani. L’uomo raccontò poi al presidente delle difficoltà che devono affrontare i neri quando cercano di viaggiare tra uno stato e l’altro in automobile.
Subito dopo la Sentenza Brown e l’uccisione del presidente Kennedy arrivarono il Civil Rights Act del 1964 e il Voting Right Act del 1965, che portò alle urne nel Sud migliaia di dipendenti pubblici afroamericani.
Sebbene l’integrazione sia stata una mezza vittoria, i benefici, credo, sono superiori agli svantaggi. Tutto il processo ha messo alla prova la nazione nell’essere all’altezza dei propri ideali, e ha dimostrato che la resistenza al cambiamento può essere dura e a volte intransigente. Alcuni studi dimostrano che la nazione sta affrontando una ri-segregazione (come se la completa integrazione sia mai stata compiuta!).
L’integrazione è stata una sfida per tutti i gruppi. Ma più di tutti ha messo alla prova i bianchi, molti dei quali trovano ancora impossibile rinunciare ai propri privilegi dovuti alla pelle bianca, la loro ereditaria discriminazione costruttiva.
Ciò che Justice Harlan ha sostenuto nel corso del Processo Plessy può essere applicato anche alla Sentenza Brown: «Considerata la Costituzione e agli occhi della legge, in questo Paese non c’è nessuna classe di cittadini che sia superiore, dominante o dirigente. Non esistono caste qui. La nostra Costituzione è daltonica e non conosce né tollera categorie tra i cittadini. In rispetto dei diritti civili, tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. Il più umile è un pari del più potente. La legge considera l’uomo come uomo, e non tiene conto del suo ambiente o del suo colore quando sono coinvolti i suoi diritti civili, garantiti dalla nostra legge suprema».
4-
Entro nella stanza da letto in punta dei piedi, dopo aver salito le scale scricchiolanti con il respiro mozzato. Le ho salite lentamente. Ad ogni passo ho immaginato un volto, una storia, nel tempo dilatato che fuggiva dal mio controllo. Linda Brown che non smette di lottare durante gli anni Settanta, gli anni Ottanta. Tommie Smith e John Carlos che non rinnegheranno mai il gesto sul podio di Città del Messico, lo stesso che li ha immortalati in un poster eterno e tolto la pace nella vita reale. La scala mi sembrava infinita, sentivo l’ovatta nelle orecchie, il cuore al posto della lingua. E avevo davanti e accanto Dorothy Counts, Elizabeth Eckford, Rita Buchanan e Linda McKinley, Ruby Bridges e tutte le altre. Il poliziotto protagonista del racconto Uomo bianco di James Baldwin, che da bambino, innalzato sopra le spalle del padre, osserva eccitato gli adulti dilaniare con le mani e con i coltelli un uomo nero legato a un palo, nudo. E vedevo le cicatrici di tutte le donne dei romanzi di Toni Morrison, i solchi profondi sulla pelle della schiena che disegnano una terrificante sagoma di albero. Lo stesso da cui pendevano gli strange fruits cantati da Billie Holiday, corpi appesi ai rami, corpi esposti: corpi neri maciullati senza il timore di nessuna sanzione. Pensavo all’orrore e alla rabbia del giovanissimo Muhammad Ali, all’epoca ancora Cassius Clay, che decide di diventare pugile e di spaccare il mondo dopo aver appreso dalla radio che un suo coetaneo di Chicago, Emmett Till, viene ucciso a calci e bastonate dagli uomini di Money, in Mississippi, il paese in cui viveva sua nonna e in cui Emmett stava trascorrendo alcuni giorni spensierati; accusato di aver guardato negli occhi la moglie di uno di loro, non c’era stata altra modalità di riparazione che l’omicidio selvaggio. Anche questa terribile immagine l’avevo assorbita da un romanzo, Il ring invisibile di Alban Lefranc. E oltre la letteratura, assieme alla letteratura, tutta la verità dei linciaggi, delle impiccagioni, di quella che molto spesso era l’invidia profonda dell’uomo bianco per altri uomini sessualmente più dotati, e per altre donne che subivano il ricatto e l’oltraggio del potere, non certo il suo fascino. Uno scalino uno sguardo. Una disperazione. Un passo che divora il tempo e gli dà nuova forma. Inspiro con il naso e l’ultimo lampo mi arriva da un racconto della stessa Joyce ambientato nel suo Oklahoma d’infanzia, in un paesino sperduto in cui le donne e le bambine lavorano tutto il giorno, tutti i giorni, e come diversivo attendono la domenica per pregare e andare in chiesa, per cantare e stare insieme; e la domenica del racconto gli porta un predicatore, un uomo emerso dalla terra e dal passato, che cercherà in tutti i modi di violentarle. Butto fuori l’aria. Mi sono calmato un attimo. Poi entro nella stanza, in punta dei piedi.
Dentro ci sono tantissimi oggetti e contenitori. Ad una prima occhiata è perfino difficile distinguerne la fisionomia, nella distesa di scatole di cartone, mucchi di vestiti e fascicoli impilati. Dopo qualche piccolissimo passo vedo che su ogni cassetto c’è un bigliettino, su ogni scatoletta disseminata nello spazio vitale di Joyce c’è un foglietto giallo con sopra scritte alcune parole: “Qui il telecomando”, “Medicine”, “Non toccare”, “Pigiama”, “Scarpe”. Ogni parola è un pezzo del filo con cui Greg cerca di riannodare la memoria di sua madre. Mi avvicino al letto. So che lei sa chi sono. Sa che ci siamo già visti. Che le ho tenuto la mano quando Greg è dovuto andare ad accogliere una coppia di norvegesi. E quella volta, tornata dalla passeggiata riabilitativa, la sua mano era solo ossa, coperte da una sottilissima pellicola di pelle gelida. Un pezzo di sé che fluttuava in un ambiente dai contorni sfumati, nel tempo che confonde passato e presente, riposto nella calma momentanea dei palmi di un estraneo. Un estraneo che sorride e non chiede nulla.
Ma non potevo sbagliarmi, ora, davanti a quella creatura che ha lasciato dietro di sé tante semine e tanti raccolti, quella era la mano di chi, in qualunque modo, voleva ancora vivere.
«Sto partendo, signora. Vado via, torno a San Jose».
«Stai partendo, sì» dice Joyce con una pace quasi folle.
«Volevo ringraziarla per il regalo, per il libro. E…».
«Il libro… sì».
Mi guardo attorno. Tutto quel che vedo è semplicemente la vita. La vita nel suo commovente mutamento in assenza. Ma ancora la vita.
«E volevo ringraziarla per tutto quanto, davvero».
Le dico grazie e ci abbracciamo. Per un po’ rimaniamo fermi, e io non penso a niente.
Non penso più a niente.
* * * * *
Forse non tutto è cambiato. Anzi, molta strada deve essere ancora percorsa.
Ma se ripenso a quella scuola così grande, pulita. Alla gioia che mi pervase quando papà mi disse «domani andrai in classe con Wanda, Mona e Guienevere», io penso che qualcosa lo abbiamo fatto. Qualcosa l’abbiamo cambiata.
Ci sono voluti altri due processi Brown. Altre vite sacrificate lungo la strada.
Ma di una cosa posso essere certa e, sì, essere orgogliosa. Che nessuna di noi, da allora in poi, e da oggi in poi, ha più camminato sola. E per gli anni che mi rimarranno non mi tirerò mai indietro. Oggi ne ho settantacinque, e fino alla fine sarò qui, su questa strada, a testa alta.
Forse è poco, ma potete giurarci. Quanto è vero che il mio nome è, e sarà sempre, Linda Brown.
La famiglia Brown nel 1954
Lorenzo Iervolino
Joyce Carol Thomas - scrittrice e poetessa, ha ricevuto il National Book Award per Marked by Fire, e una menzione d’onore al Coretta Scott King Award per Brown Honey in Broomwheat Tea. È autrice di numerosi libri per ragazzi noti e premiati negli Stati Uniti.
Ishmael Reed - scrittore, poeta, musicista, drammaturgo e produttore televisivo. Ha insegnato a Harvard, Yale e Darmouth, due volte nominato per i National Book Awards e una per il Pulitzer. Tra i più importanti e originali autori afroamericani di sempre. Nel 2016 ha ricevuto a Venezia l’Alberto Dubito International per l’innovazione linguistica nelle sue opere.Troppo poco tradotto in italiano, Minimum Fax ha recentemente ripubblicato il suo capolavoro Mumbo Jumbo (1972) e Agenzia X gli ha dedicato una monografia, Il Grande incantatore (2016) a cura di Giorgio Rimondi.
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