Non sono morto è una noia dell’amore.
Non era questo ciò che volevo dire. Stelle. Stelle. Maledette Stelle. Stelle migranti. Stelle gelide. Stelle insensate. Stelle maledette.
Forse così sono stato… sono l’unico – e sarò l’ultimo – a non conoscere la mia ultima parola, in questo ospizio di pazzi che verrà abbandonato nottetempo. Perché il disincanto non mi appartiene più, semmai l’insana voglia di essere sempre stregato dalla affezione verso incantesimi sublimi. Come le notti infinite quando corriamo sulla Litoranea, come dei giri nomadi sulla Cristoforo Colombo, il Grande Raccordo Anulare, un sogno fugace di un decennio impazzito segnato dagli esami, i bocchini ai professori, gli intellettuali soloni, dalla ricerca di un qualcosa che parte dalla Stazione Termini e arriva, molto probabilmente, a Cinecittà 2. Solo che per noi è ancora troppo presto per sapere se tutto questo è giusto o è sbagliato. La maggior parte delle cose e degli eventi conoscibili non le conosciamo. Solo questo sappiamo.So che ogni mia azione, sentimento, pensiero, muscolo o tendine è sotto il controllo del grande fratello, e quanto è che non ti chiamavo fratello? La tua pelle, i tuoi occhi, i miei occhi, la mia pelle. La mia pelle si stinge, guarda in basso, il foglio viene via per sempre, ma poi mi dico che per sempre è uno sproposito e mi ricordo di quando quella bambina mi diceva che la morte, tutto sommato, non sarebbe troppo male se non fosse per sempre. Così ho cambiato idea, perché non facciamo un bagno nudi all’Idroscalo?
Tette. Dolci. Acque. Le acque.
Non so se l’ho mai detto, se ho mai avuto il coraggio di dirlo: le acque gelide, le acque distanti e profonde e rovinose. Le maledette acque, le acque maledette senza fine. Allora ricordo cosa volevo dire. Cerco di dirlo con i versi di una poesia che amavo: Amore è piccolo, sembra un cane maltese.
Ricordo tutto. Tutto.
Scendo nel budello illuminato, fetore di fritto e grida di amori animali. Animali gelidi e distanti. Animali. Tutto che si muove profondamente negli animali. Un leone, un alce, un licantropo e un uomo dal pene taurino. Tutti e quattro si approcciano al campo riarso dal sole implacabile del pomeriggio. Tutti e quattro si allontanano senza proferire parola. Amara, come una cazzo di pillola che non sai chi ti ha infilato in gola, ma qualcosa ti dice che anche quella è necessaria.
Quante ne hai sopportate? Non hai forse imparato a fingere? Di più, sei un mostro. L’arte dell’inganno, la bellezza della dissimulazione è affare tuo: un sorriso capace di squarciare la notte, un bicchiere che ti copre il naso e non c’è più nulla che ti possa ferire. Bisogna esserne consapevoli, ricordarselo, ripeterselo, magari davanti a uno specchio.
Lo vedete, vero, il bivio?
Finito di tossire, inizio a fumare per davvero senza più timore di avere nebbia negli occhi. Che poi occhi, acque, stelle è la stessa cosa, la stessa tristezza. Merda. Da listino venduta a 132.111,05 mila euro al chilo. Ma adesso è tutto diverso. Il me di allora è fuso, è ruggine, pulviscolo negli alveoli polmonari. Adesso è tutto diverso e quando dico adesso intendo adesso che ci sei tu. Ma non è certo questo il punto cruciale, né fondamentale, nella dispersione vacua che ci inghiotte, nel divenire liquido che compie il percorso degli astri. Le fasi lunari non sono i tuoi studi di teoretica, quel saggio che progetti sui monumenti nella ex Jugoslavia voluti da Tito, ogni cosa rappresenta appena una distrazione, una ricerca di fuga, un inseguimento, ma io e te lo sappiamo che è tutto inutile, perché in fondo abbiamo coscienza che l’unica cosa che esiste è il niente. Il niente: quando mi assale è finita. Ogni senso è perso o confuso. Del resto, difficile non esserlo: era come scoprire un grande potere dietro una sofferenza, aprire la camicia sul petto e attendere pallottole che ti avrebbero schivato o non ti avrebbero scalfito. La consapevolezza è una grande cosa anche quando nasconde un inganno colossale.
Hanno lasciato questa officina nelle grinfie della finanza di rapina, vado a prendere l’ultimo treno e vi saluto per sempre, adesso. Adesso, solamente adesso mi rendo conto di quale distanza ci sia tra chi costruisce il ponte e chi ha creato l’abisso su cui il ponte si affaccia
Pronto? Sono io. Is it me you are looking for? Non so che dirti. Facciamo così: non dire niente e sarò felice uguale. Va bene? Non va bene perché le serrature si bloccano se vengono sollecitate asincronicamente.
Morto è il tempo. Proprio brutto, non ci sta niente da fare/dire/baciare e quindi niente. No. Non esiste un unico afferrabile concetto di soluzioni, come peraltro non può che risultare etereo e non identificabile anche il problema. Non esiste che poi dopo scrivo a Bim Bum Bam e ci sta Uan di Bim Bum Bam per la prima volta in Corigliano. Ma in fondo un posto sarebbe valso un altro, l’importante era ricominciare; anche se questa volta sarebbe stato diverso: un inizio importante, una voce diversa e molti meno rimpianti. I rimpianti non esistono, mi dico. Ma non mi credo, sono così abituato a sbagliare che spesso confondo le parole. A volte le azzecco, ma no, non mi credo
Non mi credo. L’immagine di me nello specchio dice che sono morto. Ma io non mi credo. Il verme che mangia la mia palpebra annienta la percezione che ho dell’io passato. Ma non ci credo. Sono morto.
Niente, non riesco a pensare a niente. Ho in mente solo quell’immagine. Un momento insostenibile ma inevitabile. Una illuminazione forse, un’epifania. Davanti a me il significato dell’intera esistenza, un elefante che assomiglia a qualcuno. Elefant man che si sdraia sul letto, dispiega le orecchie e come Dumbo vola in un altro mondo.
Lo dicevo che non sarei andato più lontano della mia scalogna, insomma, mai e poi mai mi sarei messo a scalare vette così alte, comunque, non là. Ci vogliono troppi sterminati campi per raggiungere quello che avresti dovuto. Io oggi, quando a quello che avevo (e penso d’aver bevuto troppo), oltre quello che avrei dovuto, avrei potuto riempire giornate a venire e, invece, un cazzo.
Non esiste più nulla.
Ma in fondo anche questo non esiste e ovunque non ha ridondanza; il nulla come qualcosa sa navigare. Il nulla come qualcosa sa cavalcare o vestire nei giorni di festa o di buio, un sorriso sa sfoderare con un abito da sartoria; un gioco insonne e, si sa, ognuno fa il suo mestiere. Sono convinto che il nodo della faccenda sia proprio questo.
Ma non ci sarà un nuovo inizio. Il passato è solo un insieme inutile di successioni neuronali, il presente è inesistente, totalmente vuoto di alcun valore, tutto quello che si può considerare riguarda il futuro, in cui però è da folli nutrire la benché minima speranza.
Spunta l’alba; la strada di casa è vuota di tutto fuorché dei sussurri che vengono dalle anime insonni. E sono anche tutti loro stracarichi di grugni, rutti, schiaffi e scozzi che vomitano sui loro rochi grotteschi passati rotti. Ma non li volgono ai futuri rognosi solo ai ponti fumosi fra i due occhi bituminosi della notte; povera troia di una glottide. Quando la mia si stringe, so di essere sopraffatto dalle emozioni, dal pensiero o semplicemente da chi mi sta davanti e ora ci sei tu: una fabbrica occupata all’inizio della fine della città. E quella che dall’auto chiamano vuoto urbano. Non luogo. E’ qui che vive un pezzo di sogno. Il sogno di riappropriazione proletaria di un pugno di città. Di chi sogna un nuovo inizio. Perché sta dentro di sé che la cosa più pericolosa è la resa.
Completamente finito mi sdraio sul pronome del passato, che sbagliato può essere tutto. In un cazzo di troiaio ma di surrealista non c’ho manco un granaio di cazzate. E nelle trebbiatrici della storia godo come un porco nel divorare il vostro sanguinolento silenzio modesto. Nel divorare il vostro sanguinolento silenzioso modesto lacerarvi le milze e le giocate per gli errori di stile e i rigurgiti letterari di voi che siete tutti nati ma dai fantasmi del banale ricordo e, solari, vi siete crudelmente dimenticati.
In queste notti provo a ricordare, anticipare pezzi di vite scomparse in multiversi temporalmente autonomi: i travestiti da Thomas Mann, da Transilvania, da transessuali, da tram in corsa, verso un trapassato prossimo che sta nascosto perché sa di non esistere, io tranquillamente trangugio il mio drink e dirimpetto li guardo, li fisso con aria di sfida. Non ci sto. Sono contro. Ribelle, imbellettato da bugie diverse almeno prendo le distanze in mano. Allontanati come non siamo stati fino al momento in cui eravamo vicini, non serve bagnarsi le labbra dei soavi ricordi che usi spargere sul bordo di quel vaso, è sempre lungo il sorso che non riesci a mandare giù, vedi quando rende tutto vano la maschera che indossa quella gente in cui non credi. Cerca di afferrare il momento, confessa il tuo misero bisogno e danza in una vera musica. La verità che nessuno ha scritto per te, apposta il vero intimo sorriso che ti hanno donato senza ricorrere a nulla di più.
La 500 su cui viaggiavo è rottame e senso della storia che nel mondo postumo delle galline prese a prestito si ribella alla finanza e al clero parassita. E comincia a molestarmi l’insetto immondo e fastidioso. Io cerco di essere conciliante, cerco di essere delicato non vorrei davvero ucciderlo, sulla mia pelle, poi meno che mai. Ma alla fine non resisto e lo spiaccico.
Finisce così. È la vita. E, nonostante lei, muoio.
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Il testo è il risultato dell'esorcismo letterario praticato da TerraNullius sabato 8 dicembre 2018 a Roma.
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