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Mai Morti #25 - Luciano Funetta

I Mai Morti sono i vivi di allora, quello che noi saremo per i vivi di poi. Mai Morti è una rubrica di TerraNullius. Mai Morti è un libro pubblicato da Dissensi Edizioni nel 2012, a cura di Marco Lupo e Luca Moretti. I coccodrilli di morti suicidi o morti di fame o morti di noia ritornano nella rete. Che il loro spirito possa strisciare nelle nostre carcasse biodinamiche.

I Mai Morti sono bastardi del tempo che hanno vissuto, figli di una letteratura minore. Sono famosi o non lo sono. Sono esistiti o non lo sono. Sono scrittori o imbianchini, sono stati punti neri sulla scacchiera bianca o sono stati al margine, non importa.

Oggi è la volta di Stella Mari, Thomas Lahm e Elsa Ligotti riesumati da Luciano Funetta.

 

 

Stella Mari (Bologna, 1973 - ?)

Mise piede nei giorni degli uomini all’alba e da questo deriva il suo nome, perché nell’immaginazione dei suoi genitori Stella Mari avrebbe dovuto vivere con la tenacia e la fantasia delle cose che superano la loro natura. Nonostante l’economia familiare non veleggiasse in acque sicure, le fu permesso di iscriversi all’università e Stella, che già aveva ben chiaro il presentimento del naufragio, scelse la facoltà di Filosofia. A causa di questa decisione suo padre smise di parlarle, ma quando quattro anni dopo, in anticipo su tutti i suoi coetanei, la vide in piedi davanti alla commissione, con la testa incoronata di foglie e lo sguardo di una donna che aveva saputo tenere a bada le domande insidiose di quel Minosse a otto teste senza chinare mai il capo, uscì dall’aula, scese in strada e nel primo bar che incontrò bevve una grappa che gli permise di ricacciare indietro le lacrime. Quello che nessuno sapeva era che tra i professori della commissione uno in particolare teneva alla sorti e all’intelligenza maestosa di Stella Mari, almeno quanto aveva a cuore la sua schiena bianca, i suoi capelli ricci e le sue labbra che sapevano baciare ed evocare l’oscurità di Heidegger con la medesima precisione. Bartolo Rigon aveva quarant’anni quando vide Stella per la prima volta tra le studentesse del corso di cui era titolare; quarantuno quando lei lo introdusse nella stanza in affitto che occupava in via delle Moline e gli mostrò come un uomo sulla via della morte potesse rinascere; quarantadue quando la laureò e per festeggiare la sposò in segreto e la portò in luna di miele a Parigi. Eppure fu necessario ancora un anno per permettergli di scoprire i quaderni che Stella teneva nascosti in cima a un armadio. Erano una ventina e pieni di annotazioni tracciate nella grafia febbrile e limpida della ragazza. Sulle copertine era scritto Stella Maris. Rigon li lesse in una notte, mentre lei era fuori casa. Non somigliavano ai quaderni di Valéry, piuttosto ricordavano quelli di Cioran, un Cioran giovane che viveva nell'unica casa rimasta intatta al centro di un quartiere bombardato. Per i successivi quattro mesi non le disse nulla riguardo al ritrovamento e ogni volta che Stella non tornava a casa per la notte, lui si rituffava nella lettura come se quella violazione potesse evocare il letto, l’amore e la clandestinità. Ben presto, tuttavia, la segretezza si trasformò in terrore e Rigon, a quarantacinque anni, chiuse per la prima volta Stella in camera a chiave per impedirle di uscire o forse per non permettere alla sua immaginazione di figurarsi il tradimento. Da dietro la porta sprangata Stella Mari lanciò le sue maledizioni che colpirono il marito come urla di un neonato sull’orlo dell’asfissia. La liberò, ma non fu per sempre. Il carceriere e la prigioniera (l’orso e la ghiandaia, il professore e la poetessa) tornarono a ripetere quella scena molte volte, fino alla sera in cui Stella raccolse i quaderni e lasciò la casa e la città, forse il mondo. In quanto a Rigon, una sua fotografia rimase per qualche settimana sulle pagine dei quotidiani, circondato da stormi di punti interrogativi, poi venne consegnato all’oblio noncurante della morgue.


Thomas Lahm (Obertillach, 1980 – ?)

Crebbe immerso in un inverno secolare, nella valle in cui il fiume Gail spesso si ghiaccia e si lascia attraversare a piedi. I suoi genitori, entrambi maestri elementari, per il suo sesto compleanno gli regalarono una scatola di acquerelli, con i quali Thomas iniziò a dipingere le montagne e la neve, i tetti aguzzi e le sagome brune degli animali che spiava nascosto tra gli alberi della foresta. A nove anni passò alla tempera e qualcosa all’interno dei suoi paesaggi si fece meno familiare, come se il panorama di Obertillach avesse iniziato a grondare, ai suoi occhi, un liquido scuro. Persino le dimensioni degli animali, in questa seconda fase, si fecero inverosimili. Per Natale regalò ai suoi genitori un dipinto su legno in cui i lupi camminavano ritti sulle zampe posteriori sul sagrato della chiesa di St. Ulrich. Quando iniziò a dipingere a olio, Thomas chiese a sua madre di poterle fare un ritratto. La donna dapprima provò una flebile angoscia, un terrore che pulsava come la luce di un faro infinitesimale in fondo al suo stomaco, poi diede a se stessa della stupida e acconsentì. Il ritratto (che riuscì benissimo) venne appeso accanto al camino. Tuttavia, ogni volta che Olga Lahm vi passava accanto, distoglieva lo sguardo dall’ombra che il figlio aveva regalato al suo viso sorridente. Forse era proprio quel sorriso a metterla in imbarazzo, perché in vita sua non ricordava di aver mai assunto quell’espressione. «Sembro una puttana», si disse, ma non confessò mai a nessuno quel cruccio. Nel frattempo Thomas, che si era ormai trasformato in un adolescente dal corpo adulto e dagli occhi umidi, aveva iniziato ad allontanarsi dal paese per interi pomeriggi. Faceva ritorno solo quando era ormai buio, con la borsa degli arnesi a tracolla e un nuovo dipinto sottobraccio. A vent’anni aveva accumulato quasi duecento opere, tra le quali c’era una veduta di Obertillach in gennaio. Il borgo era imbiancato, ma la neve di Thomas sembrava un denso pastone di ghiaccio e fuliggine. Anche il fiume gelato aveva un colore più simile al verde della pelle dei cadaveri. In lontananza, dietro una montagna, un incendio enorme e silenzioso non sembrava turbare la piccola donna che lo guardava, arrampicata sulla cima del campanile. Una sera il ragazzo annunciò ai genitori che sarebbe partito per Milano, perché il paese aveva esaurito tutte le possibilità di essere esplorato dalla sua pittura. Solo in quel momento Olga e Peter Lahm capirono che la vampa raffigurata in molti dei dipinti del figlio era qualcosa che aveva a che fare con il futuro. Lo videro partire a mezzogiorno, un mercoledì di aprile. Qualcosa nel suo aspetto – la giacca di fustagno verde, la borsa di cuoio con l’attrezzatura, gli scarponi chiodati e il berretto di lana infilato fin sotto le orecchie – lo faceva apparire, agli occhi dei genitori che lo guardavano salire sulla corriera, simile a un individuo comparso da una spelonca tra le rocce del passato, uno spettro, lo spettro di un giovane che a quella spelonca si apprestava a tornare. In un certo senso tutto questo accadde, se non in una forma visibile, per lo meno nel cuore di Thomas Lahm. Lungo la strada che passava il valico, un raggio di sole attraversò il finestrino e gli colpì la rètina. «Verso la fiamma» si disse. «Verso il rogo». Così scomparve dal piccolo universo di Obertillach il ragazzo prodigio, il pittore della rovina possibile, il lupo bipede.


Elsa Ligotti (Roma, 1949 - ?)

Viaggiò sin da piccola, al seguito del padre vedovo che batteva l’Europa e l’Oriente in cerca di tesori perduti. Di quei pellegrinaggi sui luoghi dell’illusione (avrebbe scoperto la parola Eldorado solo più avanti, ma “illusione” fu tra le prime che il professor Ligotti le insegnò per spiegarle la vita) più avanti avrebbe ricordato il sudore degli uomini che seguivano suo padre, il verde di certe foreste, il caldo e il freddo dei deserti, le lingue che ascoltava senza capire, le città rombanti, capitali dove i loro aerei o le loro navi approdavano e dalle quali presto lei e suo padre si allontanavano per andare incontro alla loro maledizione aurea. Conobbe regine africane, pittrici messicane, poetesse francesi e stanche nobildonne russe e ognuna di loro, nel momento in cui i ricevimenti si facevano nebbiosi e il professor Ligotti, finito dall’alcol, si addormentava su una poltrona, almeno una volta la chiamò “figlia”. Una volta, in Argentina, un vaccaro che aveva più o meno dodici anni, due in più di lei, la fece montare a cavallo. La bestia si imbizzarrì ed Elsa venne portata in casa con una gamba rotta. Per un mese il giovane, che si chiamava Enrique, rimase con lei e tornò al suo lavoro solo quando la bambina si fu rimessa. Da allora, ovunque il padre la portasse, Elsa scrisse lettere a Enrique e le spedì all’indirizzo della fattoria dove sapeva che il suo amico avrebbe vissuto per sempre, e in qualsiasi misterioso luogo del mondo si trovasse, le capitava di sognarlo. L’ultimo viaggio che intraprese con suo padre la condusse in Persia, ma qualcosa, forse un rintocco troppo grave del pendolo del tempo, interruppe quella visita fatata. La giovane Elsa, il giorno del suo tredicesimo compleanno, si svegliò prima del solito. Con gli occhi ancora gonfi vide le mura giallastre della camerata, in alto le finestre e intorno a sé i trenta letti su cui ancora dormivano le sue compagne. In fondo alla camerata, accanto alla porta aperta, riconobbe la suora guardiana addormentata sulla sua sedia, che respirava come un enorme cane cieco. All’improvviso, come tutte le mattine, la ragazza si ricordò dove si trovava. I banchetti interminabili alle corti dei sovrani del sogno si ridussero all’odore di latte bruciato che iniziava a salire dalle cucine dell’istituto per figli di nessuno in cui viveva da quando aveva memoria, quella memoria vigliacca, l’unico organo umano che con il passare degli anni aumenta il suo potere a discapito degli altri. I sogni di Enrique, allora, tornarono a essere quello che erano, sogni dentro un sogno maggiore, e la strada verso l’Eldorado svanì, insieme al sinistro fantasma di quell’uomo che non era suo padre, ma un’illusione, la fantasia di un’origine. Al centro della camerata assopita, Elsa Ligotti si tirò fuori dalle coperte in silenzio. Provò a ricordare i nomi dei luoghi che negli ultimi anni aveva visitato in sogno, ma si trattava di parole impronunciabili e remote. Non si sa come, ma in quel mattino dorato Elsa lasciò l’istituto, sfuggì alla sorveglianza delle sue cento madri, raggiunse il fiume che tagliava la città in due e iniziò a camminare in senso contrario alla corrente. Sotto la sua branda, quando si accorsero dell’accaduto, le suore trovarono decine di lettere mai spedite indirizzate a un certo Enrique. Di lei, alle compagne, dissero che era stata trasferita nel posto dove, prima o poi, vanno a finire le piccole pazze.

 

Luciano Funetta

 

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