In un tempo eroico e grandioso, il poeta che osò abbandonare lo scudo venne scacciato. Fu costretto a costruirsi una baracca di lamiera al limitare del bosco, a lato di un sentiero secondario che veniva usato dai carrettieri per trasportare gli orci pieni d’acqua dal fiume alla città di Paro. Nella capanna, alla luce dell’olio combustibile, il poeta beveva birra Urquell sintetica e componeva giambi che mandava a memoria. I suoi versi si scagliavano contro ogni cosa, deridevano l’industria, ghignavano sul sacerdozio, si burlavano degli eroi e della kalokagathìa, della bellezza virtuosa dell’ideale del suo tempo. «Non vedo più gli amici» scriveva nel suo diario «Tra di loro ci sono poeti migliori di me. Per vivere sono costretti a lavorare e questo è assurdo, perché il lavoro toglie loro il tempo per comporre versi. Uno fa il cameriere, un altro il postino, uno il guardiano in un museo, uno vende abbonamenti telefonici, un altro lavora in un albergo per turisti. Il loro destino è per me causa di sconfinato dolore. Ormai il mondo appartiene alla molteplicità e lo spazio per noi sembra non esserci. Ho abbandonato Paro perché mi sono trasformato in qualcosa che gli uomini non accettano. Sono un invalido. Un giorno il signor Egon Bondy da Praga scriverà di questo meglio di me».