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  1. Narrazioni
  2. L'urlo della scimmia

Editoriale, giugno 2019 – Metà del tempo concesso

Avrebbe potuto ricordarla per quel suo volto perfetto. Oppure per le relazioni ambigue sin troppo note o per gli amori difficili. Per le partenze. Per i lutti e gli omicidi. Per gli amici famosi. Per la storia o gli eventi che aveva attraversato. Per i suoi occhi capaci di mettere a fuoco, puntare e scattare.

Per avergli regalato immagini di cui si scusava «Peccato, la donna si è mossa». E, invece, gli si era appuntata nel cuore per una frase. Una sola.

«Accetto il tragico conflitto tra la vita che cambia continuamente e la forma che la fissa immutabile»(*).

Era lì dentro la strada per riconciliarsi con quella creazione imperfetta, con le battaglie, l’impegno e il tempo trascorso.

Un bianco e nero che non aveva bisogno di contrasti ma solo di scelte. O di immaginazione. Comunque, di angeli.

Se ne stava adesso seduto al porto. Gli occhi a fessura infastiditi dalla luce diffusa. Non era sole, non era pioggia. Un cielo bianco si specchiava nel bicchiere. L’aria umida e il vestito, sempre quello, appiccicato addosso. Abitato da una irrequieta incompiutezza.

Non era l’assenza a dolere. Era ancora il conflitto.

Da lontano chiamava una sirena. Un monito dal tono basso e prolungato. Si ritrovò a sorridere ma, subito, lo prese la necessità di riposare.

Rilassò le palpebre e le lasciò cadere, del tutto. Le sirene. E vide Demetra correre su prati di grano alto ma ancora verde, piena dell’allegria isterica di chi ha già consumato metà del tempo concesso. Nei capelli, i dubbi mai sciolti. La natura della figlia, metà fanciulla e metà regina, signora assoluta, sul trono degli inferi. Rapita o sedotta. Doppia anche a se stessa. Presente eppure inafferrabile. Il vuoto a gonfiare il desiderio. Quei giorni ancora senza sole.

Che le spighe rimangano verdi, allora, e i venti ancora ostili. Che questo tempo non finisca mai, si augurò.

Sentiva la stanchezza del bicchiere già mezzo vuoto e la fatica di aver comprato un biglietto per troppo lontano. Si assopì con le braccia conserte, al riparo dalla lotta tra l'accettazione e il combattere.

«Le pecore a mare», si avvertivano i pescatori rimasti sulla banchina. Avevano scafi troppo piccoli. La schiuma delle onde smuoveva forte l’aria.

Inspirò a fondo e trattenne il fiato tanto a lungo quanto durò l’ultimo richiamo della nave. Doveva prepararsi al viaggio. Mise la mano in tasca e ne cavò fuori la pipa. Con cura sistemò sul fondo i semi e li coprì con piccole foglie scure perché non bruciassero troppo in fretta. Erano più piccoli di quelli di un melograno ma sarebbero stati compagni fedeli. L’avrebbero riconsegnato all’inverno del porto che avrebbe raggiunto. Scaldò bene il legno e avvicinò le labbra. Le spire del serpente di fumo gli offrirono un giro del cielo.

 

Tutto quel che c’è scritto non ha alcuna pretesa di aggiungere o restituire alcuna informazione storica su fatti e personaggi. L’uomo ricorda soltanto frasi già note.

(*) Le frasi sono attribuite a Tina Modotti. La prima è stata trovata vergata a penna sul retro di una fotografia destinata a Edward Weston. La seconda, riportata da più parti, pare sia contenuta in uno scritto del 1926. Non ho trovato la fonte certa da cui è stata tratta ma sul lavoro della Modotti e per le citazioni cfr. R. Toffoletti, Tina Modotti. Perché non muore il fuoco, Arti Grafiche Friulane, 1992; P. Albers, Vita di Tina Modotti. Fuoco, neve e ombre, Postmedia books, 2003; Scritture dello sguardo, Narrazioni visive femminili tra fotografia cinema reportage, a cura di M.R. Dagostino, M. Vinella, Atti del convegno Scritture di donne fra letteratura e giornalismo, Bari, 2007; P. Cacucci, M. Figarella, G. Pignat, Tina Modotti, Silvana editoriale, 2014; P. Cacucci, Tina, Feltrinelli, 2015.

L’immagine è un dettaglio di una fotografia di Edward Weston, Cababge Leaf (1931)

 

Benedetta Sonqua Torchia

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