Se c’era una cosa che le aveva da sempre fatto schifo erano i vermi. Un groviglio informe senza capo né coda il cui unico scopo al mondo le pareva quello di dimostrare tenacemente il potere della morte.
Da una settimana era immersa nell’ombra della cella e l’oscurità moltiplicava le visioni. Il contorcersi cieco delle larve le compariva ogni volta che per stanchezza si lasciava andare lungo il pavimento e, più si impegnava ad allontanare la promessa del disfacimento, più le saliva l’orrore addosso. Su per il collo, le gambe, nelle pieghe dell’inguine. Bianchi, molli, minuscoli, invincibili. Grattarsi non serviva più. I conati la coglievano di sorpresa. A niente serviva cercare col naso un soffio d’aria pulita da inspirare più a fondo. Il vomito continuava a scuoterla, poi si rapprendeva sulla gonna o sul pagliericcio che non tratteneva né le cimici, né l’odore acre dell’urina.
Aveva provato a mantenere un aspetto dignitoso ma si accorse di non potersene più preoccupare. Un paio di volte non aveva saputo trattenere le feci e, per quanto avesse cercato di scusarsi, non aveva potuto far altro che liberare le viscere per sentirsi appena un po’ meglio. Presto sarebbe morta e, in ogni caso, all’odore non avrebbe fatto più caso nessuno se non, forse, il boia che le sarebbe stato vicino.
Aspettava la sentenza essendo già certa della pena. Morte. Nessun tribunale avrebbe mai salvato una domestica che aveva ucciso la padrona. Era troppo pericoloso regalare la grazia della prigione a vita senza rischiare di perdere tutte le nobildonne in città. Troppo capricciose. Troppo frivole per non essere cauti.
In cella aveva subito il primo interrogatorio. Se, dapprima, le quattro donne rinchiuse con lei l’avevano schernita per i capelli in ordine e le mani pulite, dopo essere venute a conoscenza del capo d’accusa, le offrirono la reverenza che si serba solo a chi sa osare tanto. Dopo il pestaggio e i palpeggiamenti l’aiutarono a ricomporsi e la consigliarono a lungo. Considerando che la sua faccia mal si combinava con il reato, si misero d’impegno perché, nell’attesa del verdetto, la conservasse più a lungo possibile.
«Perché il giudice abbia clemenza» disse la più anziana. «Che non venga alcun segno di rabbia o cattiveria a turbare i tuoi occhi». «Non avvizzirti. Bisogna puntare alla morte per forca» disse la seconda. Aggiunse la terza: «Il fuoco è crudele, troppo. Anche per quelle convinte di essere streghe».
E conversando così non smisero più di pettinarla e sistemarla, né di chiedere ancora conto di quelle accuse. Viola non sapeva cos’altro raccontare alle sue compagne di cella se non quello che aveva già ripetuto ai carcerieri, agli uomini di legge e accusatori. Ma quelle insistevano dicendo che, siccome al primo calcio erano seguiti il secondo e il terzo e, insieme a quelli, i singhiozzi, il muco e i mugolii, s’era capito ben poco. «E poi c’erano quei lanzichenecchi» – così li chiamava la più vecchia – che le avevano tenute schiacciate contro la roccia della parete opposta e s’erano divertiti tutto il tempo a colpire una volta loro e una volta le blatte che spuntavano dalla paglia.
La sentenza sarebbe arrivata tra qualche ora e quel che Viola soltanto avrebbe voluto era sfregarsi col sapone e poi affogare il rumore del mondo dentro un tino colmo di acqua bollente.
Tutto era iniziato quando qualcuno notò le sue dita affusolate, allenate a intrecciare i fili sottili dei cordini e della passamaneria che sarebbe andata ad abbellire le grandi sottane delle più ricche signore.
La baronessa Clotilde sarebbe arrivata a giorni e ancora la servitù non era completa. Le domestiche richiamate per l’occasione dalle tenute di campagna avevano troppi calli sulle mani. E lei, la baronessa, abituata alle corti europee, di certo, non solo se ne sarebbe accorta ma ne avrebbe tratto le dovute considerazioni sulla rozzezza delle casate locali. Un’onta che avrebbe di certo trovato una prova nelle unghie ingiallite di quelle contadine tuttofare che, pur dabbene e fedeli, servivano da quando avevano imparato a camminare ed erano diventate troppo deformi e doloranti per poter essere trasformate in dame buone ad accompagnare la baronessa nella toletta mattutina.
Toletta che tutti dicevano essere sontuosa, di gran moda, capace di far sognare e di raccontare il fascino misterioso degli afrori d’oriente e dei profumi costosi che era usa spruzzare in modo copioso.
I nobili che avevano avuto modo di imbattersi nella baronessa in qualche ballo o parata di corte non avevano potuto che ammirarla da lontano essendo a tutti proibito, nonché sconveniente, avvicinarsi a quella figura senza prima averne ricevuto il consenso, consenso che la stessa baronessa, dall’alto del potere conferitole dal tenere spesso i lacciuoli della borsa di re e sovrani, centellinava allungando a dismisura il suo carnet di incontri. E dunque, chi aveva potuto l’aveva ammirata solo da lontano. Si raccontava però che si muovesse come dentro una nuvola rosa di cipria, effusa e moltiplicata in tondo da nastri e fiori appena appuntati alle vesti. E svolazzi e trini e merletti e sete di maniche e gonne emanavano un’aura e un tripudio di grazia che non potendo ormai far forza, come a tutti noto, sulla giovane età, era di certo frutto di una sapiente ed esperta destrezza nel confezionare se stessa. Sapeva, con gesti ampi e leggiadri, allargare l’aria e lo spazio che occupava e nessuno avrebbe mai osato limitare i suoi passi dandole il braccio o accostarsi a lei per rivolgere anche solo una parola galante. C’era, in chi la ammirava, come uno strano pudore che rendeva impossibile avvicinarla per non sciupare la magia di quel simulacro. Cosicché il fascino di quella donna – come non di rado accade tra persone sin troppo annoiate di sé – s’era trasformato in mistero e quello in potere.
Fu con queste premesse che, quando intimarono a Viola di lasciare la sartoria per recarsi a servizio dalla baronessa, parve un dovere e insieme un onore irrinunciabile. Lei sola avrebbe avuto il privilegio di essere introdotta nelle private stanze a rimirare i segreti e i più intimi accorgimenti di quella maestra di stile.
E Viola, pur avvertendo il presentimento di un ricatto, non poté fare altro che presentarsi a palazzo, rimanendo ben dritta ai piedi della scala mentre la baronessa la squadrava dall’alto del piano nobile. I molti gradini che le separavano non impedirono agli occhi buoni della giovinezza di Viola di vedere e contare le crepe e gli strati di cipria. La baronessa altro non era che una vecchia. Da basso, le vennero in mente i gozzi penduli dei galli ma fu fortunata perché il suo sorriso aperto fu scambiato per un saluto cortese e fu ammessa a offrire i suoi servizi.
Dell’odore, invece, si accorse soltanto quando le fu permesso avvicinarsi e fu come cadere in una cloaca. Peggiore dell’olezzo che lambiva i bordelli da cui di continuo buttavano liquami e fluidi. Più forte anche della puzza che usciva dal giaciglio della nonna quando le dolevano troppo le gambe per arrivare fino in strada. Più stomachevole di quello che filtrava dalle ulcere degli appestati. Perfino i piedi piagati dei pellegrini che bussavano a chiedere pane e indicazioni le sembravano più freschi.
L’aria irrespirabile la indusse a dire di essere molto timida così, sin dal primo giorno, ebbe il permesso di distogliere lo sguardo e il naso dall’aria marcia che stagnava intorno al corpo della vecchia.
Nei giorni successivi, Viola si ingegnò con pezze e lini intrisi di acqua e aceto ma, pur vedendo davanti a sé un corpo vivo, percepiva l’esistenza di carne guasta. I fazzoletti premuti forte sul naso perdevano presto efficacia se nella stanza rimaneva a fare compagnia alla vecchia signora e così, presto, s’inventò un modo cortese per spiegare che aveva troppo rispetto della intimità della padrona per non lasciarle la biancheria sul letto e il bagno pronto. Lei si sarebbe ritirata nel salottino adiacente in attesa che la stanza tornasse vuota. E, al rientro, in effetti trovava le vesti della notte sul pavimento e l’acqua ancora intonsa.
Ma non passò molto tempo che la baronessa si trovò a intimare a Viola di rimanere in stanza ad assicurarsi che la vestizione fosse perfetta. La nobildonna infatti era vecchia ma non abbastanza da rinunciare a rincorrere il guscio di quella che era stata. A tradirla erano le giunture che si mostravano spesso tutt’altro che flessibili e buone a garantirle gli ampi movimenti che nastri, gonne e sottogonne richiedevano.
E fu lì che il disgusto si impadronì di Viola. E lei non riuscì più a sottrarsi al tanfo.
A niente valeva sprimacciare velluti e corsetti; spalancare finestre e balconi, bruciare incensi e oli, arredare le specchiere con fiori recisi di fresco ogni giorno. Arrivò a credere che quella vecchia tenesse del pesce sotto le gonne o qualche ortaggio nel letto al quale si fosse affezionata troppo a lungo. Provò a rovistare con furia ogni pertugio possibile per essere certa che non tenesse con sé un qualche ricordo andato a male.
Poi un pomeriggio al rientro da una colazione, come sempre faceva, Viola scoperchiò il cranio perlato della baronessa e dalla parrucca vide cadere un sacchetto di seta bianco. Ne uscirono scomposti piccoli fiori e qualcosa su cui dovette appuntare meglio lo sguardo. Piccoli ghirigori irrequieti. Vermi.
Scrollò allora un poco la parrucca e ne caddero altri, minuscoli, a decine. Un prurito indicibile la aggredì dietro le orecchie e giù fino alle scapole e poi si allargò ovunque e si sentì morire.
Quella vecchia sporca, dispotica e puzzolente, con gli occhi chiusi, stretti dall’odio di chi si sente scoperto, spolverò via i vermi con un gesto rabbioso e le ordinò di risistemare al più presto il sacchetto. Viola si piegò veloce, lo prese senza stringere e scappò via: in cucina, e dalla cucina alla legnaia e dalla legnaia, fuori finalmente, nel cortile. A prendere aria. A respirare lontano dalla cipria. Dai nastri intrisi di profumo che servivano solo a coprire il puzzo. Lontana da tutta quella pelle morta.
All’aria, batté forte le mani tra loro e poi sui fianchi e le gambe e le natiche e ovunque riuscisse ad arrivare, come se l’aria fredda potesse lavarla prima ancora dell’acqua.
«La lavanda non serve a niente. Contro l’olezzo di morte, è inutile».
La voce era di una serva che Viola uscendo non aveva notato. Quella da sotto il grembiule tirò via e le porse un ciuffo di ambrosia. «È una pianta immortale. Tieni». E strusciò con energia le piccole spighe. «Anche i semi. Usala bene».
Viola allora si fece forza. Svuotò il sacchetto e sostituì l’erba. Le comparve una ragnatela rossa sulla mano ma non ci fece troppo caso attribuendola ai colpi forti con cui aveva voluto cacciare la paura dei vermi.
«Bisogna proprio strigliarla per bene questa gran signora». E rideva la donna, mentre Viola, preso un gran respiro, si rituffò in casa.
Tornata su, provò a distrarsi cantilenando le preghiere che sapeva ma, più ripeteva parole, più continuava a vedere vermi arrampicarsi tra le orbite vuote dei teschi che in chiesa e nei grandi dipinti davano volto alla morte.
Nel frattempo, davanti allo specchio se ne stava la baronessa ancora con quel golgota nudo, intenta a imbellettarsi mentre per terra le larve bianche senza più nutrimento morivano. La nobildonna si spazientì non vedendo ancora la capigliatura al suo posto e così Viola, trattenendo i conati, le calò infine, dall’alto, il sacchetto e poi la parrucca.
E per un attimo ebbe la sensazione che quel supplizio fosse finito. Una volta risistemata, la signora uscì e Viola ebbe modo di liberarsi della nausea che la teneva prigioniera dando aria al letto e lavando lenzuola, tende, vestiti, calze, cappe e pellicce. Cambiò l’acqua nei vasi, sventolò fazzoletti, strofinò il pavimento di cenere e acqua, sciolse i drappi del baldacchino e passò a fuoco vivo i pettini d’osso e forcine. Dopo due ore sembrava che quella stanza non fosse mai stata abitata e anche l’immagine del cranio bianco e senza pelle che le campeggiava in testa dal pomeriggio s’era andata sbiadendo.
Le sembrava di poter respirare di nuovo senza artifici quando seppe che la baronessa stava tornando di gran carriera, in anticipo sui suoi programmi e senza aver neanche presenziato fino alla fine la festa organizzata in suo onore. La sentì entrare infuriata nel palazzetto mentre la voce alta e stridula veniva preceduta dalla puzza. Pungente, aspra. Era tornata.
Le grattava la gola. Non c’era cenere o sapone o fiore che avrebbe potuto sconfiggerla.
«Mi prude. Ho troppo prurito. Che malocchio hai gettato sulle mie parrucche. Toglila subito. Stanotte come un cane, dormirai in terra. Piccola megera».
Appena sollevato il palco di capelli finti, i vermi tornarono a cadere giù e Viola, sotto il sacchetto, sul cranio nudo notò una ragnatela rossastra simile a quella che le si era impressa sulla mano. Le venne in mente quello che le aveva detto la serva nel cortile. Avrebbe dovuto strigliare la baronessa. Bisognava convincerla. Quello era il modo.
La mattina dopo Viola con la scusa del prurito requisì le parrucche e le andò ad ammollare nella vasca dove il capraio bagnava la lana. La vecchia, accortasi del maltolto, minacciò e strillò ma, alla fine, a malincuore, si rassegnò a quello sciupio «Le parrucche temono l’acqua. Perdono forma e colore. Lavorerai senza paga fino a che non sarò risarcita».
Eppure i vermi non si fermarono: attraversavano i crini dei cuscini, si insinuavano tra le cuciture delle vesti e si affacciavano al mondo già pasciuti. Giravano tra gli interstizi di mani e piedi e lì rimanevano a prendere caldo finché, grandi abbastanza, non trovavano dove moltiplicarsi.
Un carnaio dentro un corpo vivo che spingeva e si faceva largo.
Viola ebbe la certezza che, se non avesse approfittato del fatto che la sua padrona non poteva di certo andare in giro calva, l’odore cattivo e di marcio si sarebbe impresso sin dentro le pareti e sarebbe stato così denso da serrare porte e finestre e i vermi avrebbero avuto del tutto il sopravvento sui vivi.
Così, preparò il sedile e poi il tino e l’acqua calda. La padrona, già annoiata dalla prigionia imposta dal dover aspettare che le parrucche si asciugassero e riprendessero forma, si incuriosì per tutto quel trambusto insolito e decise «Sì». Avrebbe fatto il bagno. «Ma solo con i piedi». Per dare sollievo alle unghie ritorte.
Viola l’aiutò a scavalcare il bordo del tino ma non riuscì a non rimanere ipnotizzata dai piccoli movimenti che le vide sulla schiena. Vermi. La leggera sottana della baronessa ne era piena. Uscivano dagli orli e salivano. Spaventati forse da quella inattesa nudità della padrona, erano usciti tutti insieme a vedere cosa stesse accadendo. Il corpo della vecchia pareva fatto di nuova materia. Tremolante e diffusa. Sul dorso, le braccia, un brulichio che viveva da solo. I vermi abitavano la baronessa.
La baronessa con la mano sul braccio di Viola faceva leva per potersi bagnare il meno possibile e saggiare la temperatura dell’acqua. Un contatto ributtante che stava contaminando il braccio di Viola. Le avrebbe passato tutta la marcescenza che potevano mostrare le unghie nere e increspate e i denti guasti allenati a rimanere nascosti dentro i sorrisi appena accennati. Tutti quei vermi le avrebbero mangiato la carne fino a mostrare l’osso bianco e lo scheletro intero. I vermi si sarebbero divertiti a giocare anche tra le sue orbite, quelle di Viola, e le porte dell’inferno l’avrebbero accolta tra i mostri che divorano carni putrefatte.
Una vertigine le fece cadere il braccio e con esso l’appoggio alla baronessa. Il vecchio cranio colò a picco e le gambe saltarono in aria, scomposte. Viola continuava a sentire la presa e per liberarsene ribaltò tutto il peso in acqua provocando un grande spruzzo. E nella lotta si ritrovò a spingere e strizzare quel corpo come si fa con le pezze vecchie e a tirare su e poi giù.
«Vecchia. Bevi e caca tutti i vermi che puoi».
E così nessuno dei servi accorsi in stanza per via delle grandi urla di una e dell’altra riuscirono a capire che si trattasse solo di un bagno e non di omicidio. E tutti, davanti alle guardie, poi testimoniarono di averla sorpresa con i gomiti nell’acqua a sciabordare nel tino utilizzando come uno straccio quel che rimaneva della baronessa. Quel che avvenne fu che l’afferrarono per i gomiti trascinandola via ma nessuno ebbe invece la prontezza di acchiappare la baronessa che si stava perdendo nel tino.
E mentre la serva, in cucina, avrebbe continuato a dire che la vecchia era affogata dentro la sua stessa sozzura, Viola avrebbe pagato assai cara quella distrazione.
Non sapeva, Viola, se sulla forca o sul rogo ma, nonostante le dicerie sui boia e sulle streghe, in cuor suo, sperava fosse il fuoco a prenderla per polverizzarne la carne; perché la liberasse, finalmente, dai vermi.
Benedetta Sonqua Torchia
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