If I can’t show it, if you can’t see me
What’s the point of doing anything?
St. Vincent
S’era mangiato la spiaggia, il bastardo. Non era così un tempo, vede laggiù, a destra, dove inizia quel piccolo scoglio a forma di serpente, ecco, adesso provi a immaginare una linea il più possibile diritta – guardi le mie dita – una linea parallela alla spiaggia che tagli il mare dallo scoglio fino all’altra estremità della cala, a sinistra – guardi le mie dita ho detto – ecco, pensi, la sabbia, una volta, arrivava fino a lì. Tutta colpa del mare, noi lo sapevamo, ma è stato troppo veloce, troppo veloce. Avremmo dovuto fermarlo, ma come. In fondo, gli uomini, clic, gli uomini cosa possono contro il mare. Clic. Senta signorina – forse cambiando inquadratura – con quell’aggeggio esattamente – oppure l’obiettivo – che intende fare? Il sole rosso cominciava a scendere e il vecchio si allontanava. Restava da capire come imprimere quella linea su una fotografia.
Il vecchio aveva detto che sarebbe durata massimo altri cinque anni. Poi sarebbero rimasti solo il cielo, l’acqua nera e rocce a strapiombo sulle onde. E la sabbia sarebbe diventata pavimento per mostri marini. E la gente, la gente. Avrebbe trovato un’altra spiaggia, dimenticando tutto. Se n’era andato scuotendo la testa, contrariato, e le sue impronte erano ancora profonde, tra i gabbiani. La famiglia francese accanto a lei mangiava panini. Due bambini giocavano nell’acqua bassa, vicino alla riva. La storia non era più complicata di così: c’era una volta una spiaggia gigante, immensa e adesso non c’era quasi più. Lei era capitata in quel quasi, con il compito di fermarlo. Anzi, di tornare indietro a quella linea, da qualche parte in mezzo al mare. Tirò fuori dallo zaino la bottiglietta d’acqua e limone. Scattò alcune foto inutili. Una al bambino bianco e grasso in posizione ferina, la bocca aperta in direzione del panino, un paio alla bottiglia nella sabbia, vicino ai granelli bruciati. Quei vecchi avrebbero voluto fermare il mare. Perché? Le spiagge inglesi erano piene di piccole piramidi sotto la sabbia, le avevano costruite gli isolani durante la guerra per paura di invasioni e adesso erano i turisti a spaccarsi i piedi contro quelle guglie, al posto dei carri armati. I nuovi invasori, con macchine fotografiche e bagagli. Spostò un poco di sabbia, ma non c’era nessuna piramide. Evidentemente, non sarebbe servita a niente. La spiaggia non era così stretta come diceva il vecchio, lei non avrebbe saputo calcolare i metri esatti, forse una decina, dalla pineta fino alla prima linea di sabbia bagnata. Non aveva occhio per queste cose. Nemmeno sapeva misurare la distanza tra la prima riga di mare e quella linea, disegnata nell’aria dalle dita del vecchio. Trenta metri, cinquanta forse, ma poteva sbagliarsi alla grande. Arrivò un pallone a pochi centimetri da lei, dei ragazzini cominciarono a ridere e sbraitare guardandola da lontano, alcuni indicavano il punto di atterraggio, altri timidi si avvicinavano un po’, con le mani a forma di scudo. Cercò di sorridere, e lo calciò verso di loro, sciocchini, pessimi giocatori, dove si sarà cacciata vostra madre, vi sentite liberi di fare tutto. Voleva farsi un giro, faceva molto caldo, era sola. Le sue cose sarebbero rimaste abbandonate sulla sabbia, preda di un ladro qualsiasi. Scrutò la spiaggia in cerca del vecchio, ma continuò a vedere la stessa gente, più o meno oscurata dagli stessi ombrelloni. Abbassò lo sguardo, era sudata. Mancavano tre foto per finire il rullino.
Nel posto dove stava, c’erano altri due inquilini. La sua stanza era luminosa, con un piccolo bagno e un ripostiglio quasi vuoto, senza finestre. Il padrone di casa le aveva detto che era l’ideale per scarpe e valigie, tutti lo usavano sempre per scarpe e valigie. Lei aveva annuito trovando l’idea geniale, sì, è perfetto. Poi aveva pagato l’uomo, chiuso la porta sorridendo in maniera un po’ idiota, e lo stanzino era diventato una camera oscura, ovvio. Le altre due stanze erano rispettivamente sotto e sopra di lei, di modo che ne fosse in qualche modo schiacciata. Non erano stanze, ma appartamenti, eppure sembravano solo stanze. Non aveva mai visto niente di simile. Avrebbe preferito il terzo piano, ma costava parecchio di più anche se la vista probabilmente le avrebbe fruttato un intero rullino. Magari, un giorno o l’altro, avrebbe bussato e chiesto di dare un’occhiata. A dire il vero gli altri inquilini erano più di due, sei per l’esattezza, due nuclei familiari: il primo una famiglia inglese e biondissima – madre, padre, figlio, figlio – il secondo una coppia giovane di nazionalità ignota. Non aveva trattenuto nulla dei loro visi, solo i capelli biondi dei primi, e le gambe grassocce dei secondi che, a dir la verità, potevano anche essere fratelli. Clic. Sperava che avrebbero intrattenuto rapporti cordiali, e di non trovarseli troppo tra i piedi. Le ragazze sole, di solito, facevano pena e la gente si sentiva in dovere di attaccare bottone, sorridere, buona giornata. Dalle finestre si vedeva il mare che in quel momento era calmo, con leggere onde vicino alla riva. Se si fosse mostrata allegra, nessuno si sarebbe preoccupato per lei, sarebbero stati alla larga. Funzionava sempre così. Il mare aveva anche striature viola. Qualcuno camminava nella stanza di sopra. Scattò una, due, tre foto in direzione del mare, poi il rullino finì, come aveva previsto. Quella casa, ora che ci pensava, somigliava a una torre. La questione adesso era ritrovare carta e bacinelle per la camera oscura, era certa di averle infilate nella stessa tasca dello zaino, eppure. Come al solito, si doveva buttare tutto all’aria. Dopo appena un’ora aveva riordinato quasi tutto, la camera non sembrava malaccio, tutto era stato ritrovato, le cose parevano funzionare. Il tizio aveva anche messo fiori arancioni vicino alla finestra e solo adesso, coi suoi vestiti sparsi, le sue giacche, le sue fotografie, lei se ne accorgeva. Andò verso il tavolo, toccò i petali, li spostò per farli giocare con la luce, e quando le sembrò che l’ombra fosse sufficiente scattò la nuova prima foto. I fiori non erano un soggetto ridicolo, ma non erano neppure il massimo. In ogni caso non degni di inaugurare un rullino. Si buttò sul letto a pancia in giù, aprì il quaderno, cercò la prima pagina bianca, e a matita scrisse Sei agosto, Sardegna, Cala Sinzias, ore 19.30. Primo giorno. Trentasette scatti. Buoni: due. Scenari: medi. Trovare la linea. Ho fame.
Prenditi una vacanza, stacca, riposati, non pensare al lavoro, mangia, bevi e soprattutto dormi, non ho mai visto delle occhiaie così profonde, sembra che te le abbiano dipinte, incise, e poi sei sciupata, scavata, guardati la faccia, ti guardi mai la faccia allo specchio, faresti bene a farlo più spesso così per tenere d’occhio il tuo livello di stress e di tensione, ma ce l’hai un medico, uno di fiducia intendo, a quanto pare siamo arrivati al limite mia cara, posso darti il numero del mio se vuoi, si chiama Jenkins, dottor Jenkins, potrebbe aiutarti sul serio, e con questo non pensare che il giornale non abbia più bisogno di te, abbiamo bisogno di te, tutti sono necessari e nessuno indispensabile, questo lo dico perché non ti monti troppo la testa, lo diceva l’insegnante di recitazione a mia figlia più grande, pensa, se ne tornava sempre a casa con queste chicche dell’insegnante di recitazione, rimanevo stupefatto, insomma, un gruppo di teatro è un po’ come un’azienda, o un giornale, o un partito politico, credo che tu non mi stia ascoltando, da cosa lo vedo, dal fatto che mi guardi col tuo solito occhio fisso, stai pensando che starei bene con quella luce lì con quel colore là, te la strappo quella macchinetta dal collo, ti farebbe bene trovare un passatempo, come la recitazione, posso chiedere a mia figlia, vi somigliate voi due, se lavorassi in digitale quanto sarebbe meglio, non sai nemmeno quanto gioveresti al giornale, quante volte te l’avrò detto ma tu niente, ostinata, come mia figlia appunto, tu non sai nemmeno quanto aiuterebbe, via veloce, tutto pronto in pochi minuti, guarda che questa è pura ostinazione, pura ideologia, pensa a quanto tempo in più per te, per le tue cose, rifletti durante la vacanza, dove andrai, posso suggerirti dei bei posti se vuoi, dipende se vuoi restare in Europa, ti dò quindici giorni, quindici giorni tondi, forse sarebbe meglio non andare troppo lontano, sennò la metà del tempo la passi in viaggio e poi mi torni più stressata di prima, sì va bene, giro la testa, abbasso il mento, poi smettila sul serio, dovresti farti una famiglia sai, è da un po’ che ci penso, proprio ieri a cena lo dicevo, quanti anni avrai, ventisette, ventinove, lo dicevo con mia moglie, ma ce l’hai un fidanzato, uno di fiducia intendo, non vedo mai nessuno che ti viene a prendere al giornale, mi sono detto. Eppure è una ragazza affascinante, e anche mia moglie era d’accordo, e mia figlia ha detto Bella, quella della recitazione intendo, quella che ti somiglia, ha detto. Bella bella, due volte l’ha ripetuto, si vede che le piaci molto, mia moglie potrebbe essere gelosa, sì, abbiamo parlato un po’ di te, ieri a cena, che c’è di male, vedi che sono preoccupato sul serio, se solo dedicassi una piccola parte dell’amore per il tuo lavoro agli altri vedresti come cambia la rumba, saresti un’ottima fidanzata, un’ottima mamma, lo so che te ne vergogni e non è abbastanza per te, fai la dura, lo capisco, anche io alla tua età, ma vedi, guarda che visino che hai, non c’è niente di male, dovresti accettarlo, ormai sei grande sul serio, inutile che metti quel broncio, guarda che sei davvero una bella persona, l’ho pensato subito, al primo colloquio, è lì che ho deciso di prenderti, forse perché non avevi quelle occhiaie, forse se le avessi avute, insomma, ho pensato subito Guarda un po’ che ragazza dolce, che viso intelligente, e infatti ci ho preso, ho fatto una buona scelta, l’esperienza sai, l’intuito, sei solo un po’ testarda, un po’ rigida, un po’ silenziosa, ma per questo c’è tempo migliorerai, anche un po’ permalosa in effetti, un po’ in disparte, un po’ per conto tuo, forse sei timida, non l’ho mai capito, un po’ maleducata, un po’ strafottente, sì, le mani le metto qui, un po’ come dire ostile, ostile è la parola giusta, va bene così d’accordo, un po’ strana, un po’ asociale, cerco di stare fermo, sì, un po’ afonica ehm afasica, clic, ma ostile è la parola giusta.
In quella camera la luce buona non si trovava. Aveva bevuto tanto di quel vino. La macchina era immobile vicino alla porta, gelida, austera, l’autoscatto concedeva trenta secondi esatti di vita. Di solito la notte ne scattava una trentina, e solo una arrivava al mattino. Le altre venivano accartocciate, strappate, buttate via. Poi lei aggiungeva la superstite al mucchio delle reduci di altre notti, dopo avere scritto sul retro data, titolo, luogo e ora. Il titolo era sempre qualcosa come Io: Variante. La posa era sempre la stessa, capelli sciolti, dietro le orecchie, sguardo neutro, per quanto possibile, bocca chiusa, occhi vuoti. Così il cambiamento sarebbe stato minimo e allo stesso tempo grandioso. Da una notte all’altra, solo un piccolo particolare, un sopracciglio sollevato, un dente che sporgeva appena, un’emozione qualsiasi da qualche parte. Poteva ripercorrere così la sua intera vita? Sì, poteva. Fino a quel momento i giorni vissuti erano mille novecento cinquanta cinque.
Si era addormentata vestita, senza scarpe, e il sole del mattino sembrava volesse soffocarla. Fame, fame, voglia di pisciare, acqua, uova al tegamino, dove diavolo sono bacon e salsicce. Italiani, gente barbara, femminucce, zucchero di canna in bustina. Era rimasto il cioccolatino di benvenuto sul cuscino, mezzo spiaccicato, se lo infilò in bocca mentre andava in bagno. Mangiamoci pure questo pane e marmellata, pane e cioccolata, pane e espresso. Cap-puc-ci-no. C’era un chiosco sulla spiaggia, sarebbe andata lì, sperava di incontrare il vecchio, quel tipo le piaceva. Aveva una bella faccia, piena di crepe, gli avrebbe scattato qualche foto, tipico italiano uomo ben invecchiato, insomma, benino. Può darsi fosse ancora ubriaca. Il tizio non c’era, non c’era quasi nessuno, erano già le sette del mattino, italiani, gente pazza, dormire, mangiare, festa, dormire. Doveva avere una pessima cera, il cameriere la guardava con un certo imbarazzo, oppure era la sua faccia normale, la sua faccia neutra di barbaro, clic. Portami un cappuccino tazza grande, una brioche francese, con marmellata di nonna Italia, e poi togliti dai piedi, ehi, ti ho solo fatto una foto. Ok, era di pessimo umore. In compenso arrivarono tre vecchi, tutti risolini e dentiere, e la cosa bastò a farla sentire meglio. Forse sperava sarebbe arrivato anche lui, allora avrebbe potuto parlargli, chiedergli di raccontare ancora della spiaggia, della linea, magari invitarlo a pranzare da qualche parte. Le venne in mente che il tizio poteva anche essere morto, e si infilò subito gli occhiali da sole. Sciocchezze. Pagò in fretta perché il mare era molto azzurro e andava catturato subito in qualche modo. Non aveva mai visto il deserto, ma quella spiaggia, tolto il mare, doveva somigliare a un deserto, liscia, levigata dal vento, senza nessuna traccia umana, camminarci sopra era quasi irrispettoso, come macchiare un enorme quadro steso a terra. Voleva nebbia, ma non poteva averla, né crearla artificialmente in nessun modo. Qualche nuvola in più perlomeno, anche se quel cielo spoglio, sopra quel mare piatto, vicino a quella spiaggia vuota, insomma, brividi. Doveva approfittare del deserto, della riva libera da ombre umane. Il mare davvero non era di nessuno, anche se pesci, barche, e luci facevano a gara per portarselo via.
Il vicino biondissimo le aveva chiesto se aveva bisogno di qualcosa, bussi pure, nessun problema, e lei a ostentare sorrisi, scuotere la testa, zampettare via cretina. Si era precipitata in camera continuando a sorridere immobile, per chi? Certe gentilezze la mandavano fuori di testa. In ogni caso non sarebbe più accaduto. Altri tre rullini erano partiti, senza sforzo, ma del mare più nessuna traccia, impossibile scovarlo in quel carnaio, la gente aveva cominciato ad ammassarsi ovunque dalle nove del mattino, portavano le loro case sulla spiaggia, i loro oggetti, i loro cari, la macchina aveva seguito tutti, uno per uno, cercando di rubare qualcosa. Sperava di salvarne almeno una ventina, carne e soffocamento, carne e soffocamento, e crema solare. La famiglia francese non c’era più, il vecchio non c’era più, i bambini sulla riva non erano più gli stessi del giorno prima. Era passato tutto, trasformato, per sempre. Si ricordò di aver lottato con la morte, quella notte, in sogno. Stesa sul letto, mentre decideva se sviluppare tutto subito o aspettare gli ultimi giorni, si era ricordata. Con un saio e un cappuccio nero, come nelle più banali rappresentazioni, e lei che la colpiva con qualcosa, forse erano le sue stesse braccia, un bastone, cercava di strozzarla, picchiarla, prenderla a schiaffi, cercava di uccidere la morte? La sbronza, le occhiaie, cinghiale sardo e cannonau, medico di fiducia, gnocchetti, assaggi questo formaggio, mirto, buono, offre la casa. Avrebbe sviluppato le foto dei giorni seguenti a fine vacanza, era deciso, o forse direttamente al ritorno, questa volta la camera oscura le era uscita piuttosto male, filtrava luce da qualche parte, ne era sicura. In Italia c’è troppa luce, troppo cielo, troppa carne nuda per strada. Prese il quaderno e scrisse Sette agosto, Sardegna, Cala Sinzias, ore 21.15. Secondo giorno ma sembrano passati anni: il piano funziona. Cento e otto scatti. Buoni: una ventina se tutto va come previsto. Scenari: mare deserto carne. Scatti di ieri scadenti, difetto nella camera oscura. Maledetta me. Giornata intensa, goduta, tutto sommato bene. Nessuna telefonata giornale, nessuna telefonata amici, nessuna telefonata famiglia, fidanzato, eccetera. Il vecchio è sparito, peccato. Bel tipo, fossette e rughe su tutto il viso, parla strano ma capisco. Cibo ottimo ma impegnativo. Smettere di esagerare col vino. Trovare il vecchio. Trovare la linea. Non ostinarsi a uccidere la morte.
Prima di uscire a cena, qualcosa era scivolato sul pavimento. La foto scattata quella notte giaceva riversa a terra, vicino al tavolo. L’aveva raccolta e, aprendo la cassetta di latta, aveva recuperato quella della notte prima del viaggio. Le due versioni, accostate, sembravano identiche, nella luce, negli occhi, nel leggero ghigno della bocca. Le proporzioni erano spaccate, la geometria esatta. Si avvicinò qualche centimetro alla foto più recente, quella scattata la notte della sbronza. Tutto regolare, luce scura, sguardo immobile, fisionomia credibile, e una linea orizzontale sulla carta lucida, a tagliare netta i suoi occhi.
Il giorni seguenti erano passati tranquillamente, le occhiaie cominciavano a sparire. Aveva preso l’abitudine di fare colazione sulla spiaggia, svegliandosi alle cinque e mezza spaccate. A quell’ora ogni cosa era incomparabile. Dopo le prime foto, si sedeva sulla spiaggia con un taccuino, scriveva qualcosa, scarabocchiava guardando il mare, cercava di disegnare la linea. Forse le sarebbe stato d’aiuto per fissare le proporzioni, le distanze, l’esatto percorso del sole. Ogni giorno la mano era più sicura, il disegno meno approssimativo. Aveva bisogno di qualche parola in più, di qualche frammento, dettaglio. Naturalmente il vecchio non era tornato.
Io, a quei tempi, scattavo polaroid. Ero un dilettante, mi divertiva, avevo ricevuto in regalo la macchina da alcuni amici, la foto usciva quasi subito senza troppi ragionamenti. Al mare ci andavo tutte le estati, sempre in un posto diverso. Avevo parecchi soldi, lavoravo poco. Non avevo niente che valesse la pena. L’avevo vista un giorno, a inizio agosto, avevo pensato fosse una tipa strana, carina, sicuramente sola. Aveva un aspetto stanco, rigido, nervoso, leggermente apatico. Un’accozzaglia di tinte incompatibili. Portava un vestito corto, molto colorato, i capelli lunghi un poco mossi e legati in una coda bassa, arruffata, che non le conferiva un aspetto ordinato, le allontanava soltanto i capelli dal viso. Anche lei teneva una macchina fotografica al collo, anzi la stringeva, a dire il vero. Non smetteva di scattare, in ogni momento. Io stavo in un albergo vicino al lido con amici, ma spesso andavo in spiaggia solo. Era lì che la vedevo, tutti i santi giorni, arrivavo che già la sua mattina sembrava iniziata da settimane. Non faceva altro che guardarsi attorno, girarsi di scatto come per scovare un nemico, fotografarlo, gettarlo in un sacco e scaraventarlo nel Tirreno. C’era in lei qualcosa di crudele. Tutta la spiaggia se n’era accorta, qualcuno pareva molto infastidito, alcuni mariti le si erano avvicinati facendole notare il suo comportamento inappropriato, che diritto aveva di scattare foto, così, a sconosciuti? Di sicuro lei sentiva queste storie da anni, non pareva affatto turbata. Si toccava gli occhiali, annuiva, indietreggiava lentamente, e per un poco si andava a sedere sull’asciugamano, tamburellando sulla sabbia. A volte scavava piccole buche, tastando l’arena più fredda. Cercava qualcosa, anche sotto ai granelli, poi ricominciava. In maniera discreta, all’inizio, poi sempre più sfacciatamente. Alcuni rassegnati accettavano o se ne andavano via fissandola, indicandola, sbracciandosi nell’aria gialla e bruciata. Certe donne le si avvicinavano urlando, sembrava volessero strapparle i capelli, prenderla a calci. In segreto, di certo, rideva. Però restava calma, mite come un animale ferito, innocente. Forse piangeva, ma a me sembrava che ridesse. Forse faceva entrambe le cose. Forse non c’era differenza. Un giorno, era il venti di agosto, ero arrivato in spiaggia di mattino presto. Non c’era quasi nessuno, la trovai accoccolata vicino alla riva, col solito vestito e la pelle bruciata dal sole, piena di chiazze rossastre sulla carnagione chiara. Di certo non si accorse di me perché guardava fisso il mare. Avevo con me la polaroid e cominciai a fotografare anch’io. Fotografai lei, principalmente, e il mare davanti a lei. Ma del mare mi importava poco, non mi è mai importato nulla del mare. Fotografai lei. Le sue scapole disegnavano onde nella schiena, sporgevano così tanto che per un momento credetti che quella donna fosse malata, che stesse per morire. Forse pensai che quella donna fosse già morta. Inclinandomi leggermente verso destra notai che sulle gambe teneva un taccuino: guardava il mare, tracciava segni sul taccuino, le sue scapole disegnavano le onde della morte. Era meccanico, un ritmo regolare, acqua, taccuino, acqua, taccuino, mentre la macchina appesa al collo si sbilanciava leggermente a sinistra. Feci una foto, mentre le altre, già uscite dall’apparecchio, cominciavano a definire forme e colori. Me le infilai sotto la maglietta per proteggerle dal sole, forse era troppo tardi, che importa. Aveva visto qualcosa, perché si alzò di scattò dirigendosi verso la riva, il taccuino gettato nella sabbia, le impronte nervose che disegnavano la sua strada verso il mare. Avrebbe potuto girarsi da un momento all’altro, nella furia della corsa, e per un attimo ebbi paura. Forse mi avrebbe scoperto, scattato una foto, e gettato nel Tirreno. Mi nascosi dietro l’obiettivo e cominciai a scattare ancora. Era l’unica cosa che potessi fare, l’unica, per lo meno, che mi venne in mente. Lei stava sulla riva ciondolando a destra e a sinistra, la sua figura sottile tracciava rette oblique, sgangherate, lei allungava il collo come per scorgere un vecchio amico su una barca lontana. Poi scattava, allontanandosi un po’ di più dalla spiaggia, da me, e allungava il collo ancora, e ciondolava ancora. Le sue gambe sparivano lentamente nell’acqua chiara, forse perché qualcosa brillava tra le onde, un pesce d’argento, una medusa, forse per questo le dita tracciavano linee nel cielo, e lei girava e cadeva, scattava e si riempiva di spruzzi, aveva trovato qualcosa che io, da terra, non potevo vedere. Il sole adesso era alto, l’acqua un poco agitata, e io non capivo cosa stesse accadendo, perché quella donna nuotava e scattava, perché si immergeva e affiorava tossendo, perché arrivava gente sulla spiaggia come se nulla fosse, perché lei iniziava a scomparire alla mia vista e le mie foto cadevano veloci sulla sabbia della cala.
Valentina Maìni {fcomments}