Era l'inverno di tre anni fa, quando abbiamo visto per la prima volta Antoine Volodine, in carne e ossa. Un'amica francese che in quei mesi viveva a Villa Medici, in quello che lei chiamava il Bosco Incantato, ci aveva dato notizia di una lettura che si sarebbe tenuta in una delle sale della villa. Il nome dello scrittore ci era sconosciuto e fuori infuriava un temporale.
L'uomo stava seduto in silenzio sulla sua sedia. Portava un giaccone di cuoio e un taglio di capelli che sembrava opera di un barbiere russo, un barbiere di Hovrino. Seduti al suo fianco, tre traduttori e la nostra amica francese. In platea la maggior parte dei posti era vuota. Incurante, l'uomo ascoltava gli interventi degli altri. Parlavano di una prigione piena di scrittori-guerriglieri, di una letteratura sconfinata e ignota chiamata post-esotismo, di due edizioni italiane a fronte di un'opera di decine di volumi. «La letteratura post-esotica è fondata su un progetto di quarantanove libri, alcuni dei quali non sono ancora stati scritti» spiegò l’uomo. «Non so quale dei poeti post-esotici completerà il corpus. Quel che è certo è che l’ultimo volume si chiuderà con una frase: Je me tais. Mi taccio».
A un certo punto gli venne chiesto di leggere. «Questa è la storia di un bambino, raccontata dalla cella in cui il bambino è rinchiuso», disse lui, e iniziò. Quello che aveva detto era vero. Non un'esagerazione o una metafora. La voce dell'uomo raccontò per filo e per segno la storia di un bambino che parla dalla sua cella. Era una voce tranquilla che modulava il francese più lento che avessimo mai sentito, come se sapesse che in fondo anche una lingua madre è una lingua straniera che bisogna usare con cautela. Eravamo seduti intorno a un fuoco che bruciava materiali sintetici, legna di scarto, foglie profumate. Quando la lettura finì, tutti applaudimmo. La scrittrice fece una domanda all'uomo e lui rispose. Mentre l'uomo parlava, la scrittrice aveva i grandi occhi illuminati da un tremito. Esaurita la risposta, l'uomo lesse di nuovo. «Questa è la storia di una donna. Non posso negare di essere innamorato di questa donna». Ascoltammo così la storia di Maria Trecentotredici, una cantilena precisa, una voce che risuonava nelle nostre teste e non poteva essere udita al di fuori di noi. Eravamo tutti la stessa creatura multifronte. Era chiaro che l’uomo aveva il potere di scatenare un viaggio, numerosi viaggi, viaggi come tempeste e come canti. Eppure sembrava tranquillo, forse ignaro del suo potere. La scrittrice francese intanto aveva iniziato a piangere senza nascondersi.
Ce ne andammo, ma prima ci fermammo a guardare il giardino di Villa Medici ormai buio, gonfio d’acqua. I nostri cappotti puzzavano di umidità e di qualcosa che sembrava olio da lampada bruciato. Da qualche parte, in una delle sale del palazzo, la serata continuava. Volodine ci passò accanto, ma non andammo a parlare con lui o a complimentarci. Semplicemente ce ne tornammo a casa, a guardare i fulmini.
Il giorno dopo comprammo Scrittori e ci trovammo dentro le due storie che avevamo ascoltato, insieme ad altre storie di scrittori post-esotici ormai annientati dalla repressione. Ne comprammo altre copie che regalammo ad alcuni amici. Avevamo voglia di portarli con noi nel mondo di Antoine Volodine, nel futuro mitico e rovinoso da cui non riuscivamo più a uscire. Si trattava di camminare nella mente di Volodine come se fosse un lussureggiante paesaggio naturale, l’Iguazu della miseria umana, l’Auyantepui della parola, il Bajkal della resistenza, ossa umane rinvenute nella Rift Valley dell’umorismo.
Poi leggemmo Undici sogni neri di Manuela Draeger, anche lei scrittrice post-esotica, anche lei Antoine Volodine, e per la prima volta ci imbattemmo in Nonna Holgold, la centenaria immortale, e nel grande rogo del futuro, composto da tanti piccoli roghi che bruciano orfanotrofi, bruciano fabbriche, bruciano scuole, campi di lavoro e galere. Capimmo che per gli uomini e le donne di Volodine il sogno non è un gioco letterario o un espediente, ma la porta sul retro di una bottega apparentemente abbandonata in un villaggio falciato da un pogrom. In sogno, così, assaggiammo il pemmican, saporito e stomachevole mattone di cibo secco. Come nella poesia di Mandel'štam, con la testa che ci bruciava e ciondolava, ci inoltrammo tra sagome di abeti scuri, come non ne avevamo mai visti. In quella taiga – che però era una notte, una disgregazione in cui tutto vigilava disperatamente – incontrammo quelli che con commozione chiamiamo umani. Somigliavano ai soggetti ritratti dal pittore indiano Ananda Sunya. Uomini e donne, orfani, assassini, fuggiaschi, canaglie, perseguitati, stremati come cani da combattimento. Sulle schiene di alcuni di loro era appeso un cartello: «Non sappiamo chi sia questo essere, non siamo nemmeno sicuri che sia vivo. Solo un’autopsia potrebbe stabilirlo con certezza. Chiunque voi siate, fate in modo che la verità scientifica venga a galla. Aiutate la scienza. Uccidete questo essere». Li vedemmo allontanarsi con il loro cartello sulle spalle. Ma eravamo noi ad allontanarci. Nella letteratura di Volodine si cammina senza volerlo oppure si cammina spinti solo da una indomabile volontà.
Capimmo che ognuno aveva una storia da raccontare. Come durante la lettura alla Villa, una voce di sciamano raccoglieva le storie di tutti e le cuciva tra loro. Le figure che vedevamo apparire e scomparire nel paesaggio silenzioso conservavano, in qualche pozzo profondo, il ricordo della voce che raccontava la loro storia, il loro breve narrat incastonato come una pietra opaca sul gigantesco coperchio del forziere della storia mondiale, un immenso paradiso affollato di angeli minori, le cui vite non erano orizzonti temporali, ma sconfinamenti, o almeno così crede Antonie Volodine, perché una vita si espande fuori dal tempo, in un sogno secolare di pochi minuti. È lui stesso ad ammetterlo, in una intervista a «The Paris Review» in cui risponde sempre in prima persona plurale, parlando a nome di tutto il movimento poetico post-esotico. La nostra letteratura, i suoi individui, i suoi panorami geopolitici esplosi vengono dal nulla e vanno verso il nulla.
Non riuscimmo a liberarci di Volodine. Negli anni continuammo a rileggerlo. Il ricordo della notte a Villa Medici tornava a ogni temporale. Un giorno ricevemmo la notizia: Volodine aveva vinto un premio. C’era un nuovo libro di cui tutti parlavano, un’opera che gli era costata fatica e che, come tutti i suoi lavori, sembrava essere stata ritrovata dopo decenni in un archivio. Il titolo era Terminus radieux e noi non avevamo dubbi: dal futuro in cui si trovava e in cui tutta la letteratura post-esotica era già stata esplorata, esaurita e infine bandita, Volodine doveva averci inviato qualcosa di memorabile.
Terminus radioso, così si chiama da noi, è apparso nella nostra lingua poche settimane fa. Lo abbiamo letto ascoltando musica registrata in una foresta. Nelle sue pagine abbiamo ritrovato molti nomi familiari, nomi di uomini, di donne, di piante, di villaggi, tutti incatenati a un confine esteso come la taiga in cui risuona qualcosa che è simile a un canto. Corvi stanno appollaiati sugli alberi scuri intorno al kolchoz Terminus radioso. È lo spazio del Bardo, in cui vagano coloro che sono morti spesso senza rendersene conto. Qui potranno morire ancora innumerevoli volte oppure coltivare l’illusione di essere vivi, di poter resistere, parlare e «trovare rifugio nella pazzia, nel sogno, nella morte o in una combinazione di tutti e tre». Bruciano i romanzi post-esotici, nella terra del Bardo, nei falò dei reietti che si accampano lungo la ferrovia che li porterà verso il campo di lavoro a cui si consegneranno per essere liberi; bruciano quegli stessi libri che noi oggi, nel passato, leggiamo per quanto possiamo, perché alcuni di quei libri ancora non sono stati scritti né tradotti né pensati. Ci innamoriamo perdutamente di tutti gli uomini e di tutte le donne che Antoine Volodine racconta, apprendiamo della violenza delle loro infanzie e della spietatezza dei loro ultimi anni, l’eternità che ne precede l’estinzione. Ci troviamo al cospetto di una letteratura antica e mai ascoltata, leggendo Terminus radioso; ci troviamo al cospetto del Vij. E le piante mutate dalle radiazioni, così come i nomi degli uomini mutati dal tempo, sussurrano qualcosa, discorsi incisi su nastri deliranti che si sentono di tanto in tanto nell’aria del Bardo. Quando non c’è silenzio, certo. Quando il silenzio non è totale e gelido, e indica che Volodine ci ha portati «in uno di quei punti delle carte geografiche in cui non è più segnato nulla». Sono territori in cui aleggiano le presenze dei fratelli Strugackij, di Daniela Hodrovà, di Stanislav Lem, ma anche di Andrej Tarkovskij, che compare in forma d’acqua, e di Pavel Florenskij, dell’amore di Florenskij per il mistero della natura, per la fiaba millenaria e selvaggia che attraversa i secoli e approda per bocca di un cantastorie ramingo al tramonto dell’umanità, ormai incomprensibile ma intatta nello spirito, una fiaba cantata.
In quei luoghi, a volte, abbiamo avuto l’impressione di essere anche noi prigionieri del Bardo, ovvero liberi nel Bardo, e qualcosa ci ha trasformati in prototipi di scrittori post-esotici. Abbiamo visto davanti a noi ragazze figlie di stregoni, le loro teste rese calve dalla radioattività, i loro occhi di colori diversi e innaturali, «il cupo e fosco fuoco» che ci hanno dedicato prima di mostrarci come fossero in grado di spostare gli oggetti con il pensiero. Incantati da quello spettacolo, dopo aver letto l’ultima parola del quarantanovesimo capitolo di Terminus che è “fine”, siamo andati alla finestra e sopra le nostre teste, sopra i palazzi c’erano cumuli sferici e luce ocra. Sul balcone di fronte una vecchia stava seduta ad aspettare il temporale. Dal suo appartamento usciva la voce di Lyudmila Zykina che cantava Ivushka. Era lì, Nonna Holgold, conosciuta anche come Nonna Udgul. Si riposava prima di riprendere il lavoro, prima di ricominciare a scaraventare scorie, immondizie e cadaveri nella voragine radioattiva. Avevamo davvero finito di leggere il libro? La risposta, con nostro grande sollievo e terrore, era no. Fino a che i post-esotici non porteranno a termine i loro quarantanove volumi noi resteremo nel cataclisma umano parallelo, Nonna Udgul non morirà, lo spirito volerà sopra la desolazione rigogliosa e tutti continueremo a camminare in mezzo ai boschi di questo sogno.
Bibliografia italiana
Scrittori, Edizioni Clichy (2013), traduzione di Didier Contarini e Federica Di Lella
Undici sogni neri, Edizioni Clichy (2013), traduzione di Federica Di Lella
Angeli minori, L’Orma (2016), traduzione di Albino Crovetto
Terminus Radioso, 66thand2nd (2016), traduzione di Anna D’Elia
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